Un progetto rivolto alle secondarie di primo grado, per spingere le ragazze a prendere confidenza con tecnologie informatiche e maker space: il racconto dell’esperienza e del suo successo.
Siamo in una scuola media di Milano, in un pomeriggio di novembre, in compagnia di quattro ragazze tra gli 11 e i 13 anni che hanno deciso di partecipare a un’insolita attività extrascolastica: ideare e realizzare un progetto “da maker”, dall’inizio alla fine. Significa dialogare con il committente, fare ricerche “di mercato” e verifiche di fattibilità, e darsi delle scadenze. E ancora: decidere gli strumenti e i materiali da utilizzare, modellizzare al computer ciò che si intende realizzare, scrivere il programma per le componenti hardware e quello per istruire le macchine da usare per creare il prototipo. Infine, presentare il progetto, magari attraverso un sito o con un video da pubblicare online. È un lavoro complesso, che richiede diverse competenze, anche nel campo delle Ict (Information and Communication Technology), ma le giovani studentesse lo porteranno a termine.
Girls code it better
La cornice del quadro che abbiamo appena dipinto è Girls code it better, un programma sperimentale realizzato grazie all’agenzia per il lavoro MAW-Men at Work, il maker space di Milano WeMake le associazioni Sociopratiche e Connessioni didattiche, e al patrocinio e alla collaborazione di diversi enti pubblici.
Il progetto, partito quest’anno, si rivolge esclusivamente alle ragazze, e ha uno scopo ben preciso: avvicinarle ai linguaggi e alle nuove competenze digitali, in modo da renderle capaci di comprendere, creare e utilizzare consapevolmente il web e le tecnologie informatiche, e incoraggiarle a prendere in considerazione percorsi formativi e carriere STEAM (acronimo di science, technology, engineering, arts, mathematics). «Il leitmotiv – spiega Cristina Martellosio di Sociopratiche, una delle coordinatrici dell’iniziativa – è combattere lo stereotipo secondo il quale il genere femminile non sarebbe portato per il mondo delle Ict e delle scienze. Il secondo obiettivo è presentare le tecnologie digitali come strumenti e non come un fine: promuovere cioè l’acquisizione di competenze digitali nei processi di risoluzione di problemi o di progettazione di oggetti, secondo una logica di apprendimento per scoperta e ricerca.»
Il progetto in sintesi
In questa prima esperienza sono state coinvolte dieci scuole di quattro città: Bologna, Modena, Reggio Emilia e Milano. A ciascun istituto è stato chiesto di raccogliere le candidature spontanee delle alunne e di selezionare 16 partecipanti, che sono state a loro volta divise in quattro gruppi. Sotto la guida di un’educatrice e di una maker (entrambe esterne alla scuola) e con il supporto di un’insegnante referente, ogni gruppo avrebbe dovuto ideare e realizzare un progetto ispirato a un tema proposto dalla propria scuola. Per farlo, avrebbe avuto a disposizione 45 ore (con l’impegno di un pomeriggio a settimana per circa cinque mesi, da novembre a marzo), aule, computer, tecnologie Arduino, software liberi, connessione a internet e accesso ai makerspace (detti anche FabLab), con la possibilità di utilizzare stampanti 3D e altri macchinari. Le alunne si sarebbero poi autovalutate sull’acquisizione di competenze chiave e di cittadinanza.
L’importanza del percorso
Ecco allora circa 160 alunne divise in 40 gruppi alle prese con dieci problemi da risolvere, in un contesto completamente nuovo per loro.
«Le difficoltà di portare a termine un progetto del genere sono diverse» spiega Chiara Amendola di WeMake. «La più grande è che le ragazze devono prendere tutte le decisioni in autonomia: dato il tema, devono stabilire quale aspetto sviluppare e se si trovano in un’impasse, devono capire da sole come venirne a capo. E non devono solo imparare a usare un programma, ma prima devono capire quale programma usare: qual è il più adatto al loro scopo. In tutto questo, noi tutor possiamo aiutarle soltanto a porsi le domande giuste e a ragionare, e offriamo alcuni strumenti, come le tabelle per le timeline, ma non diamo mai soluzioni. Dal punto di vista didattico, crediamo che sia più importante il percorso della meta.»
L’esperienza del “Club Munari”
Amendola è stata l’educatrice di un gruppo dell’Istituto comprensivo Bruno Munari di Milano, una delle dieci scuole coinvolte. «Il primo passo è stato portare le ragazze a ideare qualcosa che potesse risolvere, o almeno affrontare, il problema posto dalla scuola. Ma nel loro caso specifico il tema era piuttosto complesso: pace e solidarietà tra i popoli. Si sono chieste: “cosa possiamo fare riguardo al problema delle guerre, visto che non possiamo risolverlo?” La risposta che è venuta loro in mente è fare informazione.»
