Economia e biologia
Dai classici agli economisti evoluzionisti
Il rapporto tra economia e biologia è contraddistinto da contaminazioni reciproche risalenti alla nascita della disciplina economica stessa. François Quesnay (1758) paragonava il flusso circolare del reddito tra i vari settori economici al flusso sanguigno dell’organismo umano. Adam Smith (1776) attribuiva l’origine della divisione del lavoro alla naturale inclinazione umana allo scambio. Charles Darwin (1859) elaborò la teoria sulla sopravvivenza del più adatto in seguito a un’intuizione di Thomas Malthus (1838). L’economista inglese fu il primo a mettere in luce che la strutturale inefficienza della quantità delle risorse disponibili (che crescono secondo una progressione aritmetica) rispetto alla dimensione della popolazione umana (che, al contrario, cresce secondo una progressione geometrica), inevitabilmente conduce alla lotta per l’esistenza tra organismi.
La relazione tra economia e biologia continuò nella tradizione neoclassica. Stanley Jevons (1871), che si dedicò all’economia dopo aver studiato biologia e chimica, associava i cicli economici alle macchie solari. Alfred Marshall (1890) considerava l’economia un ramo della biologia. Egli pose il brocardo di Darwin, natura non facit saltus (la natura non fa salti), a frontespizio dei suoi Principi di Economia. La relazione tra le due discipline divenne così chiara che anche lo storico e filosofo Oswald Spengler (1918) rilevava una chiara somiglianza tra il principio darwiniano della selezione naturale e quello della concorrenza tra le imprese. Egli paragonava la lotta tra le specie a quella delle imprese in concorrenza sul mercato, la mutazione all’innovazione dei prodotti, l’adattamento all’ottimizzazione dei costi, l’evoluzione al progresso economico.
L’approccio evolutivo di Darwin e Marshall ha influenzato la teoria economica per tutto il corso del Novecento, infondendovi i seguenti concetti:
- la concorrenza genera il progresso;
- il progresso si realizza attraverso piccoli, continui miglioramenti ai margini.
Diversi critici intravvedono l’influenza della teoria darwiniana nel pensiero economico di Joseph Schumpeter (1942), secondo il quale il progresso è il risultato di una lotta tra imprese. La selezione del soggetto più adatto (impresa) in un’economia di mercato avverrebbe tramite la libera concorrenza. Gli imprenditori che realizzano l’innovazione di maggiore successo eliminerebbero dal mercato gli imprenditori meno capaci e le tecnologie più obsolete, assicurando, ad un tempo, la sopravvivenza del più adatto e lo sviluppo economico.
Curiosamente, Nicholas Georgescu-Roegen (1971), che fu studente di Schumpeter ad Harvard, ha individuato i limiti del sistema capitalistico proprio nell’adozione del meccanismo della competizione come principio motore del progresso, e nel suo obiettivo della crescita illimitata. Egli rileva che, come tutte le attività umane, anche quella economica è soggetta alla legge dell’entropia, secondo la quale un sistema chiuso tende irrimediabilmente a una degradazione (disordine) dei propri elementi (materie prime, energia). Per tale motivo, osserva Roegen, ogni processo economico produttivo che ne fa uso ne implica un degrado, ovvero ne diminuisce la possibilità di riutilizzo nel processo successivo, comportando una minore disponibilità di risorse e un maggiore dispendio di energia.
Il programma bioeconomico minimale di Georgescu-Roegen invita, pertanto, ad abbandonare definitivamente la tradizionale, semplificata visione dell’economia che poggia sul modello del flusso circolare del reddito e a considerare il pianeta Terra come un sistema chiuso, con uno stock limitato di materie prime (petrolio, gas, carbone), poste a serio rischio di esaurimento dai produttori che le sfruttano per produrre quantità sempre maggiori di beni e servizi, e dai singoli individui, i cui atteggiamenti consumistici contribuiscono a suscitare l’offerta dei produttori.
Al fine di scongiurare il collasso del sistema, e con esso l’estinzione del genere umano, Roegen propone di rivedere il principio su cui ancora oggi poggia l’economia neoclassica della lotta per la sopravvivenza (darwinismo sociale), provando la necessità di porre in essere atteggiamenti cooperativi utili alla prosecuzione della specie, non solo tra gli organismi di un dato ecosistema, ma anche tra persone.
Studente di Roegen, anche Herman Daly (1973) mette in chiara luce i limiti biofisici della teoria economica neoclassica della crescita e invita a considerare l’economia come un sottoinsieme dell’ecosfera dalla quale essa dipende. Daly pertanto, sostituisce il concetto di sviluppo quantitativo (crescita materiale) con quello qualitativo (miglioramento delle condizioni di vita) e l’obiettivo della crescita con quello dello stato stazionario, che tende alla semplice reintegrazione delle condizioni originarie del sistema produttivo attraverso l’ampio ricorso alle fonti di energia rinnovabile e al controllo della crescita della popolazione. Il suo programma volto allo sviluppo sostenibile mira alla decrescita, cioè ad un aumento del benessere economico senza che questo pesi negativamente sulla salvaguardia dell’ambiente e sulla qualità della vita delle persone.
La biologia continuò a influenzare il pensiero degli economisti per tutto il corso degli anni Ottanta, sebbene ispirando in costoro una filosofia decisamente differente da quella di Roegen e Daly.
Con la pubblicazione del saggio An Evolutionary Theory of Economic Change (Teoria evolutiva del cambiamento economico, 1982) di Richard Nelson e Sidney Winter, la storia del pensiero economico ha riconosciuto ufficialmente la nascita dell’economia evolutiva. Gli economisti evoluzionisti scorgono nelle dinamiche di mercato tre processi di natura darwiniana: la selezione, la riproduzione e la mutazione. Nella lotta per la sopravvivenza si impongono le specie (le imprese) con maggiore capacità di adattamento all’ambiente (il mercato). Il patrimonio genetico di una determinata impresa (know-how e routines) non si replica completamente, ma lascia spazio a variazioni (mutazioni), ovvero a innovazioni poste in essere a livello tecnologico oppure organizzativo. La circostanza secondo la quale tali innovazioni dipenderebbero dalla storia pregressa di un’impresa e dalle decisioni da questa operate nel passato (c.d. path dependence, dipendenza dal percorso) confermerebbe la visione darwiniana dell’evoluzione, concepita come un processo costante e continuo.
Economia e biologia non condividono solo teorie sulle dinamiche comportamentali ed evolutive degli esseri viventi, ma anche metodi di analisi. La teoria dei giochi è un modello matematico inventato da un fisico e da un economista (von Neumann e Morgenstern, 1944), tuttora impiegato (anche in biologia) per studiare il comportamento di vari soggetti, delle nazioni (si veda il periodo storico della Guerra Fredda) ai microrganismi (batteri). Tuttavia nel suo libro Evoluzione e teoria dei giochi, l’economista Maynard Smith (1992) riconosce che essa si applica meglio alla biologia piuttosto che all’economia.
Recentemente, l’economia è tornata a fornire utili spunti per spiegare l’evoluzione umana: alcuni economisti (Horan et al. 2005) hanno motivato l’estinzione dell’uomo di Neanderthal e la diffusione dell’homo sapiens non tanto sulla base di caratteristiche genetiche, quanto sulla base della propensione di quest’ultimo alla divisione del lavoro e allo scambio, ovvero quell’indole umana originariamente posta da Adam Smith a principio della teoria economica classica.
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