«L’amor che move il sole e l’altre stelle»

Lecturae Dantis

Entriamo ora nel merito del canto XXXIII (vv. 39-145), la visione di Dio. Ovvero la visione della verità della vita, vista da un uomo che è lì con il suo corpo, con la sua storia, con i suoi affetti, con tutta la potenza della sua ragione; e perciò vuol capire.

Aveva cominciato così nel primo canto, finisce così nell’ultimo: vuol capire, vuol conoscere; e perciò indaga la natura stessa di Dio, cioè la natura dell’essere, la natura dell’uomo e della realtà. Ha chiesto, ha fatto chiedere da Beatrice e da san Bernardo la grazia di poterlo fare, e la grazia gli viene concessa. […]

E io ch’al fine di tutt’ i disii
appropinquava, sì com’ io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.

E io che stavo per arrivare al compimento di tutti i miei desideri, così come era necessario che io facessi, «l’ardor del desiderio in me finii». Che non vuol dire che l’ardore del desiderio è finito, si è spento; al contrario, finire nel senso di portare a termine, compiere: l’ardore del desiderio arrivò al culmine, raggiunsi l’apice del desiderio.

Bernardo m’accennava, e sorridea,
perch’ io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:

Bernardo, che dagli sguardi di Maria ha capito che è andata bene, che la richiesta è stata accolta, fa un cenno a Dante con un sorriso come per dirgli: è andata, hai il permesso, tira su la testa e guarda. Ma io «era / già per me stesso tal qual ei volea», avevo già capito tutto anch’io e avevo già fatto quel che diceva

ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l’alta luce che da sé è vera.

«L’alta luce che da se è vera» è Dio. E succede una cosa straordinaria: Dante alza la testa e guarda Dio, e più lo guarda e più l’oggetto dello sguardo cambia, si trasforma. O meglio, non è Dio che cambia, Lui è sempre lo stesso; ma è la vista di Dante che, «venendo sincera», purificandosi, diventando quel che deve essere, «più e più intrava», vede sempre più a fondo, scopre aspetti via via diversi. Si è compiuta la grazia che era stata chiesta: «perché tu ogne nube li disleghi» (v. 31), che tu liberi il suo sguardo da ogni nuvola aveva chiesto san Bernardo alla Madonna. Così la sua vista, diventando sempre più «sincera», cioè più acuta, più limpida, comprende aspetti del mistero di Dio sempre più profondi.

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.

Da qui in avanti «il mio veder», quel che ho visto, «fu maggio», è stato infinitamente maggiore «che ’lparlar mostra», di quel che riesco a dire con le parole: davanti a una vista simile la parola cede, e cede la memoria «a tanto oltraggio», colpita da una cosa tanto più grande della sua povera capacità umana. Insomma, Dante dice: abbiate pazienza, riesco a dire quel che riesco, provateci voi a vedere Dio e poi a raccontarlo...

Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ’l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,

cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.

Se volete rendervi conto dell’impresa a cui mi accingo, pensate a quel che ci succede quando sogniamo: quando ci svegliamo i contorni precisi del sogno non ci vengono in mente, facciamo fatica a ricordare con precisione l’azione, le parole, i soggetti... Ci rimane invece impressa «la passione», cioè il sentimento che in quel sogno abbiamo provato: la paura se è stato un incubo, la dolcezza infinita se un sogno piacevole. Si perdono i contenuti precisi del sogno, ma rimane vivo, come testimonianza dei suoi contenuti, il sentimento che han provocato. «Cotal son io, ché quasi tutto cessa / mia visïone»: non mi ricordo quasi più niente, ma che cosa documenta in me ciò che ho visto? «Il dolce che nacque da essa», la dolcezza che era nata da quella visione, «che ancor mi distilla nel cuore», che anche solo a ricordarla provo ancora. […]

Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.

E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito.

Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!

Adesso Dante comincia a raccontare l’impossibile, la visione di Dio; e dice: io credo che «soffersi», che sopportai di reggere «l’acume del vivo raggio», una luce così acuta, perché mi resi conto che se avessi staccato gli occhi da lì mi sarei perso. Non si riesce, non si riesce proprio a staccare gli occhi quando si vede il vero. È difficile, è faticoso, la vista è ferita; ma viene naturale, non si può fare a meno di rimanere lì a godere di questa bellezza, di questa verità.

