Gli indicatori economici

Dal PIL all’Agenda 2030

Per comprendere la relazione tra ricchezza e benessere è necessario lavorare su indicatori economici che possano offrire una fotografia più precisa dello stato del benessere delle persone, oltre e al di là del PIL.

L’“invenzione” del PIL

Correva l’anno 1931. Gli Stati Uniti si trovavano ad affrontare uno dei periodi più bui della storia recente. La Grande Depressione che seguì alla crisi finanziaria del 1929 aveva ridotto in miseria milioni di americani. L’amministrazione, tuttavia, non aveva dati precisi sullo stato di salute dell’economia del Paese.
Fu a quel punto che il Senato americano chiese al Dipartimento del Commercio di ideare un indicatore sintetico che permettesse di conoscere lo stato dell’economia di un Paese. Per lo scopo, tra gli altri esperti, fu arruolato un giovane economista americano di origine russa, Simon Kuznets, con il compito di sviluppare un indicatore che permettesse di effettuare una rendicontazione nazionale dei beni prodotti dal Paese. Tale indicatore divenne il prototipo del PIL (Prodotto Interno Lordo) che, ad oggi, misura il valore dei beni e dei servizi finali prodotti da un Paese in un determinato periodo di tempo.
Il PIL divenne subito un indicatore molto utile. Esso servì a comprendere la velocità con la quale l’economia si stava riprendendo dalla crisi. Esso, inoltre, acquisì immediata popolarità in quanto ben si conciliava con la teoria keynesiana (che vedeva nei consumi il motore della prosperità economica) adottata dai protagonisti del New Deal per uscire dalla depressione. Più il PIL era elevato, più velocemente l’economia si stava riprendendo; per cui, bisognava produrre quanto più possibile affinché le persone potessero consumare sempre di più.
Durante il secondo conflitto mondiale, il PIL divenne un prezioso strumento per orientare l’economia bellica. A guerra finita, diviene l’indicatore privilegiato del boom economico post-bellico. Esso ricopre un ruolo da protagonista nel romanzo di fantascienza, 1984, di George Orwell (1949) dove il Grande Fratello, leader indiscusso del superstato totalitario di Oceania, faceva propaganda proiettando dati sulla produzione del Paese su televisori-telecamere ubicati ovunque. Per tutto il periodo della Guerra Fredda (1947-1991), il PIL viene usato dagli Stati Uniti per palesare la superiorità economica degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Sovietica e, per l’effetto, del sistema economico capitalista rispetto a quello socialista.

Crescita quantitativa o qualitativa?

Nel 1971, Kuznets vince il premio Nobel per l’economia «per la sua interpretazione, empiricamente fondata, della crescita economica, che ha portato ad una nuova e più approfondita analisi della struttura sociale ed economica e del suo processo di sviluppo». Tuttavia, già nel 1962, lo stesso Kuznets ammoniva che fosse necessario distinguere tra “quantità” (i.e. quanto produrre) e “qualità” (i.e. cosa e come produrre) della crescita. Egli, inoltre, rilevava che non fosse sufficiente puntare alla crescita economica fine a se stessa, ma fosse anche necessario avere bene chiaro a mente che l’obiettivo finale della crescita fosse il benessere delle persone.
Il PIL, infatti, non rileva i danni all’ambiente causati dall’attività economica, quali l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse naturali causati da produzione e consumi in forma massificata. Al contrario, benché contribuiscano a creare capitale sociale, attività quali il volontariato, la cura domestica dei bambini e degli anziani, il tempo libero e il tempo passato con la famiglia, sfuggono al calcolo del PIL. Se, per ipotesi, un genitore si trova a dover svolgere un secondo lavoro per far fronte alle esigenze della famiglia e, pertanto, a sottrarre tempo ad essa, il PIL rileva ciò come un guadagno piuttosto che una perdita.
Critiche al PIL vengono rivolte anche e dal Robert Kennedy (Senatore democratico americano) che condivise le perplessità di Kutznets quando, nel suo famoso discorso pronunciato davanti ad una folla di studenti universitari del Kansas (1968) affermava: «il PIL non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità̀ dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. […] non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza […]. Misura tutto, in breve, eccetto ciò̀ che rende la vita veramente degna di essere vissuta».
In effetti, il PIL rileva la ricchezza complessiva di un Paese, ma dice poco sul tenore e sulla qualità di vita delle singole persone che ci abitano. Il PIL pro capite (rapporto tra il valore del PIL e il numero di abitanti) indica semplicemente la quantità di prodotto interno lordo per persona ma non rileva le forti disuguaglianze che possono esserci al suo interno. La Cina, per esempio, proprio a partire dalla presa al potere del partito comunista di Mao Zedong (1949), vanta un PIL decisamente elevato (oggi secondo solo agli Stati Uniti), ma anche un livello altrettanto elevato di diseguaglianze sociali e numerose e reiterate violazioni dei diritti umani (Rapporto delle Nazioni Unite, 2023). Ad ogni modo, anche in occidente, i sociologi che analizzarono la società americana del boom economico postbellico (tra i più famosi, Erich Fromm ed Herbert Marcuse) rilevarono che la crescita economica aveva sì favorito la riduzione della povertà, ma aveva provocato anche l’insorgere di diverse nuove problematiche quali, frustrazione, alienazione, depressione, alcolismo, obesità e cardiopatie: le cosiddette malattie del benessere. 

