Aiuto, è cancerogeno. Forse

Nel 2015 ha scatenato il panico un annuncio sulla cancerogenicità di carni trasformate e carni rosse. Ma che cosa significava davvero quell’annuncio, e come si studia la cancerogenicità di una sostanza?

Sebbene il cancro sia una malattia sempre più curabile, solo a nominarla fa ancora paura. E tutto ciò che è “cancerogeno”, di conseguenza, determina la stessa reazione. Per questo si è scatenato il panico nell’autunno del 2015, quando l’IARC, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, ha inserito le carni lavorate – come salumi, insaccati, wurstel e salsicce – nella stessa categoria di cancerogeni alla quale appartengono il fumo e l’amianto. Non solo: ha anche inserito tutte le carni rosse – cioè quelle bovine, suine e ovine – anche fresche, tra i fattori definiti “probabilmente cancerogeni” (qui l’articolo scientifico con i dati e la conclusione).

Tra scienza e comunicazione

Nessuna novità per gli addetti ai lavori, perché gli esperti dell’IARC non avevano fatto altro che raccogliere, esaminare e valutare i risultati di tutti gli studi condotti in passato sull’argomento, e quindi già ben noti alla comunità scientifica. Ma uno scoop per la stampa generalista. All’annuncio dell’Agenzia, che porta avanti le sue ricerche per conto dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), fecero infatti seguito decine di articoli di giornale e servizi televisivi con titoli acchiappaclick, secondo i quali mangiare una bistecca o un panino con il prosciutto farebbe male quanto fumare un pacchetto di sigarette o essere esposti per ragioni professionali all’amianto.

Rischi ben diversi

Diciamo subito che non è così: è vero che il consumo di carni lavorate, e in misura minore di carni rosse, può aumentare il rischio di sviluppare certi tumori, ma non nella stessa misura con la quale incidono altri fattori. Per capirci, se chi consuma ogni giorno grandi quantità di carni rosse e lavorate ha un leggero rischio in più (quantificabile intorno a un aumento del 17%) di ammalarsi di tumore al colon rispetto a un vegetariano, un fumatore ha circa 23 volte più probabilità di un non fumatore di andare incontro a un tumore del polmone.

Tra certezze e rischi

Secondo il vocabolario della Treccani, è “cancerogeno” ciò “che produce il cancro”, ma questa definizione, come viene normalmente intesa, richiede qualche precisazione. Sono pochissime infatti le situazioni capaci da sole di “produrre il cancro”, cioè di esserne la causa unica, necessaria e sufficiente. Succede per alcune rarissime forme di malattie ereditarie ed è capitato in seguito a intense irradiazioni come quelle di Hiroshima e Nagasaki. In tutti gli altri casi bisogna parlare di “fattori di rischio”, cioè condizioni che possono aumentare le probabilità di ammalarsi, ma senza che ciò inevitabilmente accada, così come la malattia può insorgere anche in loro assenza (si pensi al tumore del polmone nei non fumatori, per esempio). Si può quindi affermare che il virus HIV è la causa dell’AIDS, perché basta contrarre l’infezione per sviluppare la malattia, ma nello sviluppo di un tumore intervengono quasi sempre molte concause che interagiscono tra loro. Si tratta cioè di una malattia multifattoriale, come il diabete, a cui concorrono fattori genetici, ambientali e stili di vita.

“Naturale”? Non è detto che sia meglio

Invece di spiegare bene al pubblico questo punto, tutti si affrettarono a rassicurare sulle caratteristiche dell’ottima carne italiana, sui suoi altissimi standard di sicurezza e su quanto siano “naturali” i processi di produzione dei salumi nostrani. Ma non è questione di qualità: una fiorentina doc o un prezioso culatello non si distinguono, in relazione al rischio di cancro, dalla fettina del discount o dal cotto in offerta al supermercato. Fuorviante è anche il richiamo alla “naturalità” dei processi di lavorazione: molte modalità tradizionali di conservazione e trattamento degli alimenti – per esempio l’uso del sale per gli insaccati – sono almeno in parte responsabili della loro azione cancerogena, i cui meccanismi biologici sono stati in parte chiariti e in parte sono ancora oggetto di studio.