E così, proprio per questo sentimento di attrattiva ultima, definitiva, «io fui più ardito», ho preso ancor più coraggio e mi sono impegnato a guardare, «tanto ch’i’ giunsi / l’aspetto mio col valore infinito», tanto che il mio sguardo e il «valore infinito», cioè il cuore di Dio, si sono incontrati.

Che grazia eccezionale quella per cui ho potuto fare una cosa così straordinaria, che presunzione «ficcarlo viso per la luce etterna», tanto che tutta la mia capacità di visione si è consumata lì, si è giocata lì.

E quando ha fissato lo sguardo nel cuore di Dio, che cosa ha visto Dante?

Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:

sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.

Prima visione. Nella profondità di Dio vidi che «s’interna», che sta custodito dentro, come un bimbo nel grembo di sua madre, «legato con amore in un volume», avvolto dall’amore di Dio, «ciò che perl’universo si squaderna», ciò che nell’universo è slegato, separato, diviso. Dante usa l’immagine del libro: un libro è squadernato quando è saltata la rilegatura e i fogli sono volanti.

Noi abbiamo un’esperienza dell’essere e delle cose apparentemente (cioè nell’apparenza, non nella sostanza) fratturata, divisa. Ma Dante dice: ciò che per l’universo «si squaderna», è separato, diviso, contradditorio, ci ferisce, ci fa soffrire, io l’ho visto stare insieme. Come se nel cuore della terra una sorgente segreta desse la vita a tutto e tenesse insieme quello che a noi invece appare come squadernato.

Certo, riesco a darvi solo una pallidissima idea («un semplice lume») di questa profonda unità che tiene insieme le cose; però coraggio, perché ciò che sentite diviso, ciò che appare così contradditorio e contro di voi, non lo è. Niente è contro di voi. Nulla della realtà vi tradisce, fidatevi, perché tutto è legato, rilegato, tenuto insieme con amore come in un volume. È il compimento della promessa, dell’annuncio che aveva fatto all’ingresso in paradiso, nel canto I: «Le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante». C’è un ordine nella vita che non possiamo vedere dalla terra, possiamo solo intravederlo. Io l’ho visto! Coraggio, non abbiate paura.

La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

Qui riprende quanto ha detto a proposito del sogno, del sentimento che rimane come segno dell’esperienza fatta: io credo (non nel senso di ritengo, suppongo, ma proprio del Credo: sono sicuro, sono certo) di aver visto questa unità, «la forma universal di questo nodo», ciò che tiene legato tutto, altrimenti non mi spiegherei il fatto che anche solo nel dirlo, nel provare a raccontarvelo, provo una pace, provo un godimento così ampio, così profondo. Lì tutto è tenuto insieme: vita e morte, il male e il bene, fino al capello del vostro capo, il desiderio di andare in paradiso e di trovare la vostra Beatrice, o il lampione verde e la cassetta postale rossa all’angolo di casa vostra, come dice Chesterton1, ogni momento della storia, ogni momento del tempo, ogni particolare di ogni momento del tempo, tutto.

Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.

Dopo questa incredibile intuizione mi sono bloccato: la mia mente, attratta fino alla radice da questo spettacolo, guardava «fissa, immobile e attenta, / e sempre di mirar faceasi accesa»,e più guardavo e più desideravo guardare. Abbiamo già osservato che la soddisfazione del desiderio non lo spegne, lo alimenta.

Descrivendoci questa dinamica, che differenza stabilisce tra essere contenti e accontentarci! Dico sempre ai ragazzi a scuola che sono due cose completamente diverse: accontentarsi è la morte, è l’inferno; essere contenti è il paradiso. Accontentarsi vuol dire fermarsi, quella posizione – si chiama peccato – per cui ti fermi a un oggetto e ascolti il diavolo che dice: sei arrivato, non andare oltre, non desiderare più, vola basso. Invece essere contento significa essere in movimento, godere della cosa che si ha davanti e insieme muoversi, oltrepassarla, andare sempre più in là fino alla fonte della sua bellezza. E anche qui Dante, arrivato alla fonte della bellezza, è contento, ma non si accontenta, ama e desidera sempre più amare. Meraviglioso! Dante è proprio il poeta del desiderio.