Verso nuovi indicatori di sviluppo

Spinti dalla volontà di comprendere quale fosse la relazione tra ricchezza e benessere, già a partire dagli anni ’70 del Novecento alcuni ricercatori iniziarono a lavorare su indicatori economici che potessero offrire una fotografia più precisa dello stato del benessere delle persone, oltre e al di là del PIL.
Nel 1974, il demografo americano Richard Easterlin individuò ciò che, in seguito, acquistò popolarità come “il paradosso della felicità”. Associando una serie storica (dal 1946 al 1970) di dati relativi al PIL degli Stati Uniti con dati provenienti da indagini questionario in cui si chiedeva agli americani quanto si sentissero felici su una scala da 1 a 10, egli notò che crescita economica e felicità non erano correlate: benché il PIL crescesse, il benessere percepito delle persone rimaneva invariato, se non diminuiva. Secondo Easterlin, il paradosso si verificava perché più il reddito delle persone aumentava, ancor di più aumentavano le loro aspirazioni che, venendo disattese, generavano frustrazione. Tale dinamica psicologica viene spesso spiegata attraverso la metafora del treadmill: proprio come correndo su un tapis roulant, noi impieghiamo una grande quantità di energie (per incrementare il nostro reddito) ma, poiché sotto i nostri piedi il nastro scorrevole (le aspirazioni personali) si muove nella direzione opposta, in realtà, rimaniamo sempre allo stesso punto.
Le ricerche di Easterlin condussero gli economisti ad elaborare nuovi indicatori secondo criteri che rendessero una fotografia più precisa dello stato di benessere delle persone di un Paese. A partire dagli anni ’90 del Novecento si cominciò a distinguere chiaramente tra tenore di vita (livello di benessere materiale disponibile a una classe socioeconomica di una certa area geografica) e qualità di vita che, oltre al reddito, calcola anche la qualità dell’ambiente, la salute, la situazione abitativa, l’istruzione, la conciliabilità tra lavoro e vita privata, il tempo libero, la sicurezza personale e l’impegno civico.
L’Indice dello Sviluppo Umano (in inglese, Human Development Index) è un indicatore dello sviluppo elaborato nel 1990 (dal 1993 adottato dall’ONU tra gli indicatori ufficiali), che si basa su una sintesi di tre fattori: PIL pro capite, alfabetizzazione e speranza di vita.
The Gross National Happiness (Felicità Interna Lorda) fu ideato in seguito ad un’osservazione del re del Buthan che, in risposta ad un’intervista sulle ragioni dello stato di povertà del suo Paese, avrebbe risposto che la felicità del suo popolo fosse più importante della crescita economica. L’indicatore si basa su quattro elementi fondamentali:

  1. sviluppo socioeconomico equo e sostenibile;
  2. conservazione dell’ambiente;
  3. preservazione e promozione della cultura;
  4. trasparenza e promozione attiva di buon governo.

Dal 2012 viene redatto The World Happiness Report, un rapporto annuale che pubblica la classifica dei Paesi più felici al mondo, stilato sulla base di dati provenienti da questionari simili a quelli originariamente analizzati da Easterlin. Gli Stati nordici europei (Danimarca, Groenlandia, Svezia, Paesi Bassi e Norvegia) abitualmente detengono il primato quanto a livelli di felicità (nel 2024, la Finlandia è stata classificata il Paese più felice, con l’Italia al 41° posto).
L’Agenda 2030, sottoscritta il 25 settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite, contiene 17 obiettivi specifici coinvolgenti la dimensione ambientale, economica e sociale, ritenuti imprescindibili alla realizzazione dello sviluppo sostenibile. Lo scopo dell’Agenda è spronare gli Stati sottoscrittori a intraprendere politiche volte a realizzare proprio quegli obiettivi (lotta alla povertà e alle disuguaglianze, diritto alla manifestazione del proprio pensiero, all’istruzione, tutela della salute e dell’ambiente) che originariamente indussero gli economisti a rivedere il ruolo del PIL come indicatore economico privilegiato.

Referenze iconografiche: ESB Professional /Shutterstock

Viviana Di Giovinazzo

Dottore di ricerca presso l'Università degli Studi di Macerata e presso l'Université Paris I Panthéon-Sorbonne, è collaboratore didattico presso l’Università di Milano Bicocca. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia del pensiero economico e il rapporto tra economia e psicologia. È autrice di diverse pubblicazioni scientifiche nel campo dell’economia comportamentale e dell’economia del benessere.