Qualcosa che non sappiamo di non sapere

In questa rubrica, a cura di Luca Serianni e Giuseppe Patota, vi proponiamo autorevoli, brevi note grammaticali dedicate ad aspetti inconsueti della lingua, usi particolari, curiosità, aggiornamenti della norma che cambia.

Accelerare o accellerare?

di Luca Serianni

Accelerare deriva dall’aggettivo celere, che ha una sola "l". In tre forme del presente indicativo però questo verbo ha l’accento sulla terzultima sillaba: io accèlero, tu accèleri, lui accèlera.

In italiano (in Toscana e in Italia centromeridionale) nelle parole accentate sulla terzultima sillaba la consonante che segue l’accento tende a raddoppiarsi. Per esempio le tre parole latine màchina, fémina, chòlera, sono diventate macchina, femmina, e collera, con la consonante raddoppiata dopo l’accento.

Da qui deriva l’errore di molti di scrivere e usare accellerare al posto diaccelerare.

Perché ormai si dice soddisferemo e non soddisfaremo?

di Luca Serianni

In un vocabolario vecchiotto per il verbo soddisfare troveremmo: coniugato comefare. Dunque, come si dice faremo, bisogna dire soddisfaremo, e come si dice farei bisogna dire soddisfarei. Invece i dizionari più recenti e attenti all'uso dicono che soddisfare (come disfare) non si comporta sempre come fare, ma ha cominciato a funzionare come un verbo regolare: e così registrano oltre a soddisferò e soddisferei anche soddisfo, soddisfiamo, soddisfavo (anziché soddisfaccio, soddisfacciamo, soddisfacevo).

Si tratta di un fenomeno ancora in movimento; ma certo è che soddisferemo non può dirsi sbagliato. Nell'evoluzione della lingua la forza potente dell'analogia fa sì che soddisfare e disfare, non più legati a fare, siano trascinati a seguire la coniugazione regolare: poco alla volta, perché le forme non cambiano di colpo, ma la strada è quella.

Perché diciamo “Volevo due etti di prosciutto”?

di Luca Serianni

Perché diciamo volevo, anche se il prosciutto lo vogliamo adesso? Eppure nessuno entra in un negozio e dice «Voglio due etti di prosciutto». Uno dice vorrei, oppure, appunto, volevo.

Voglio esprime una richiesta non gentile, quasi un comando. Perciò usiamo il condizionale vorrei, che sottintende, infatti, una condizione, qualcosa come «se lei avesse due etti di prosciutto cotto, li comprerei». È un modo più cortese di chiedere, come più cortese è anche l'indicativo imperfetto volevo, un tempo verbale che in teoria dovrebbe riferirsi solo al passato.

Il fatto è che il passato, rispetto al presente, è più lontano e così in qualche modo distanzia, attenua, ammorbidisce la frase, rendendola più cortese. Questo, il cosiddetto imperfetto di cortesia, non funziona solo con volere, ma anche con gli altri verbi che si usano in quel tipo di situazione (cercavo, mi serviva ecc.) alcuni dei quali naturalmente si possono usare anche al condizionale (mi servirebbe).

Usare gli al posto di loro per il complemento di termine alla terza persona plurale è sbagliato?

di Luca Serianni

L’uso di gli come complemento di termine alla terza persona plurale è diffusissimo fin da tempi antichi e ampiamente attestato in letteratura: «Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta?» (A. Manzoni, I promessi sposi).

Si tratta di un uso, perciò, corretto e giustificato anche dal fatto che rientra perfettamente nella serie di monosillabi atoni, mi, ti, gli/si, ci, vi, in cui l’unico bisillabo intruso è loro.

Nell’uso loro in questa funzione è adatto a una lingua scritta di livello elevato e burocratico, gli al parlato e a uno scritto di tono colloquiale.

Ma però si dice oppure no?

di Giuseppe Patota

L’espressione ma però non ha niente di sbagliato. Semplicemente si vuole rafforzare il ma con l’aggiunta del però.

Facciamo la stessa cosa quando diciamo ma tuttavia, ma pure, ma nondimeno, unendo al ma altre congiunzioni: in questi casi, però, nessuno si scandalizza più di tanto.

Ma però lo ha usato perfino Alessandro Manzoni: «cose da levarsi l’allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici è un sollievo» (I promessi sposi, cap. 33).

