Economia, cultura e civiltà
Un’indagine sul nesso di causalità
Il rapporto di causalità tra economia e cultura è un tema su cui si sono interrogati economisti, antropologi, sociologi e filosofi. Già nel Settecento, Voltaire osservava che il mercato promuove la convivenza pacifica tra diverse culture. Così scriveva il filosofo francese di ritorno dal suo soggiorno in Inghilterra: «Entrate nella Borsa di Londra, luogo più rispettabile di tante corti; vi trovate riuniti, per l’utilità degli uomini, rappresentanti di tutte le nazioni. Là, il giudeo, il maomettano e il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della stessa religione, e chiamano infedeli soltanto coloro che fanno bancarotta; là, il presbiteriano si fida dell’anabattista, e l’anglicano accetta la cambiale del quacchero» (Lettere filosofiche 1734, lettera VI).
Secondo Montesquieu e Smith l’economia di mercato ha una funzione civilizzatrice.
Ne Lo spirito delle leggi (1748), Montesquieu ritenne che il libero scambio fosse un doux commerce (dolce commercio). A differenza della guerra, ragionava Montesquieu, esso non richiede l’uso delle armi per dominare e amministrare i vinti al fine di estrarre ricchezza dai loro territori. Il commercio, continuava Montesquieu, è altresì fonte di virtù: ingentilisce i modi, suscita laboriosità, moderazione, prudenza, tranquillità e ordine.
Analogamente, ne La ricchezza delle nazioni (1776), Adam Smith illustra come il libero scambio predisponga le menti alla costruzione pacifica dell’ordine pubblico attraverso l’accordo pattizio tra individui.
Tra coloro che, al contrario, videro nella cultura e nei costumi la causa efficiente del buon funzionamento dei mercati, si colloca l’abate Antonio Genovesi (1765). Osservando la situazione economica del Regno di Napoli, questi si chiedeva perché, nonostante il porto dinamico e le terre produttive, ci fosse tanta miseria tra la gente. Secondo Genovesi, la povertà era causata dall’assenza delle virtù civiche (reciprocità, fraternità, fede pubblica), a suo parere precondizione necessaria del buon commercio.
Un secolo più tardi, anche Karl Marx (1859) si espresse sul nesso di causalità tra cultura ed economia. Benché critico del capitalismo, in quanto ritenuto avere un effetto de-umanizzante sulle persone, anch’egli ritenne che fosse il sistema di produzione a plasmare la vita culturale, intellettuale e sociale di una nazione.
Max Weber (1905), al contrario, ricondusse la causa dello sviluppo economico all’etica della religione protestante. Trasformando la ricerca della ricchezza in un dovere morale, e il successo economico in un segno tangibile della predestinazione individuale, secondo Weber, la Riforma calvinista giocò un ruolo determinante nella diffusione del capitalismo.
Anche per lo storico dell’economia Karl Polanyi il mercato non è un fenomeno naturale, né spontaneo, ma il prodotto di una determinata cultura. Ne La grande trasformazione (1944) egli rileva che il capitalismo è solo uno tra i possibili modi di organizzazione della vita economica di una comunità, di invenzione decisamente recente. Polanyi individua come metodi di scambio alternativi a quello di mercato, la redistribuzione e la reciprocità.
La logica della redistribuzione si colloca alla base del sistema socialista; essa prevede l’esistenza di un organo centrale che riceva e redistribuisca alla collettività i beni prodotti. Impostato sulla logica del dono (v. l’antropologo Marcel Mauss), il meccanismo della reciprocità attribuisce maggior valore ai legami e alle relazioni sociali, piuttosto che all’effettivo bene oggetto di scambio.
Di opinione radicalmente opposta a Polanyi fu, notoriamente, Friederich von Hayek (La via della schiavitù, 1944) il quale, rievocando la tesi di Smith aggiornata ai tempi moderni, pose il libero mercato a garanzia delle libertà individuali.
