Inauguriamo la rubrica QI- Questioni di italiano analizzando un problema, quello del femminile dei nomi che indicano cariche o professioni, tornato recentemente alla ribalta.
La questione, grazie all'impegno di figure istituzionali di primo piano (si pensi alla presidente della Camera Laura Boldrini) e alla costante presenza nelle news di importanti figure internazionali (basta citare la cancelliera Angela Merkel), forse è giunta a una soluzione.
Il dibattito è stato rinfocolato dalla dichiarazione di intenti della ministra Fedeli al momento del suo insediamento e da una polemica più recente cui ha partecipato la già citata presidente della Camera, ma aveva già avuto una tappa importante ormai trent'anni fa con le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana (estratto da Il sessismo nella lingua italiana a cura di Alma Sabatini per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna nel 1987), come ha ben ricordato il presidente dell'Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, in un articolo su "Famiglia Cristiana" nel gennaio 2017.
Ma perché c'è stata e c'è ancora tanta resistenza e tanta incertezza nel formare il femminile di titoli e cariche istituzionali e professionali? Come dice Luca Serianni "l'incertezza dipende dal fatto che i nomi che indicano certe professioni o cariche (carabiniere, architetto, medico, giudice, ministro, presidente) una volta non erano usati al femminile, perché solo gli uomini vi avevano accesso. Quando però le donne hanno ottenuto maggiore parità, si è posto il problema di come definirle. Per le professioni che si sono aperte alle donne prima di altre, la forma femminile è entrata in uso senza difficoltà, con la normale modifica della desinenza (ginecologa da ginecologo, professoressa da professore) oppure concordando al femminile l'articolo o l'aggettivo (la presidente, la consulente). Per le professioni più recenti, invece, l'uso è ancora oscillante. Le difficoltà a utilizzare un femminile come ministra, che pure non presenta alcuna differenza morfologica rispetto a operaio/operaia o impiegato/impiegata, sono probabilmente più socioculturali che linguistiche". Anche Cecilia Robustelli si è espressa sulla stessa linea: "Le resistenze all'uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche." Tra le soluzioni adottate – usare comunque il maschile (il ministro Elsa Fornero, il magistrato Ilda Bocassini, l'avvocato Giulia Bongiorno, il rettore Stefania Giannini), mantenere il nome al maschile aggiungendo la parola donna (donna magistrato o magistrato donna) e infine ricavare regolarmente il femminile dal maschile (avvocata, come impiegata…) – quest'ultima sembra la strada più semplice e più aderente alla grammatica dell'italiano. E come chiosa Luca Serianni "se a qualcuno di questi termini non si è abituati, con il tempo ci si potrà abituare".
PER APPROFONDIRE
Si può vedere l'articolo Infermiera sì, ingegnera no di Cecilia Robustelli, leggere le Linee guida per l'uso del genere nel linguaggio amministrativo, sempre a cura di Cecilia Robustelli, il saggio sempre della stessa autrice Donne, grammatica e media, la grammatica L. Serianni, Il bello dell'italiano, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori 2012, p. 181, e la pubblicazione più recente in materia: Accademia della Crusca, "Quasi una rivoluzione". I femminili di professioni e cariche in Italia e all'estero (con un saggio di G. Zarra e interventi di C. Marazzini), a cura di Y. Gomez Gane, Firenze, presso l'Accademia, 2017.
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