I quattro gruppi del “Club Munari” hanno ideato progetti molto diversi tra loro: una cover per cellulari che sensibilizzasse i coetanei sul problema dei bambini soldato, e che si adattasse a diverse marche, grazie a un’apertura allargata per la telecamera; un gioco a puzzle per adulti e bambini: per costruirlo, i primi sono chiamati a spiegare i valori di pace e solidarietà ai secondi; un gioco da tavolo sulla distribuzione delle risorse nel mondo e sulle disparità che causano le guerre; una linea di magliette con grafiche sul tema della tolleranza, realizzate attraverso stencil.
Come si fa un gioco da tavolo?
«Io ho seguito il gruppo che ha realizzato il gioco da tavolo sulle risorse del pianeta», continua l’educatrice. «La prima cosa da fare è redigere un piano di fattibilità, avendo chiari tutti gli step e ciò di cui si avrà bisogno, e calcolando le tempistiche. Quindi le ragazze dovevano decidere cosa creare esattamente, fare ricerche online, stabilire come realizzare il gioco, scegliere i materiali e le macchine da utilizzare per fare le pedine e il tabellone. Durante tutto il lavoro, dialogavano tra loro attraverso un diario di bordo collettivo, al quale avevamo accesso come lettrici anche noi tutor: questo ci ha permesso di osservare le dinamiche e aiutarle nelle difficoltà. Da subito hanno imparato a usare i programmi di grafica vettoriale 3D, ma dopo questa fase c’è stato un primo blocco: lavorando solo nel mondo virtuale, non riuscivano a immaginare il prodotto. Per superarlo, ho consigliato loro di fare una piccola incursione nell’aula di educazione artistica, e di attingere ai materiali per creare un primo prototipo alla vecchia maniera, con forbici e cartone. Sono riuscite a superare l’ostacolo alternando queste due fasi della creazione, reale e digitale. Alla fine sono arrivate a preparare il file da inserire in una stampante 3D.»
Visita al makerspace
Il programma, infatti, prevedeva anche due pomeriggi da trascorre in un FabLab, dove le studentesse avrebbero finalmente dato materia alle loro idea. «Quello del makerspace è un momento di verifica», spiega Claudia Scarpa, maker presso WeMake. «Le ragazze si sono trovate per la prima volta davanti a una lasercut (un laser che si usa per tagliare o incidere diversi materiali, NdR), a una stampante 3D, a un banco di elettronica dove si saldano circuiti e si lavora con Arduino e ad altri macchinari. Si comincia testando la modellizzazione, intagliando un materiale economico, per esempio cartone. Si verificano gli incastri e le caratteristiche del progetto e, come sempre accade, bisogna rimettere mano al file, per apportare correzioni. Da questa fase non si può scappare: abbiamo spiegato che l’errore non deve essere inteso come un fallimento, ma come esperienza. Che i makerspace sono luoghi in cui si fa più verifica che produzione, e che ogni volta è necessario rivedere i codici e i settaggi delle macchine.» Le studentesse non potevano toccare i macchinari per una questione di sicurezza, ma hanno seguito da vicino tutti i passaggi. Una volta perfezionato il progetto, hanno utilizzato il materiale definitivo, che poteva essere legno, cuoio, tessuto, plexiglass o plastiche atossiche, che non sviluppano sostanze nocive quando vengono tagliate con il laser.
«Un altro aspetto importante – continua Scarpa – è che i FabLab sono ambienti di coworking: si incontra sempre qualche artigiano digitale che lavora ai propri progetti, e le ragazze hanno avuto la possibilità di confrontarsi e scambiare idee.» Alla fine, per loro è stata una grandissima soddisfazione ritrovarsi tra le mani un prodotto rifinito, all’altezza di quelli industriali.
Il punto di vista dell’insegnante
L’ultimo, ma fondamentale, passaggio era la presentazione del progetto: le ragazze del Club Munari hanno deciso di usare un blog, e hanno quindi dovuto imparare anche a lavorare in WordPress. «Credo che Girls code it better sia stato utile per le studentesse sotto diversi aspetti», dice Anna Chiroli, docente di italiano presso la scuola Munari e referente interna del progetto. «Prima di tutto perché il preconcetto secondo il quale esiste una differenza di genere nella propensione per le scienze dure e l’informatica è ancora diffuso. Quando, lo scorso settembre, abbiamo presentato il progetto nelle classi, quasi tutti i ragazzi avrebbero voluto partecipare, mentre non è stato semplice trovare ragazze interessate. Il progetto ha invece permesso di provare loro che sono perfettamente in grado di riuscire in queste materie, e di scoprire che le STEAM sono una strada percorribile. Per questo è stato fondamentale che non fosse richiesto alcun prerequisito: non dovevano, cioè, essere studentesse modello in matematica. L’unica richiesta era garantire la frequenza.»
