La poesia del vento
Un percorso nella letteratura italiana del Novecento
Tra le abilità più complesse che uno studente dovrebbe acquisire durante il percorso scolastico vi è la capacità di sintesi, il che vuol dire saper affrontare un tema specifico in modo preciso e al contempo originale, richiamando opportunamente le conoscenze. Si tratta, per noi insegnanti, di educare al senso della complessità, ma di una complessità posseduta con sicurezza dagli studenti; una complessità che non si disgiunge dalla chiarezza, ma che anzi la richiede.
A tal fine potrebbe essere utile fornire in classe l'esemplificazione di un discorso complessivo attorno a un'immagine poetica di grande diffusione e di grande valenza simbolica, qual è quella del vento. Un'immagine già cara agli antichissimi, come dimostrano i poemi omerici e la Bibbia, e molto diffusa anche nella letteratura italiana, da quella delle origini (pensiamo a Dante e a Petrarca), fino a Foscolo e a Leopardi. Nelle Ricordanze, per esempio, il vento reca con sé «il suon dell'ora», divenendo quindi il simbolo dello scorrere del tempo e di ciò che lo scorrere del tempo comporta. È quanto viene descritto anche nell'Infinito: «E come il vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando: e mi sovvien l'eterno…».
Questo legame tra il vento e il fluire del tempo è attivo nella metafora proverbiale del "vento della storia", che nella tradizione filosofica dell'Idealismo rappresenta l'azione dello Spirito nella dimensione del saeculum: il vento del progresso, che sconvolge le esistenze personali, il vento dell'inatteso, dell'inaspettato, dell'imponderabile che pervade le vicende storiche, individuali e collettive.
La molteplicità prospettica di questa immagine innerva in modo peculiare la letteratura italiana maturata negli anni terribili dei conflitti mondiali: l'inatteso è qualcosa di profondamente conturbante nella condizione di precarietà dell'uomo novecentesco.
Il vento vitale o ostile nella poetica di Eugenio Montale
Nell'opera poetica di Eugenio Montale, a partire dagli Ossi di seppia, questa immagine ha una «caratterizzazione ancipite»: a volte essa è «segno di vitalità positiva»; a volte, invece, è la «perturbante manifestazione di una realtà esterna ostile».
Il vento compare subito nella raccolta montaliana, fin dal primo verso del proemiale In limine: «Godi, se il vento ch'entra nel pomario / vi rimena l'ondata della vita». In esso è avvertibile l'idea di un cambiamento di vita non solo individuale, ma direi cosmico, universale; in pochi versi vengono ricordati, infatti, i quattro elementi della natura: l'aria (il vento), la terra (il pomario) e l'acqua (l'ondata); pochi versi dopo, invece, il poeta parlerà di un crogiuolo (facendo quindi riferimento all'elemento del fuoco). Il vento, in questo testo, è un'immagine inequivocabilmente positiva: rappresenta l'ondata della vita che dona godimento, «il commuoversi dell'eterno grembo», la trasformazione di un «lembo / di terra solitario in un crogiuolo».
Negli Ossi di seppia, però, troviamo un trittico specificamente rivolto a tale immagine, intitolato L'agave sullo scoglio, dove l'io poetico si identifica con la pianta esposta al mutare delle condizioni atmosferiche. È un trittico dedicato a tre venti, che rappresentano diversi passaggi, stati d'animo, «prospettive esistenziali», nonché tre diverse allusioni melodiche. Il primo testo è quello dello Scirocco, che viene da sud-est, e del suo «rabido ventare», simbolo degli «inafferrati eventi, / luci-ombre, commovimenti / delle cose malferme della terra». Il secondo testo invece è legato al vento di Tramontana, che proviene da nord, immagine di «una volontà di ferro» che «spazza l'aria, / divelle gli arbusti, strapazza i palmizi»; esso è «un urlo solo, un muglio / di scerpate esistenze». L'agave è atterrita da questi venti, da questi spiriti nemici che «sorvolano a sciami» «la convulsa terra», e tale timore esistenziale induce nell'uomo-agave un più profondo attaccamento alle sue radici. Nel terzo testo, invece, il poeta descrive l'arrivo del Maestrale, il quale, provenendo da nord-ovest, porta il bel tempo, la calma, il mare rasserenato: «Una carezza disfiora / la linea del mare e la scompiglia / un attimo, soffio lieve che vi s'infrange e ancora / il cammino ripiglia». L'agave rifiorisce e sugli steli vede comparire i suoi primi germogli. La poesia si chiude con un movimento di elevazione, dove l'inquietudine esistenziale del poeta si riflette nel desiderio di autotrascendimento del cosmo: «Sotto l'azzurro fitto / del cielo qualche uccello di mare se ne va; / né sosta mai; perché tutte le immagini portano scritto: "più in là"». Il trittico de L'agave sullo scoglio si chiude dunque con questo colpo d'ala, con questo gesto vitale positivo. Al proposito, non va dimenticato che le tre prime raccolte poetiche montaliane si concludono sempre "in levare", con un desiderio che va oltre la sofferenza esistenziale dell'io del poeta. Gli Ossi di seppia, infatti, si concludono con l'anelito di Riviere: «Sentire / noi pur domani tra i profumi e i venti / un riaffluir di sogni, un urger folle / di voci verso un esito; e nel sole / che v'investe, riviere, / rifiorire». Le occasioni, invece, si chiudono emblematicamente con una parola di grandissima intensità, una parola tronca, che, come un taglio, recide il discorso poetico, continuando a riecheggiare nel lettore, giunto alla fine del libro: «Si disfà / un cumulo di strame: e tardi usciti / a unire la mia veglia al tuo profondo / sonno che li riceve, i porcospini / s'abbeverano a un filo di pietà». La bufera, infine, si conclude con il bellissimo Sogno del prigioniero e con i suoi versi memorabili: «L'attesa è lunga, / il mio sogno di te non è finito». Credo sia importante che gli studenti percepiscano questa tensione positiva, questa inquietudine esistenziale che pervade i testi di Montale, il quale non può essere liquidato tanto facilmente come il poeta del male di vivere: non che non ci sia un fondo di verità in questo luogo comune, ma, come tutti i luoghi comuni, ha la sua buona dose di semplificazione. In questa terza raccolta il vento assume per lo più una valenza negativa, essendo parte della bufera, immagine che allude alla catastrofe bellica del secondo conflitto mondiale, nonché chiara «epifania del male assoluto e metafisico, che sempre insidia la storia e incombe sull'uomo, minacciandone l'esistenza». Eppure, nei testi di questa raccolta, Montale ricerca una possibile redenzione: «nel tessuto insensato del mondo», come ha scritto Gianfranco Contini, si schiude il «sospetto di un'eccezione significativa» nel dialogo con la persona amata.
Il vento della Shoah in Giorgio Bassani
Pochi anni dopo la pubblicazione della Bufera di Montale, nel 1962, vede la luce Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, nel quale ritroviamo l'immagine del vento connotata negativamente, come simbolo dell'irrompere dell'inumano nella società civile e nell'intimo delle coscienze, conturbate, stravolte e infine costrette al silenzio dell'inesistenza. Nel settimo capitolo della terza parte del romanzo si descrive la cena pasquale che si svolge nella casa paterna nel 1939, all'indomani delle leggi razziali. Dopo aver compiuto il pasto rituale, conclusa la lunga serata, i famigliari scendono le scale e arrivano nel portico dell'abitazione, dove si scambiano gli ultimi saluti. Qualcosa però viene a troncare la scena degli addii: «Improvvisamente, dal portone rimasto mezzo aperto, là, contro il nero della notte, ecco irrompere dentro il portico una raffica di vento. È vento d'uragano, e viene dalla notte. Piomba nel portico, lo attraversa, oltrepassa fischiando i cancelli che separano il portico dal giardino, e intanto ha disperso a forza chi ancora voleva trattenersi, ha zittito di botto, col suo urlo selvaggio, chi ancora indugiava a parlare. Voci esili, gridi sottili, subito sopraffatti. Soffiati via, tutti: come foglie leggere, come pezzi di carta, come capelli d'una chioma incanutita dagli anni o dal terrore». È il vento della Shoah, del male assoluto: un angelo sterminatore che non risparmia, ma che anzi colpisce a morte i figli d'Israele.
Nel romanzo di Bassani troviamo però un'altra occorrenza del termine "vento". Esso compare, infatti, nel Prologo, vera ouverture nella quale lo scrittore dispone con dovizia i leitmotive che daranno forma a tutto il romanzo. Si racconta di una gita fuori porta, verso le tombe etrusche di Cerveteri. Prima di giungere a destinazione, i personaggi si ritrovano a passeggiare lungo un «desolato arenile», che si profilava «sul deserto azzurro e abbagliante del Tirreno». Essi vengono «investiti in pieno dal vento» e camminano «con la sabbia negli occhi». Giannina, la bambina della comitiva, è «elettrizzata» «dal vento, dal mare, dai pazzi mulinelli della sabbia»: questa «bimbetta di nove anni», che rappresenta la figura ideale più alta tra tutti i personaggi del romanzo, gioca con il vento, non lo teme e per questo è «allegra ed espansiva». Sembrerebbe dunque che per il narratore ci sia qualcosa in grado di esorcizzare la violenza del vento. Giannina, infatti, rappresenta nel romanzo il lettore ideale, che è disposto ad accogliere nel modo più profondo il racconto delle vicende di persone che non ci sono più.
