Riflessioni sul paradigma verbale dell’italiano
E sul suo insegnamento
A giudicare dai Programmi e dalle Indicazioni Nazionali che hanno fissato nei decenni gli obiettivi formativi della scuola pubblica, il paradigma verbale è stato sempre al centro dell’attenzione dei docenti. Fin dai primi Programmi che il neonato stato italiano ereditò nel 1861 dalla legislazione piemontese, si dava agli insegnanti una direttiva molto precisa (si tenga presente che all’epoca l’obbligo comprendeva la I e la II classe elementare): “il più utile e importante esercizio grammaticale in questa classe [II elementare] è la coniugazione orale e talvolta scritta di verbi regolari e di molti irregolari al passato remoto, l’uso dei quali è frequentissimo” (Lo Duca 2012, p. 446). Questo richiamo esplicito al paradigma verbale è presente, sia pure con diversa formulazione, in tutti i documenti successivi e fino alle Indicazioni Nazionali del 2007, quando al termine della V classe si suggeriva che gli allievi dovessero saper “individuare e usare in modo consapevole modi e tempi del verbo”. Solo nelle ultime Indicazioni (2012) si parla genericamente di “parti del discorso o categorie lessicali”, di cui nella V classe della primaria gli allievi dovranno riconoscere “i principali tratti grammaticali”. Questa dicitura ritorna, identica, tra gli Obiettivi fissati al termine della III media. Il verbo, come categoria morfologica, è ovviamente compreso in questa formulazione e dunque perde la sua centralità.
Tuttavia la sostanza rimane. Parlare dei “principali tratti grammaticali” del verbo, in assenza di indicazioni più precise, autorizza a pensare che i tratti di persona, tempo, modo, aspetto e diatesi (attiva/passiva) debbano rientrare tutti a pieno titolo nella dicitura. E infatti i si presentano già nella IV classe della primaria i diversi tempi dell’indicativo e del congiuntivo, mentre gli altri modi, la forma passiva e certi particolari tipi di verbi (i servili o modali, i riflessivi e alcuni verbi irregolari) sono generalmente proposti nella V classe. Questo è quanto normalmente si fa, e che ho avuto spesso modo di verificare sfogliando i libri di testo della primaria e i quaderni dei bambini.
Il metodo di insegnamento tradizionale funziona?
Tuttavia, a giudicare da questi materiali, sembra che sia gli insegnanti che gli autori dei libri di testo abbiano scarsa percezione della complessità della materia che propongono all’attenzione dei bambini in così breve tempo: tutti i tratti del verbo vengono presentati e risolti in poche pagine, le diverse coniugazioni, i tempi, i modi ricevono un’attenzione veloce, mentre si dà per scontato che le tavole dei paradigmi, che accompagnano sempre la presentazione del verbo, complete di tutte le forme previste, vadano memorizzate in rapida successione. Contestualmente gli scolari vengono fatti esercitare nell’esercizio di riconoscimento delle diverse forme, di cui si richiede la descrizione e l’abbinamento con la rispettiva etichetta (mangiava = voce del verbo mangiare, modo indicativo, tempo imperfetto, III persona singolare). E questo è tutto, più o meno.
E dopo la primaria cosa succede?
Nelle classi successive, che seguono il ciclo primario, il verbo si dà per acquisito (fatte salve le solite lodevoli eccezioni, sempre troppo poche), e le conoscenze, faticosamente acquisite, vengono rapidamente dimenticale.
Nel tentativo di convincere i docenti della difficoltà del compito richiesto ai bambini, ho scritto in un libro recente (Lo Duca 2018, pp. 179-80) che il paradigma verbale dell’italiano è un tema molto complesso, che andrebbe quindi attentamente frazionato e ripartito in una sequenza ragionevole per tutti gli anni di scuola, distribuendo la materia sulla base della maturazione linguistica e cognitiva degli allievi. La complessità del tema è dovuta a vari fattori.
Quali sono gli elementi che rendono il paradigma verbale complesso?
