Intertestualità e insegnamento della letteratura
Un modo nuovo per leggere un testo
Cos’è l’intertestualità e perché negli ultimi anni la critica vi ha posto attenzione
Il termine “intertestualità” fu introdotto nella critica letteraria dalla psicoanalista francese di origine bulgara Julia Kristeva (1941-vivente) nel 1978, in un significato parzialmente diverso da quello attuale. Esso derivava a sua volta dalla lettura di un libro del critico letterario russo Michail Bachtin (1895-1975). Studiando Dostoevskij (Dostoevskij. Poetica e stilistica, tradotto in italiano nel 1968), Bacthin aveva segnalato che spesso, nella stessa pagina o addirittura nella stessa frase, si verifica la compresenza di due diverse “voci”, a loro volta rappresentanti di due diversi punti di vista, che dialogano implicitamente tra loro e che arricchiscono il tessuto semantico dell’opera. Bachtin chiamò questo fenomeno, che è proprio della lingua, plurivocità; il fenomeno analogo applicato ai testi scritti diventa l’intertestualità.
Più o meno negli stessi anni altri studi iniziano a porre attenzione, nell’analisi di un testo, a citazioni e riferimenti più o meno nascosti; comincia così a farsi strada l’idea che il testo letterario sia una struttura più complessa, che racchiude al suo interno altri testi e che non possa quindi essere studiato in modo semplice e lineare.
Sul finire degli anni settanta, si diffonde anche la cosiddetta estetica della ricezione, che sposta l’attenzione dal testo e dall’autore al lettore. Nel suo importante Lector in fabula (1979) Umberto Eco (1932-2016) sostiene che il testo è “una macchina pigra”, che per liberare la sua ricchezza di significati ha bisogno dell’attivazione di un lettore. Quanto più il lettore è competente – cioè possiede una ricca biblioteca di altri testi e una ricca enciclopedia di conoscenze – tanto più il testo potrà manifestare la sua ricchezza intertestuale, potrà rivelare la quantità di testi che soggiacciono, più o meno consapevolmente, alla sua creazione da parte dell’autore.
Una definizione operativa
Il panorama culturale qui sommariamente delineato andrebbe arricchito con altri nomi e con altri studi, come fa per esempio Bernardelli in una sua utile guida (Andrea Bernardelli, Che cosa è l’intertestualità, Carocci 2013); ma quanto detto può bastare per rendersi conto dell’attenzione che da qualche decennio a questa parte si riserva al fenomeno dell’intertestualità. Cerchiamo ora di darne una definizione operativa, che inevitabilmente dovrà essere un po’ riduttiva rispetto alla ricchezza di sollecitazioni provenienti dal lavorìo critico di cui si è detto, ma che avrà il pregio di avere una più facile applicazione didattica. Seguendo, con qualche integrazione, Angelo Marchese (Dizionario di retorica e di stilistica, Utet 2015), potremmo allora definire l’intertestualità come “l’insieme delle relazioni con altri testi che si manifestano all’interno di un dato testo; tali relazioni rapportano il testo sia ad altri testi dello stesso autore sia a testi di altri autori sia ai modelli letterari impliciti o espliciti ai quali può fare riferimento”.
Già al momento della sua prima introduzione nell’ambito della critica letteraria, molti obiettarono che “intertestualità” sembrava semplicemente una nuova etichetta applicata a fenomeni che si erano sempre conosciuti e studiati, come la reminiscenza, il ricorso alle fonti, l‘allusione, la citazione; e si potrebbero aggiungere altri procedimenti intertestuali, ora più studiati, come la parodia, il pastiche, la caricatura, le continuazioni seriali, i plagi, le trasposizioni figurative e cinematografiche o televisive ecc. È certamente vero che l’intertestualità comprende nel suo vasto ambito anche tutti questi procedimenti, alcuni dei quali antichissimi; ma nuovo è l’orientamento con cui li individua e li valuta e quindi la comprensione che ne deriva. L’idea di partenza è ancora quella della Kristeva, sia pure con tutte le correzioni che possono venire apportate: “ogni testo si esprime come mosaico di citazioni, ogni testo è assorbimento e trasformazione di un altro testo”. Ciò non significa negare il ruolo dell’autore né negare l’individualità del testo: significa anzi istituire una feconda dialettica tra quello che potremmo ancora chiamare il genio creatore e il sistema letterario e culturale di cui fa parte integrante; e significa anche, come ha indicato bene Segre, sottrarre il testo dal suo splendido isolamento e riconoscere che esso fa parte di un insieme, “di un discorso sviluppato attraverso i testi, come dialogicità le cui battute sono i testi, o parti di testi, emessi dagli scrittori”. Inoltre, rintracciare le intertestualità permette di accentuare la compresenza, in un medesimo testo, di almeno due codici, quello del testo di arrivo e quello del testo di provenienza: il testo ultimo assorbe nel proprio codice il testo precedente e in tal modo lo assimila, facendolo risignificare.
Un esempio di analisi intertestuale
Vediamo un esempio di intertestualità dalle ultime righe dei Promessi sposi, quelle che contengono “il sugo della storia”. Il narratore prima dà la parola a Renzo, che elenca tutto quello che ha imparato dalla sua avventura, poi introduce Lucia:
Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, «e io,» disse un giorno al suo moralista, «cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che son venuti a cercar me. Quando non voleste dire,» aggiunse, soavemente sorridendo, «che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.»
Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c'è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia.
La quale, se non v'è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l'ha scritta, e anche un pochino a chi l'ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s'è fatto apposta.