Studiare le popolazioni

Ma come si riconosce che un alimento, una sostanza chimica o un altro fattore, potrebbero favorire il cancro? Nella maggior parte dei casi il primo campanello d’allarme viene da studi epidemiologici, cioè condotti su intere popolazioni nelle quali si esamina la frequenza del cancro in relazione a diverse caratteristiche, per cercare di capire se ci sono fattori che accomunano, sui grandi numeri, chi si ammala e chi no. Uno dei più importanti in questo campo si chiama EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), una ricerca che per quasi 15 anni ha raccolto informazioni su oltre mezzo milione di cittadini europei, cercando di valutare se ci poteva essere un’associazione tra le loro abitudini alimentari e la probabilità che sviluppassero un tumore.
Se, per esempio, la percentuale di persone che si ammala di cancro al colon è significativamente superiore tra coloro che dichiarano di mangiare bacon tutti i giorni rispetto a chi non assume mai salumi o insaccati, può sorgere il sospetto che esista un legame tra le due cose.

Associazione non vuol dire causa

A volte si scopre che l’associazione è solo effetto del caso, come per il fatto che il tasso di divorzi nel Maine negli ultimi dieci anni sia andato di pari passo con il consumo di margarina. A volte la correlazione dipende da altri fattori comuni, come nel caso del numero di attacchi da parte degli squali, che va di pari passo con il consumo di gelati, per il semplice fatto che entrambe le cose prevalgono in estate. L’associazione tra due fenomeni non dimostra quindi che uno causa l’altro.

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Dall’ipotesi ai meccanismi biologici

L’osservazione serve però a indirizzare ricerche successive, che tra le altre cose dovranno verificare anche in laboratorio se l’ipotesi è plausibile, se cioè esiste un meccanismo biologico che possa spiegare il rapporto di causa ed effetto.
Se per esempio, paradossalmente, emergesse dalla margarina una sostanza che rende più irritabili, la correlazione con il divorzio potrebbe non essere solo casuale. Nel caso delle carni lavorate, a mediare la formazione del tumore sarebbero le nitrosammine che si formano nell’organismo o durante la cottura a partire da nitrati e nitriti, usati come conservanti. Le stesse nitrosammine si possono produrre nell’intestino a partire dal gruppo eme, al centro dell’emoglobina del sangue, di cui è ricca la carne fresca, che potrebbe favorire il tumore anche per la sua azione ossidante e favorendo l’infiammazione. Grigliandola si possono poi produrre altre sostanze potenzialmente cancerogene. Sulla base delle ricerche effettuate, quindi, IARC ha classificato le carni trasformate nel gruppo 1 dei cancerogeni, insieme a tutti gli altri fattori che, in varia misura e a diverse dosi, possono sicuramente aumentare il rischio di cancro. Le carni rosse fresche, invece, sono state inserite per ora nel gruppo 2 A, dove sono elencati i fattori “probabilmente cancerogeni”, perché i risultati degli studi finora esistenti sono molto indicativi in questo senso, ma non ancora inoppugnabili.

Cancerogeno sì, ma quanto?

L’equivoco alimentato dalla stampa nasce dal criterio usato dagli esperti per questa classificazione. È istintivo infatti pensare che nel primo gruppo si trovino le sostanze più pericolose, nel secondo quelle che lo sono un po’ meno, e così via. Invece, il principio in base al quale gli esperti dell’IARC inseriscono un fattore in una o nell’altra categoria non è questo, ma quello della forza delle prove a carico. In altre parole, è come se si raccogliessero nel gruppo 1 tutti gli imputati considerati colpevoli di un reato perché colti in flagrante, indipendentemente dal fatto che stessero rubando una mela in un supermercato o stessero commettendo un omicidio, nel gruppo 2 A quelli fortemente sospettati e così via, senza tener in nessun conto la gravità del reato.
Le prove, in questo caso, non sono testimoni o impronte digitali, ma risultati di lavori scientifici. Per spiegarci, secondo questa classificazione solo una sostanza, il caprolactam, utilizzato per la produzione di nylon, ha il privilegio di appartenere al gruppo 4, come “probabilmente non cancerogena”. Non perché sia l’unica innocua, ma perché è la sola di cui una sufficiente quantità di ricerche ha escluso questa probabilità.
Non solo: la classificazione dell’IARC non considera se la dose necessaria a favorire lo sviluppo del cancro è quella alla quale ci si può realmente esporre nella vita quotidiana, quale sia il rapporto tra rischio e beneficio dell’assunzione di una determinata sostanza (un problema che per esempio si pone per i farmaci), né se l’aumento delle probabilità di ammalarsi sia minimo o rilevante