A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;

Davanti a quella luce, a quello spettacolo, si diventa tali che è impossibile volgersi ad altro, di-vertirsi. Ci si con-verte: lo sguardo si sposta finalmente sull’oggetto vero del desiderio. E perciò in questa corrispondenza non vien più voglia di guardare altro, è impossibile de-vertere, divertirsi, spostare lo sguardo su altro.

però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch’è lì perfetto.

Perché succede questo dinamismo che abbiamo descritto? Perché il bene – ciò per cui siamo fatti, l’oggetto del volere, del desiderio – lì c’è tutto; perciò fuori sarebbe «defettivo», difettoso, mancante, ciò che invece lì è perfetto. Come si fa a desiderare una cosa imperfetta, sporca, anziché nel suo grado massimo di perfezione, perciò di bellezza e di gloria? È impossibile.

Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.

Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
che tal è sempre qual s’era davante;

ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’ io, a me si travagliava.

Arriva la seconda visione, che Dante introduce così: adesso io riuscirò a dirvi ancora meno, perché non solo il ricordo non è all’altezza dell’oggetto, ma a sua volta la parola non è all’altezza del ricordo, è più debole, più inadeguata di quella di un bambino appena nato. Non perché le immagini che guardavo fossero più di una: io continuavo a guardare Dio, «che tal è sempre qual s’era davante», che è sempre quel che era prima; è la mia vista che «s’avvalorava in me guardando», che più guardavo, più diventava acuta, cambiava profondità, potenza. E così l’unico aspetto divino («una sola parvenza») si trasformava ai miei occhi via via che io stesso cambiavo («mutandom’ io, a me si travagliava»). Lui era sempre lui, ma lo vedevo in modo diverso perché ero io a cambiare cambiando il mio modo di vedere, la potenza della mia vista.

Ci sarebbe tanta riflessione da fare. Quante volte chiamiamo realtà ciò che vogliamo vedere? Quante volte abbiamo fatto lo sforzo di puntare lo sguardo sulla verità delle cose, curiosi, bisognosi di arrivare al cuore delle cose? Se facessimo questo lavoro, che si chiama conversione, la nostra vista vedrebbe cose che altrimenti non può vedere, che il pregiudizio non fa vedere. Non è la realtà che è brutta, il problema è che vedi quel che vuoi vedere. La realtà è quella, è sempre lì. Puoi aprire la finestra, vedere che piove e maledire: «È quattro mesi che piove, arriverà la primavera!». Oppure dire con san Francesco: «Laudato si’, mi’ Signore, per sor’acqua, la quale è multo utile et umile et pretiosa et casta». La realtà è quella, piove sempre, ma che cosa vede san Francesco? Perché vede di più? Perché la medesima realtà ingenera in lui una pace, una gratitudine e una lode, mentre in noi genera rancore, risentimento, depressione, malumore? È un modo di guardare. Bisogna avere il coraggio di lasciare che qualcosa, qualcuno, ci muti lo sguardo, ci aiuti a guardare.

E così si purifica, si affina lo sguardo di Dante, tanto che ci offre tre visioni man mano più profonde, più acute. L’esempio che faccio sempre a scuola è quello dei cannocchiali panoramici a gettone. Tu inserisci un euro e improvvisamente la montagna ti si avvicina. Poi dai un colpo di zoom e, tacchete, una casa. E stai sempre guardando lo stesso panorama, però prima vedevi una montagna, poi vedi la casa. Che cos’hai fatto? Hai potenziato la vista: con la zoomata il tuo occhio si è fatto più acuto. Poi un altro colpo di zoom e, tacchete, un fiore, perché sul terrazzo della casa c’è un vaso di gerani. C’era anche prima, è sempre lo stesso oggetto, ma è la vista che, «venendo sincera», arriva a vedere di più, come se fossero cose diverse. Una montagna, una casa, un fiore, eppure stai sempre guardando lo stesso oggetto. Dante racconta che gli succede proprio questo.