Un altro aspetto interessante riguarda la motivazione allo studio. «Attraverso il progetto – continua Chiroli – le ragazze hanno compreso il nesso tra le cose che si imparano e ciò che si può realizzare concretamente. Cioè, che il passaggio teorico è importante. Che senza le competenze, potrai anche avere l’idea più brillante del mondo, ma non potrai realizzarla. Queste ragazze hanno dovuto tirare fuori idee da un tema astratto, razionalizzarle ed esprimerle con parole. Come insegnante di tre delle partecipanti, ho notato che questo esercizio ha avuto un ritorno significativo in classe: c’è stata una grande maturazione soprattutto nella più svogliata delle tre, che nel corso del progetto ha cambiato atteggiamento nei confronti dello studio. La sua votazione è passata dal 5 al 7.» Il progetto ha avuto una ricaduta anche sul loro senso di responsabilità. «Uno dei problemi con cui si sono scontrate è il rispetto delle scadenze. E credo che questo sia servito loro per capire l’importanza di un uso intelligente del tempo. Infine, le ragazze si sono rese conto del valore del loro lavoro, e hanno presentato il gioco da tavolo alla manifestazione Scienza Under 18 di Milano», conclude Chiroli.
Se la scuola mostra nuovi percorsi
Anche per l’Istituto Comprensivo Di Vona-Speri di Milano la partecipazione al progetto è stata estremamente positiva. A seguire i progetti era l’insegnante di Matematica Patrizia Golin: «La nostra scuola è molto grande, con 13 sezioni e più di 900 studenti, di cui circa 400 ragazze, e la partecipazione a Girls code it better è stata massiccia: abbiamo ricevuto un centinaio di richieste. L’esperienza è stata sbalorditiva non solo per quello che le ragazze hanno realizzato, ma anche per lo spirito che hanno mostrato. Non hanno fatto quasi mai assenze, nonostante l’impegno fosse grande, e i gruppi si sono aiutati l’uno con l’altro. Hanno anche imparato a usare strumenti non banali, come i tester per le celle solari. Credo sia positivo che il progetto non si rivolga alla classe intera, ma ai singoli, e che studentesse di età differenti collaborino». Anche lei ha notato un cambiamento radicale in una delle sue alunne: «Una ragazza già ripetente, con un atteggiamento completamente disinteressato nei confronti dello studio e della propria istruzione, durante il percorso ha cominciato a partecipare molto di più in classe, a studiare, a prepararsi per l’esame, e ha deciso che si iscriverà a una scuola di grafica. Questo dimostra l’importanza di progetti del genere, e per di più gratuiti per la scuola, che hanno come primo obiettivo mostrare nuovi percorsi e infondere nei giovani la fiducia in loro stessi».
Alla ricerca di progetti da maker
Per chi volesse informazioni su iniziative simili a Girls code it better, ci sono alcuni siti web da inserire tra i preferiti. Ecco un piccolo elenco da cui cominciare. E oltre a questo, sono naturalmente consigliate le visite agli oltre 40 makerspace che si trovano in giro per l’Italia.
Lepida Scuola: un gruppo di docenti della scuola pubblica impegnato nella ricerca educativa, che ha messo a punto un suo metodo di didattica “per problemi e progetti”, per lo sviluppo delle competenze. A questo metodo si sono ispirate le ideatrici di Girls code it better.
Maker Faire Rome: il grande evento annuale dedicato ai maker di ogni età. La fiera presenta anche la sezione “Scuole”, creata in collaborazione con il ministero dell’Istruzione e con l’Assessorato Scuola, Sport, Politiche Giovanili e Partecipazione di Roma Capitale. La scadenza per presentare la domanda di partecipazione è il 25 maggio. L’edizione di quest’anno si terrà dal 16 al 18 ottobre.
Maker@scuola: un progetto di ricerca dell’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire).
Make in Italy: una fondazione nata per aiutare e promuovere i maker italiani e i FabLab.
Scuola di Robotica: un’associazione che porta avanti attività di istruzione, formazione, educazione e divulgazione.
Digital makers – La buona scuola: l’iniziativa che intende definire il curriculum dei Produttori Digitali per la scuola secondaria, da utilizzare a partire dall’anno scolastico 2015/16.
FabCentre – Immaginario Scientifico: il nuovo programma di attività e laboratori dedicati ad adulti e ragazzi sopra i 14 anni, su Arduino e stampa 3D, organizzati dal museo delle scienze di Trieste.
Referenze iconografiche: RiumaLab/Shutterstock; Franky47/Wikimedia Commons