Come salire una scala

Immaginate che la formazione di un tumore dipenda dall’apertura di una porta che si trova in cima a una scala: l’esposizione a un cancerogeno può far salire uno o più gradini, avvicinando l’individuo al punto in cui una cellula si trasforma da normale in tumorale, ma è difficile che da sola basti a fargli compiere tutto il percorso.
La classificazione IARC dice solo se un elemento può far salire sulla scala, senza precisare quanto ce ne vuole perché questo accada, né di quanti gradini farà avanzare. I gradini corrispondono per lo più a mutazioni del DNA, che compromettono i fini meccanismi con i quali la cellula controlla la sua tendenza a proliferare o ad estinguersi, quando necessario. Ogni giorno, in un individuo sano, si verificano migliaia di errori potenzialmente pericolosi, che però vengono prontamente corretti da sofisticati sistemi di riparazione. Se questi sono danneggiati, o il numero di mutazioni aumenta, aumenterà anche il rischio di cancro.

shutterstock_1832495107_villaUn processo complesso

Non bisogna poi dimenticare che alla genesi di un tumore possono contribuire anche molti altri aspetti, primo fra tutti la predisposizione genetica individuale. E ancora, le caratteristiche del microambiente in cui si trovano le cellule, come uno stato di infiammazione cronica, o carenze del sistema immunitario, che non riesce a bloccare nelle sue fasi iniziali la comparsa della malattia, prima che diventi incontrollabile. Negli ultimi anni è, infine, emerso il ruolo di altri fattori, esterni alla sequenza del DNA e per questo detti “epigenetici”, capaci di regolare l’espressione dei geni e quindi di interferire in modo significativo con la vita della cellula e l’eventuale sviluppo di malattie, tra le quali il cancro. Nel momento in cui veniamo alla luce, quindi, non partiamo tutti dallo stesso punto della scala. Già alla nascita, alcuni presentano mutazioni del DNA o caratteristiche epigenetiche che possono favorire lo sviluppo del cancro. Viceversa, esistono anche geni che proteggono dalla malattia, molti dei quali ancora ignoti. Per inciso, è proprio per questo che, tranne in rari casi eccezionali, è difficile predire con ragionevole certezza che una persona si ammalerà di cancro sulla base di un test genetico.

Strategie di prevenzione

Quel che si può fare è cercare di evitare di salire gli scalini che ci avvicinino a quella porta: ridurre sì la quantità di carni rosse e insaccati (sapendo che non sarà certo un bistecca ogni tanto a segnare il nostro destino) ma mangiare anche più frutta e verdura, controllare l’apporto calorico in modo da contrastare sovrappeso e obesità, limitare al minimo l’alcol, svolgere regolare attività fisica e soprattutto non fumare, il più importante tra i fattori di rischio per il cancro.
Con ogni tiro di sigaretta si inala almeno una settantina di sostanze cancerogene, come arsenico e polonio radioattivo.

Referenze iconografiche: Alexander Raths/Shutterstock, RVillalon/Shutterstock, Dragana Gordic/Shutterstock 

PER APPROFONDIRE

Scheda didattica - Aiuto, è cancerogeno. Forse di Monica Menesini Download

Roberta Villa

è medico e giornalista e da anni collabora con l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro. Sul tema oggetto di questo articolo ha scritto un libro – Si fa presto a dire cancerogeno – di prossima uscita per C1V editore.