Giunti alla necropoli etrusca, Giannina chiede al padre per quale motivo le tombe antiche facciano meno malinconia di quelle più nuove. Il padre le risponde che «i morti da poco sono più vicini a noi, e appunto per questo gli vogliamo più bene. Gli etruschi, vedi, è da tanto tempo che sono morti», «che è come se non siano mai vissuti, come se siano sempre stati morti». Giannina, dopo una breve pausa riflessiva, afferma però che anche gli etruschi sono vissuti e che quindi, avendo ascoltato il racconto del padre, si sente di voler bene a loro come a tutti gli altri. Bassani, in questa pagina, ci fa capire dunque che la forza del ricordo può vincere il silenzio dei secoli, il silenzio imposto dal vento.
Il conforto della musica del vento in Vittorio Sereni
Questo nostro percorso si conclude con la lettura di Non sa più nulla, è alto sulle ali di Vittorio Sereni, componimento incluso nel Diario di Algeria del 1947. Il giovane poeta, di circa trent'anni, si trova prigioniero in un ospedale militare americano in Algeria. La poesia è datata giugno 1944. Sereni viene a sapere dello sbarco in Normandia e rimane colpito da un particolare: gli anglo-americani avevano predisposto che i primi morti e i feriti gravi fossero immediatamente portati in aereo in Inghilterra. Il «primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna» è dunque «alto sulle ali» perché trasportato via dal campo di battaglia con un ponte aereo. Il poeta immagina che durante quella notte questo soldato, come un fantasma, gli abbia parlato nel sonno, chiedendogli di pregare per l'Europa. Il poeta è scettico, non riesce a credere a questa apparizione; pensa che sia stato soltanto «il vento, / il vento che fa musiche bizzarre»: non intende assolvere alla richiesta di questo fantasma perché sostiene di essere ormai morto alla guerra e alla pace; si sente tagliato fuori dalla storia, dagli avvenimenti, non più in grado di agire in nessun senso. Alla fine del componimento si afferma però che il vento produce un suono, una melodia: «Questa è la mia musica ora: / delle tende che sbattono sui pali. / Non è musica d'angeli, è la mia / sola musica e mi basta».
Il testo è giocato su un parallelismo tra il soldato caduto in Normandia e il poeta. E due immagini si collegano a entrambi: l'immagine del vento e l'immagine degli angeli. Dietro alle "ali" poste in apertura bisogna vedere una metafora collegata a entrambe. Mentre il primo protagonista del testo però è elevato sulle ali, il secondo è in una condizione di prostrazione (si veda la rima antitetica "ali": "pali") ed esprime un ripiegamento su sé stesso («mia / … e mi basta»). L'io poetico afferma tuttavia che questa musica donata dal vento gli "basta", gli dona qualcosa, forse un conforto. È un desiderio inesauribile di elevazione, che si rispecchia forse, ma con molta cautela, nel primo verso, quello iniziale, nel quale il lettore, secondo una dichiarazione esplicita di Sereni, può correttamente vedere anche una specie di pre-glorificazione del soldato morto. Un verso memorabile e bellissimo, senz'altro, «Non sa più nulla è alto sulle ali». Che riprende, com'è stato proposto, l'Ungaretti de L'allegria: «D'improvviso / è alto / sulle macerie / il limpido / stupore / dell'immensità» (Vanità). Ma che probabilmente riascolta anche, oltre al canto natalizio degli angeli («Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà»), un passo intensissimo di Orazio. Il poeta latino, nella celebre settima ode del II libro, racconta che, durante la battaglia di Filippi, dopo che egli aveva malamente abbandonato lo scudo, un dio era apparso a salvarlo, sollevandolo in alto: «Me mi rapì il veloce Mercurio nell'aria / densa in mezzo ai nemici, atterrito».
I poeti impiegano la lingua della poesia: alcune immagini rimangono fisse nella memoria e così, con naturali variazioni, si ripresentano costantemente nella mente e nel cuore di autori e lettori i grandi temi della riflessione sulla vita, sul destino e sulle possibilità di un esistenziale riscatto.
Referenze iconografiche: Bridgeman Images