Perché in alcune formule per la data si legge «li»?

di Luca Serianni

Nell’antico italiano si usava spesso li come articolo maschile plurale, invece di gli o i. Questa forma sopravvive oggi, ma sempre più raramente, in alcune comunicazioni formali o burocratiche, nella indicazione della data: Perugia, li 9 aprile 2010.

Sarebbe opportuno eliminare senza rimpianti quest'inutile li; se qualcuno ci tiene a usarlo, sappia però che la forma non va usata col primo giorno del mese, perché 1 è singolare, e che non deve ricevere l’accento, perché non si tratta dell’avverbio di luogo

 

 

Come è nato il verbo perplimere?

di Luca Serianni

L’aggettivo italiano perplesso deriva dal latino perplexus, che significava “intricato”, “aggrovigliato”, “complicato”, ed era all’origine il participio passato di perplectere, “intrecciare”, “aggrovigliare”, verbo già raro nel latino tardo e non arrivato in italiano.

Qualcuno ha cominciato a sentire la mancanza di un verbo che significasse “rendere perplesso”, “far diventare perplesso”.

Così è nato – ma è una formazione giocosa e comunque marginale – perplimere, per analogia con coppie di infinito e participio passato come deprimere / depresso, esprimere / espresso. Avrebbe potuto nascere perpledere (per analogia con succedere / successo, concedere / concesso), o perfino perplettere (come in riflettere / riflesso, promettere / promesso) ma ha prevalso il curioso perplimere.

Perché se gioca il Catania non gioca anche il Lazio ma la Lazio?

di Giuseppe Patota

I nomi delle squadre che ripropongono in forma identica il nome della città sede della società sono maschili: il Bari, il Bologna, il Catania, il Palermo, il Perugia, il Torino. Questo serve a distinguerli dai nomi delle città che sono femminili. L’unica eccezione è costituita da la Roma.

I nomi delle squadre che non ripropongono in forma identica il nome della città sede della società (la Casertana, la Fiorentina, la Lazio, la Reggiana, la Reggina, la Salernitana, la Sampdoria, l’Udinese, la Ternana, la Triestina) e che non rinviano al nome di una città (l’Atalanta, l’Inter, la Juventus) sono femminili.

Le uniche eccezioni sono il Genoa e il Milan.

Perché scrivere sé stesso e non se stesso?

di Luca Serianni

Secondo alcuni sé pronome personale riflessivo di terza persona singolare e plurale dovrebbe perdere l’accento quando è accompagnato da stesso o medesimo.

Il motivo è che l’accento serve a distinguere sé pronome dalla congiunzione se, ma quando ci sono questi due accompagnatori non è necessario distinguere.

Questa regola non ha una effettiva utilità e introduce un’eccezione inutile. È più semplice, coerente e chiaro scrivere sé come pronome sempre accentato: quindi sé stesso, sé medesimo, sé stessa…

Referenze iconografiche:  Petr Vaclavek/Shutterstock

Luca Serianni e Giuseppe Patota

Luca Serianni: è stato professore ordinario di Storia della lingua italiana - Università La Sapienza, Roma.

Giuseppe Patota: è professore ordinario all’Università di Siena (sede di Arezzo), dove insegna Grammatica italiana, Storia dell’italiano e Didattica dell’italiano; ha al suo attivo oltre centoventi pubblicazioni, alcune delle quali tradotte e pubblicate in Francia e in Giappone e di numerose opere divulgative. È accademico della Crusca, socio ordinario dell'Accademia dell'Arcadia, socio dell’Ass. per la Storia della Lingua Italiana e della Soc. Internationale L. B. Alberti e giurato del "Premio Strega". È membro del comitato scientifico del «Bollettino di Italianistica» e degli «Studi Linguistici Italiani». Direttore scientifico del Dizionario Italiano Garzanti dal 2004 al 2015, attualmente condirige, con Valeria della Valle, una nuova edizione del Vocabolario Treccani. Dal 2015 dirige le collane “Grammatiche e lessici pubblicati dall’Accademia della Crusca” e “Le varietà dell’italiano. Scienze arti professioni”. Nel 2017 è stato insignito dall’Accademia dei Lincei del Premio per la Filologia e Linguistica. È consulente linguistico di RAI SCUOLA per la didattica dell’italiano. Insieme a Luca Serianni e Valeria Della Valle è autore della nuova Grammatica Edizioni scolastiche Bruno Mondadori La forza delle parole.