Nella seconda riga, il sostantivo moralista è un chiaro esempio di plurivocità/intertestualità: è termine di Lucia, che prende benevolmente in giro Renzo, accusandolo di moraleggiare con troppo facilità e di trarre conclusioni improprie dalla sua esperienza, come se bastasse non cacciarsi nei guai per evitarli; ma è anche termine del linguaggio filosofico e teologico (usato anche da Manzoni nella Morale cattolica), a indicare gli studiosi e gli scrittori di filosofia morale.
Io non sono andata a cercare i guai: son loro che son venuti a cercar me: qui Lucia cita, in forma dimessa, il salmo 118 della Bibbia, versetto 143 (Tribulatio et angustia invenerunt me, cioè Angoscia e affanno mi hanno colto), mediato attraverso il commento di un grande “moralista” francese del Seicento, Louis Bourdaloue: Les inquietudes et les embarras me sont venus trouver? Je ne les cherchais pas; I tormenti e gli affanni mi sono venuti a trovare? Io non li avevo cercati.
Sproposito è un caso di intertestualità interna: Lucia infatti, non senza un pizzico di malizia, cita Renzo, il quale, quando lei aveva negato il proprio consenso al matrimonio a sorpresa, era ricorso a un ricatto affettivo, minacciando di fare qualche sciocchezza: Volete tornare indietro, ora? e farmi fare uno sproposito? (cap. VII). Gli segnala che lei di spropositi non ne ha né fatti né minacciati, tranne, forse, quello di amare lui: perché è solo per questo motivo che i guai sono andati a cercarla.
Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero: “dibattere”, “cercare”, “concludere” sono termini del narratore, e forse possibili anche in bocca a Renzo e Lucia, almeno “cercare” e “concludere”. Ma la terna così collocata richiama inevitabilmente termini propri del dibattito filosofico: che cosa fanno i filosofi se non dibattere, cercare e infine concludere? Sono verbi che rimandano, in particolare, alla ricerca della verità messa in scena nei dialoghi socratici.
Il sugo di tutta la storia: sugo è termine volutamente basso, ricalcato sul milanese sugh d’un discors (succo di un discorso) e serve ad abbassare il sintagma che segue (tutta la storia), molto usato in poesia e in prosa (per es., da Battista Guarini, al termine del secondo atto del suo pastor Fido: E sarà ben che tu da capo / tutta la storia del tuo amor mi narri). Qui esso significa in realtà non solo la storia raccontata nei Promessi sposi, cioè quella del tribolato amore tra Renzo e Lucia, ma letteralmente tutta la storia, compresa quella con la S maiuscola. Ce lo chiarisce un’altra intertestualità interna, che ci manda all’Introduzione del romanzo, la cui prima parola è per l’appunto L’Historia. L’apparentemente modestissimo sugo tratto da Renzo e Lucia assurge nientemeno che al ruolo del senso di tutta la Storia dell’uomo.
La quale, se non v'è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l'ha scritta, e anche un pochino a chi l'ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s'è fatto apposta.
Nelle due righe conclusive, che riuniscono le due figure separate del narratore primo (l’anonimo) e del narratore secondo (il rifacitore), l’ammicco intertestuale si rivolge a uno dei romanzi più importante del Settecento europeo, il Tom Jones (1749) del romanziere inglese Henry Fielding (1707-1754): Siamo giunti, lettore, all’ultimo tratto del nostro viaggio… Ed ora, amico, prendo quest’occasione per farti tanti buoni auguri. Se ti sono stato un compagno divertente, t’assicuro che questo era tutto ciò che desideravo; e se in qualche cosa t’ho offeso, non l’ho fatto apposta (Nigro).
Come si vede dall’esempio, il metodo intertestuale non consiste nell’accumulare fonti, spesso insignificanti, a dimostrare la cultura o le letture dell’autore; bensì nel selezionare quei testi con i quali il testo analizzato dialoga per pervenire a una sua migliore comprensione. Nel caso in questione, le intertestualità bibliche, dei moralisti e del lessico filosofico sono strumenti di cui Manzoni si serve per innalzare i due umili protagonisti della storia alla stessa dignità dei grandi storici e dei grandi filosofi: come loro, e forse meglio di loro, anch’essi sono in grado di comprendere il senso della storia; a loro quindi, non al narratore, spetta indicarla.
Modesta proposta d’uso dell’intertestualità
La consapevolezza che un testo letterario nasce da un’intenzione d’autore che si intreccia e si misura con altri testi, che l’opera non è un oggetto isolato, ma il frutto di una continua interazione, che non è una affermazione di sé ma un continuo dialogo con individui altri da sé, potrebbe costituire un utile stimolo per affrontare temi e problemi di ben più vasta ma analoga portata: quanto della nostra singola individualità si deve all’apporto di altre individualità? Quanto della nostra cultura è per così dire autoctono e quanto invece è frutto dell’innesto di innumerevoli altri popoli? L’isolazionismo è una strategia di vita e di politica praticabile? Nel caso specifico, il dialogo tra Renzo e Lucia, che partono da posizioni diverse, ma che cercano, dibattono e concludono insieme non può costituire un modello sul quale costruire i nostri rapporti interpersonali, interculturali, interreligiosi, politici?
Tanto lontano ci può portare una così breve analisi di una così piccola porzione di un testo letterario: perché il testo letterario, a sua volta, dialoga con noi: ci interroga e ci risponde, parlando sempre del nostro presente e dei temi del nostro presente. Certo, bisogna almeno disporsi ad ascoltarlo.
Referenze iconografiche: Elizabeth Given/Alamy Stock Photo