A partire dagli anni ’80 del Novecento, alcuni economisti hanno studiato il rapporto tra economia e cultura impiegando metodi di indagine a base sperimentale come, ad esempio, il gioco dell’ultimatum. Esso richiede l’interazione di due giocatori nella suddivisione di una determinata somma di denaro che viene data loro (di solito, una cifra che si aggira intorno ai 10 euro). Il primo giocatore sceglie come dividere la somma con il secondo (ad esempio, 8 euro a me e 2 euro a te; 5 a me e 5 a te; 9 a me e 1 a te). Se il secondo giocatore considera equa la divisione effettuata dal primo, entrambi ottengono la somma così come quest’ultimo ha deciso di dividerla. Se, al contrario, il secondo giocatore ritiene che il primo abbia diviso la somma ingiustamente, nessuno riceve alcunché.
Secondo la teoria economica neoclassica, ogni individuo nel ruolo di secondo giocatore dovrebbe accettare qualsiasi offerta, in quanto sempre maggiore di 0. Tale gioco, effettuato a livello globale su un campione di individui diversi per provenienza, cultura e reddito (sovente studenti universitari) ha mostrato, invece, che gli individui non si comportano come voluto dalla teoria standard del comportamento, in quanto la grande maggioranza delle persone rifiuta un’offerta di divisione del denaro troppo bassa (di solito, ≤ 30%), anche se ciò implica non ottenere alcuna somma di denaro per sé. L’esperimento dell’ultimatum avrebbe mostrato anche che società diverse condividono la stessa idea di equità e che, pertanto quest’ultima non dipenderebbe da una determinata cultura.
Più recentemente, alcuni economisti comportamentali (Henrich et al. 2001) hanno proposto lo stesso gioco, non a studenti di Paesi a economia avanzata, ma a membri di tribù pre-industriali (in Perù, Paraguay, Indonesia, Tanzania, Kenya, Papua Nuova Guinea ecc.), ottenendo risultati decisamente differenti.
I membri di tribù con un’organizzazione economica piuttosto semplice (economia di sussistenza a base familiare; es., Machiguenga, in Perù) offrivano somme di denaro piuttosto contenute, che venivano comunque accettate dal secondo giocatore. I “giocatori” appartenenti ad altre tribù (es., Aché in Paraguay e Lamelara in Indonesia), la cui vita economica implicava una cooperazione maggiore tra individui della stessa comunità (rispettivamente, cacciatori e cacciatori di balene) facevano offerte piuttosto elevate (≥ 50% della somma erogata dagli sperimentatori).
Tali risultati confermerebbero la tesi di Marx, secondo il quale il sistema di produzione determina gli usi e i costumi di una società. I giocatori delle tribù in Papua Nuova Guinea, tuttavia, rifiutavano somme anche molto generose. Intendendo l’offerta di denaro come un dono, questi si mostravano restii a instaurare un legame vincolante. In particolare, ricevere un’offerta (dono) piuttosto elevato, secondo i costumi di tale tribù, implicava accettare un ruolo di subordinazione all’interno del gruppo. Questi ultimi dati comproverebbero la tesi di Polanyi: è la cultura di una società a determinare non solo gli usi economici, ma anche la natura dei rapporti tra gli individui.
Altri economisti sperimentali intenti nella ricerca del nesso di causalità tra economia e cultura, hanno indagato quanto una determinata tradizione di valori possa influenzare il comportamento economico delle persone, giungendo a conclusioni che smentirebbero quanto affermato da Voltaire.
Hoff e Pandey (2006) hanno chiesto a dei bambini di età scolare provenienti da villaggi rurali dell’India del Nord, area in cui il sistema delle caste è ancora fortemente radicato, di risolvere alcuni esercizi (trovare la strada di uscita da un labirinto) dietro compenso di una rupia per esercizio risolto (il compenso orario di un lavoratore non specializzato si aggira attorno alle 6 rupie). I risultati hanno mostrato che, quando la casta di appartenenza non viene rivelata, i bambini risolvono all’incirca lo stesso numero di esercizi. Quando, invece, la casta di appartenenza viene rivelata, la resa dei bambini che appartengono per nascita alla casta inferiore, è inferiore. Essi istintivamente rinunciano a impegnarsi nell’esercizio, non è ben chiaro se per perdita di autostima, oppure per conformarsi a quanto ci si aspetta da loro.
Comportamenti simili sono stati individuati nelle ricerche di genere. Per esempio, nei tornei di matematica le ragazze ottengono gli stessi risultati dei ragazzi in una classe di sole ragazze. In classi miste, invece, ottengono risultati inferiori, andando così a rafforzare uno stereotipo a loro discredito (Spencer et al. 2000).
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