1. La molteplicità delle forme
Il primo elemento di complessità, cui ho già accennato, è la molteplicità delle forme: tre coniugazioni (-are, -ere, -ire), anzi sei se si aggiungono i verbi pronominali (-arsi, -ersi, -irsi); sette modi tra finiti e indefiniti; 21 tempi diversi per un totale di 92 diverse uscite per le sei persone (spero di aver fatto bene i conti), che vanno raddoppiate se consideriamo anche le forme del passivo dei verbi transitivi. Alle forme regolari vanno poi aggiunte le moltissime uscite irregolari, che si addensano proprio in alcuni tra i verbi più comuni.
Data questa situazione, già il semplice esercizio di riconoscimento delle diverse forme risulta essere un esercizio difficile e niente affatto assodato alla fine della scuola primaria. Per esempio, quanti insegnanti si sono accorti che, una volta esaurito e abbandonato l’esercizio mnemonico sul paradigma, i tempi composti e i verbi pronominali vengono riconosciuti a fatica? Da una ricerca condotta qualche anno fa (Lo Duca, Cristinelli, Martinelli, 2011) in cui sono stati coinvolti 195 ragazzi di I, II e III media, risulta che, richiesto di riconoscere e cerchiare tutte le voci verbali presenti in una lista di frasi, solo il 35% del campione riconosce avevamo finito come nesso verbale unitario, e per è successo la percentuale si abbassa ancora di più (28%). Va ancora peggio con i verbi pronominali (si sentiva, 25% di riconoscimento; vi spaventaste 10%; ci fossimo accorti 5%), mentre il riconoscimento precipita al 3% se il tempo composto contiene una inserzione (era tutta presa). In tutti questi casi i ragazzi si limitano a cerchiare l’ausiliare dei tempi composti, chiamando ‘presente’ il passato prossimo e ‘imperfetto’ il trapassato prossimo, mentre ignorano la particella pronominale, staccata dal verbo principale (il 71% del campione cerchia spaventaste).
2. Le funzioni dei verbi
La seconda difficoltà ha a che fare con la funzione svolta da ciascuna delle diverse forme del paradigma. Per restare sull’esempio già fatto, mangiava, che cosa esattamente esprime questa forma? Qualcuno potrebbe dire che mangiava indica un evento passato, e che, data la semantica del verbo, il promotore di questo evento deve essere un singolo essere umano o comunque animato, che viene infatti etichettato come III persona singolare (Maria mangiava, il gatto mangiava). Certo: ma allora qual è la differenza rispetto agli altri tempi che esprimono anch’essi il passato? Quindi rispetto a mangiò, ha mangiato, aveva mangiato, ebbe mangiato? Quando, in italiano, si usa un tempo o l’altro? Questa è una domanda importante, quella che dovremmo sempre farci su ognuna delle forme previste dal paradigma, ma che quasi sempre la scuola dimentica di fare. Invece, ragionando su questo tema, potremmo facilmente scoprire che la scelta di un tempo o dell’altro non è libera, condizionata com’è dal tipo di evento di cui si sta parlando e dalle relazioni che si stabiliscono con altri eventi rappresentati nel testo. Per esempio, non troverò mai in un testo avevo mangiato se non in relazione ad un altro evento, pure passato, ma avvenuto prima: come in quando Cappuccetto Rosso incontrò il lupo, questi aveva già mangiato la nonna. Questo tipo di alternanza di tempi è normale e molto frequente nei testi narrativi.