Ed ecco la seconda visione:

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.

Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.

Nella profonda e luminosa essenza («sussistenza») divina, ossia andando ancora più dentro il cuore di Dio, mi sono apparsi tre cerchi, «di tre colori e d’una continenza», di tre colori diversi, ma della medesima circonferenza (la definizione teologica della Trinità, ossia tre persone uguali e distinte). E uno di essi (il Figlio) sembrava riflesso dall’altro (il Padre) come un secondo arcobaleno si genera dal primo («come iri da iri»), e il terzo (lo Spirito Santo) sembrava fuoco che spirasse allo stesso modo dall’uno e dall’altro («quinci e quindi»).

Come faccio – dice il povero Dante davanti a tanto prodigio – a spiegarvi la Trinità? E quindi fa quel che può, e si è inventato la storia delle tre luci che si illuminano e si riflettono a vicenda; tre, ma sovrapposte così che al tempo stesso appaiono come una sola. Un’invenzione, ma geniale! E che traduce proprio il Credo: «Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero». Ciascuno ricava l’esistenza dalla luce dell’altro, uno genera l’altro in continuazione.

«Oh quanto è corto il dire», com’è poco, insufficiente quello che vi dico. E questo, in confronto a quello che sono riuscito a dirvi, è così poco che non basta dire che è “poco”.

O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!

Qui c’è tutta la filosofia aristotelica, tutto san Tommaso. Sta dicendo il dinamismo di Dio, dell’essere: una intelligenza, una sapienza, un amore in cui le tre persone si riconoscono l’una con l’altra, si affermano, si conoscono, si amano l’una con l’altra. Esistono l’una per l’altra.

E arriviamo al terzo grado della visione.

Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.

Ricapitoliamo. La prima visione è la natura dell’essere, del creato, «legato con amore» nella sua sorgente, in Dio. La seconda visione è il mistero dell’unità e trinità di Dio. Ora, terza visione, terza “zoomata”, il mistero dell’Incarnazione.

Quando quel cerchio (il secondo) che in te (Dante si sta rivolgendo alla «luce etterna» di Dio del v. 124) appariva come luce riflessa fu guardato, investigato a lungo («alquanto circunspetta») dai miei occhi, mi parve che avesse dipinto dentro di sé la nostra sembianza umana del suo stesso colore, per cui il mio sguardo era tutto concentrato in lei.

Dice Dante: quando ho fissato il cuore di Dio, l’intimità di Dio, la natura più profonda di Dio, laggiù, nella profondità del Mistero «mi parve pinta de la nostra effige», ho visto un volto d’uomo. Un volto d’uomo, capite? Il naso, le orecchie, la barba… Ho visto la nostra faccia, ho visto la faccia di un uomo come noi, uguale a noi.

Anzi, «per che ’l mio viso in lei tutto era messo»: letteralmente vuol dire che lì la mia capacità di vedere si è giocata interamente, in tutta la sua potenza, e solo allora ho visto un volto d’uomo nell’intimità di Dio. Ma a me piace pensare che questo «mio viso in lei tutto era messo» voglia anche dire: ho riconosciuto in quel volto il mio. Ho visto lì la mia vera immagine, la mia vera identità, il mio vero nome. Lì è custodita la verità della mia persona. La mia, non la vostra, la mia, con le caratteristiche fisiche che ho.

Il mistero dell’Incarnazione in quel volto – che è il volto di Gesù – ha reso riconoscibile il volto di ciascuno. È come se Dante avesse messo Dio alle corde dicendogli: «Lasciamo stare la teologia e la filosofia, adesso che sono qui, Dio, chi sei? Dimmi in una parola, chi sei? Qual è la tua vera natura?». E Dio gli risponde: «Ma come, non hai capito? Io sono te. Io sono te e tu sei me. E siamo fatti della stessa natura, perché ti ho fatto io. A mia immagine e somiglianza» («del suo colore stesso» vuol dire della stessa natura). Nato, voluto, pensato dall’eternità lì, nel cuore di Dio, puro amore, pensiero di Dio dall’eternità, ho trovato me stesso. L’avevamo anticipato: quel che si era detto della Madonna, «termine fisso d’etterno consiglio», siamo anche noi.

Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.

Come un matematico che diventa matto per cercare la quadratura del cerchio, ma con tutti i suoi calcoli non trova il principio, la formula «ond’elli indige», di cui è indigente, bisognoso, così ero io: di fronte a quella vista nuova volevo capire, ma per quanti sforzi facessi non ci riuscivo.

Torno a ripetere: come si fa a dire che Dante avrebbe abbandonato la ragione alla fine del purgatorio? Ora è davanti a Dio, ha visto il mistero dell’essere, ha visto il mistero della Trinità, ha visto il mistero dell’Incarnazione, e che cosa fa? Si abbandona all’estasi mistica? No, vuole capire. E si domanda: come si spiega? Come ha fatto Dio, l’Essere che genera tutto, a entrare nella vita e nella carne di un uomo? Io «veder voleva», volevo capire, volevo vedere con i miei occhi «come si convenne / l’imago al cerchio e come vi s’indova», com’è possibile che nella profondità di Dio, nella sua natura di amore trinitario, sia sbocciato improvvisamente l’essere che è diverso da Dio; che ne partecipa, ma è diverso, è altro. Come ha fatto Dio a fare l’uomo? Come ha fatto a farlo e insieme diverso da lui? E com’è possibile che lui, Creatore, abbia accettato di farsi creatura? Come sta l’imago dentro al cerchio? Com’è possibile rinvenire questa faccia d’uomo nella profondità del Mistero trinitario?

«Ma non eran da ciò le proprie penne». Le mie ali (metaforicamente, le capacità umane) non erano capaci di tanto, di volare a tale altezza.Qui sì, qui la ragione si deve proprio fermare. La ragione umana non è la ragione di Dio, ha un limite. Per cui esige il Mistero, lo afferma, e in questo senso l’affermazione del Mistero è quanto di più ragionevole la ragione possa dire; ma, proprio nel momento in cui è tesa nel suo massimo sforzo di comprensione, ha il coraggio di fermarsi e di dire che ci sono ragioni più grandi di sé. «Il supremo passo della ragione è riconoscere che ci sono un’infinità di cose che la sorpassano» direbbe Pascal2. «Ci sono più cose in cielo e in terra che nella tua filosofia» gli farebbe eco Shakespeare3.

E qui, sull’estremo lembo della ragione – come abbiamo già detto4 – fiorisce la fede. «La mia mente fu percossa / da un fulgore in che sua voglia venne»: un’ultima illuminazione divina mi ha consentito di capire, ha risposto al desiderio («sua voglia») della mia ragione. Quella domanda che apparentemente non aveva soluzione invece in un istante di folgorazione, in un istante di grazia, ha avuto risposta.

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

Lì, in quell’istante di totale comunione, di immedesimazione totale con la Verità, con la Bellezza, la mia capacità poetica ha perso ogni potere, non serviva più.

Perché «l’amor che move il sole e l’altre stelle», cioè Dio, fonte e origine del movimento di tutto l’universo così come del movimento di un capello del nostro capo, aveva afferrato «il mio disio e ’l velle», il mio desiderio e la mia volontà, e li «volgeva», li faceva ruotare, li muoveva, in totale armonia col resto dell’universo, proprio come i nove cieli («rota» è il cielo) si muovono incessantemente per vivere l’assoluta e totale comunione con l’Essere e col Mistero: ecco, io per un istante ho avuto la grazia di partecipare di questo movimento, cioè della vita di Dio.

Lì non c’è più bisogno di ragione e ogni parola cede, lì la conoscenza e l’amore, cioè la partecipazione al movimento di Dio che muove tutto perché tutto si muove per partecipare del movimento di Dio, coincidono perfettamente. Non c’è più un percorso da fare, una ragione in senso classico da esercitare, non c’è più una parola che per approssimazione cerca di avvicinarsi alla verità. Lì tutto è pienezza di luce, è bellezza, verità. Non c’è una fatica da fare, l’amore e la conoscenza coincidono perfettamente. Amare è conoscere, conoscere è amare (si conosce veramente soltanto ciò che si ama veramente, e si ama veramente soltanto ciò che veramente si conosce, insegna sant’Agostino5).