Non solo: se restiamo nell’ambito dei testi narrativi, abbiamo altre cose da scoprire sull’imperfetto, oltre al fatto che veicola il passato. Potremmo chiederci come mai questo tempo si accompagni per lo più con il passato prossimo o il passato remoto, come nell’esempio che segue: C’era una volta una bambina che si chiamava Cappuccetto Rosso e che abitava…. Un giorno la mamma la chiamò e le disse…. Perché in questa breve sequenza alcuni eventi vengono rappresentati con l’imperfetto, altri col passato remoto? Qual è la diversa funzione svolta da questi due tempi? In questi casi entra in gioco non già la funzione temporale (quale evento avviene prima, quale dopo) ma la funzione aspettuale dei tempi, per cui gli eventi all’imperfetto rappresentano lo sfondo, lo scenario in cui si inscrive la storia; sono invece resi al passato remoto (o prossimo) gli eventi di primo piano, quelli che, come dicono i teorici, fanno avanzare la storia, e che rappresentano gli eventi di primo piano, quelli che il narratore vuole raccontare.
Ancora: siamo proprio sicuri che l’imperfetto veicola sempre e comunque il passato? No, se pensiamo al cosiddetto imperfetto di cortesia (buongiorno, volevo provare la maglia in vetrina, è possibile?) o all’imperfetto ludico dei bambini (facciamo che io ero il ladro e tu il poliziotto, io rubavo nella banca, ma poi tu mi vedevi e mi arrestavi). In entrambi i casi l’imperfetto si carica di valori modali, che hanno a che fare con l’atteggiamento del locutore: di cortesia, appunto, nel primo caso, di attribuzione di ruoli e di progettazione nel secondo. Dunque perde il valore temporale di passato, indicando il presente nel primo caso, il futuro nel secondo.
Tutto questo per dire che ogni tempo si carica, a seconda dei contesti nei quali viene utilizzato, di una o più funzioni, e che una stessa funzione può essere svolta da più tempi e modi (volevo / vorrei provare la maglia in vetrina), e che insomma non esiste una corrispondenza biunivoca del tipo: una forma = una funzione. Su questo ci hanno avvertito i molti linguisti che hanno studiato il sistema verbale dell’italiano, primo fra tutti Bertinetto (1986), che ha parlato di una “sostanziale ambiguità” dei tempi verbali (ivi, p. 27), della loro connaturata mancanza di univocità. Questo li rende una materia difficile da dipanare, specie per i bambini della Scuola primaria.
Una proposta alternativa di insegnamento
Da queste riflessioni si deduce che l’intento di presentare tutta questa materia nel ciclo primario è mal posto, e che sottoporre i bambini a quel lungo ed estenuante esercizio di memorizzazione di tempi e modi è non solo inutile (le etichette prive di contenuto vengono rapidamente dimenticate), ma è anche dannoso, avendo il solo esito di allontanare irrimediabilmente i malcapitati scolari dalla grammatica. A mio parere bisognerebbe invece non già presentare tutta la tavola del paradigma, ma isolare un tempo alla volta a partire dai contesti di uso della lingua, imparare a riconoscerne le forme, ragionare assieme sulla funzione, o sulle funzioni, che ciascun tempo svolge in quel testo, magari confrontandolo con altri tempi o con altri testi. Naturalmente, così facendo, i tempi si allungano inesorabilmente, coinvolgendo anche i cicli scolastici superiori nella difficile impresa di capire per davvero il sistema verbale dell’italiano.
Bibliografia
- Bertinetto P. M. (1986), Tempo, aspetto e azione nel verbo italiano. Il sistema dell'indicativo, Accademia della Crusca, Firenze.
- Lo Duca M.G. (2012), La grammatica nei Programmi e nelle Indicazioni per la scuola dell’obbligo, dall’Unità ad oggi, in Schiavon C., Cecchinato A. (a cura di), «Una brigata di voci». Studi offerti a Ivano Paccagnella per i suoi sessantacinque anni, CLEUP, Padova, pp. 443-455.
- Lo Duca M.G. (2018), Viaggio nella grammatica. Esplorazioni e percorsi per i bambini della scuola primaria, Carocci, Roma.
- Lo Duca M.G., Cristinelli A., Martinelli E. (2011), Riconoscere le voci verbali: indagine su una categoria complessa, in Corrà L., Paschetto W. (a cura di), Grammatica a scuola, Franco Angeli, Milano, pp. 153-170.
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