Ma se uno intuisce appena appena questa dinamica, deve ricominciare dall’inizio. «Nel mezzo del cammin di nostra vita»: sentite come lo leggereste in modo diverso? Se la posta in gioco è questa, se si può fare questa esperienza, allora vien voglia di rifare subito il percorso, di ripercorrerlo per tornare a capire di più. Perché, guardato da questo punto di vista, guardato con la consapevolezza che abbiamo acquistato, ogni accento, ogni rimando, ogni parola che si specchia da una cantica all’altra costruisce un disegno, una proposta: che la vita su questa terra possa essere esperienza di paradiso, dove la conoscenza vera e l’amore vero tendenzialmente coincidono.

Ma – ripeto, e concludo, teniamolo sempre presente – stiamo parlando della vita su questa terra. Che può essere un inferno, il più delle volte è certamente un purgatorio, ma può avere squarci di paradiso, di una chiarezza, di una bellezza, di una pace che tengono su anche tutto il resto.

Note

  1. «Se per me c’è una casa su in cielo, davanti ad essa deve esserci un lampione tinto di verde e una siepe, o qualche cosa di concreto e inequivocabile come un lampione verde e una siepe. [...] Il Paradiso è in una data località e non dappertutto: è qualche cosa di preciso e non già qualsiasi cosa». Gilbert K. Chesterton, Le avventure di un uomo vivo, Piemme, Casale Monferrato 1998, pp. 165-166.
  2. Blaise Pascal, Pensieri, 267.
  3. William Shakespeare, Amleto, atto I, scena V.
  4. «La fede rappresenta il compimento della ragione umana. Essa è l’intelligenza della realtà nel suo orizzonte ultimo, il riconoscimento di ciò in cui tutto consiste. L’intelligenza naturale non riesce a toccare questo orizzonte ultimo. È soltanto per qualcosa che è accaduto, per l’avvenimento di Dio fatto uomo, per il suo dono, che la nostra intelligenza rinnovata può riconoscerlo e toccarlo. La fede coglie così un culmine oltre la ragione; senza di essa la ragione non si compie, mentre in essa la ragione diventa scala della speranza. La fede è razionale, in quanto fiorisce sull’estremo limite della dinamica razionale come un fiore di grazia, cui l’uomo aderisce con la sua libertà». Luigi Giussani, in Luigi Giussani, Stefano Alberto, Xavier Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, p. 32.
  5. «Che cos’è la vita beata se non possedere, mediante la conoscenza, qualcosa di eterno? Eterno infatti è solo ciò di cui si è fermamente convinti che non può essere tolto a chi l’ama; l’eterno poi è lo stesso di possedere e conoscere. L’eternità è la più eccellente di tutte le cose, e perciò non possiamo averla se non per mezzo della facoltà che ci rende superiori, cioè la mente. Ora ciò che si possiede con la mente si ha conoscendolo, e nessun bene è conosciuto perfettamente se non si ama perfettamente». Agostino d’Ippona, Ottantatré questioni diverse, 35, 2.
Franco Nembrini: docente di Letteratura italiana nella scuola secondaria per oltre vent’anni, è attualmente rettore del Centro Scolastico La Traccia di Calcinate (BG). Dalle sue innumerevoli letture dantesche in ogni parte d’Italia e all’estero sono nati i tre volumi di Dante poeta del desiderio, Itacalibri 2011-13.

Referenze iconografiche: VTR/Alamy Stock Photo

Franco Nembrini

docente di Letteratura italiana nella scuola secondaria per oltre vent’anni, è attualmente rettore del Centro Scolastico La Traccia di Calcinate (BG). Dalle sue innumerevoli letture dantesche in ogni parte d’Italia e all’estero sono nati i tre volumi di Dante poeta del desiderio, Itacalibri 2011-13.