I giovani e la guerra

Allo scoppio della Prima guerra mondiale, i giovani borghesi – studenti, per lo più – si schierarono in larga maggioranza a favore dell’intervento italiano. Le università divennero il principale centro della mobilitazione interventista. Ma che cosa spingeva quei giovani ad abbracciare con tanto entusiasmo la prospettiva della guerra?

Allo scoppio della Prima guerra mondiale, i giovani borghesi – studenti, per lo più – si schierarono fervidamente e in larga maggioranza a favore dell’intervento italiano. Le università furono il principale centro della mobilitazione interventista, che si fece via via più intensa fino a toccare l’apice nella primavera del 1915: gli studenti partivano in corteo dalle sedi delle università, si scontravano contro i neutralisti e contro le forze dell’ordine, bruciavano le bandiere austriache, organizzavano “chiassate” sotto le finestre del consolato austriaco. Chi visse quei giorni da ragazzo, non li poté mai dimenticare. Alcuni, molti anni e molti avvenimenti dopo, avrebbero riconosciuto i limiti, le ingenuità e anche i pericoli di quella mobilitazione; ma non avrebbero dimenticato l’atmosfera sovraeccitata di quelle piazze, l’emozione e l’impetuosa buona fede di quando a vent’anni «grida[vano] a perdifiato Abbasso Giolitti insieme agli altri studenti».1
Ma che cosa spingeva quei giovani ad abbracciare con tanto entusiasmo la prospettiva della guerra (di una terribile guerra, dove in tanti avrebbero trovato la morte)? Che cosa faceva loro aborrire l’eventualità del mantenimento della neutralità italiana al punto che, quando quell’eventualità si fece concreta, persero la testa e si scatenarono nelle piazze malmenando i neutralisti e muovendo addirittura all’assalto di Montecitorio? Che cosa c’era di tanto ignominioso nella difesa della pace?
Intanto, c’era l’idea che questo avrebbe significato tradire la patria. Il Risorgimento aveva portato al risultato glorioso dell’Unità nazionale: molto era stato fatto, ma non tutto. Erano rimasti esclusi dai “patrii confini” due lembi di territorio – simbolicamente rappresentati da due città, Trento e Trieste – abitati in maggioranza da italiani, ma ancora collocati entro i confini dell’Impero austro-ungarico. La guerra contro l’Austria appariva agli occhi di questi giovani, entusiasti patrioti, l’occasione per completare l’epopea risorgimentale, terminando attraverso la conquista di un ultimo tassello l’opera eroica dei loro nonni. Sarebbe stata l’“ultima guerra del Risorgimento”, la “Quarta guerra di indipendenza”: e loro ne sarebbero stati i gloriosi protagonisti.
La prospettiva appariva quanto mai seducente, anche perché il percorso che aveva portato all’unificazione nazionale era stato oggetto, nei decenni successivi all’Unità, di un processo di vera e propria sacralizzazione. Libri di testo, quadri, monumenti, poesie, feste civili e musei avevano concorso ad elaborare una religione civile imperniata sul mito laico del Risorgimento2 e dei suoi eroi, che finalmente si aveva l’occasione di emulare, combattendo – proprio come avevano fatto loro – “l’eterno nemico” austriaco.
Insomma: i ragazzi che manifestavano in piazza per l’intervento dell’Italia vedevano avverarsi la possibilità di combattere davvero, come dicevano loro, «la guerra che sognammo da fanciulli, quando nei primi libri ci appresero ad odiare l’esercito austriaco».3 È vero che in realtà l’Italia era unita fin dal 1882 all’Austria-Ungheria da un patto di alleanza; ma l’irredentismo e l’odio antiaustriaco continuavano a essere sentimenti vivi, diffusi e continuamente sollecitati. Un ex bambino di inizio secolo ricordava così, ormai anziano, la sua aula scolastica:

Sulle bianche pareti della stanza, in cui aveva sede la scuola del villaggio, tre cartelloni, collocati a fianco dei ritratti del Re e della Regina, si offrivano all’attenzione e alla fantasia di noi scolaretti durante le lunghe ore di lezione. Uno rappresentava una città semidiroccata, Brescia, la “leonessa d’Italia”, devastata, nel 1849, dalle bande del feroce generale austriaco Haynau; in un altro si scorgeva il barbuto Radetzky […]; il terzo presentava il “quadrato di Villafranca” ed era quello che più colpiva l’immaginazione degli scolari con i suoi soldati che, fieramente issati a cavallo, emergendo appena da una nuvola di fumo, respingevano il disordinato assalto degli Austriaci contro il futuro re Umberto.4

La testimonianza, resa a settant’anni di distanza, dimostra come queste immagini potessero imprimersi in modo indelebile nella memoria, fissando una volta per tutte la rappresentazione dell’austriaco come nemico. I libri di testo ribadivano il concetto, narrando le nefandezze compiute dal nemico (compresi “fanciulli scannati”, “vecchi percossi”, “donne mutilate”, bottegai “arsi vivi”)5 e invitando gli scolari a immedesimarsi nelle eroiche imprese compiute dai “martiri del Risorgimento”, spesso giovani o giovanissimi, quasi come loro.

Benedette le spade, benedetti i fucili branditi da quella gioventù generosa; e benedetti i cuori che in così verdi anni palpitarono di tanto grande amor patrio, e che il piombo nemico estinse! […] Non erano uomini, erano leoni quei giovinetti italiani che combattevano con indomito valore – e la pagina da essi scritta quel giorno col sangue, basterebbe da sola a onorare […] l’Italia intera.6

Questo è solo un esempio, dei molti possibili: l’obiettivo della storia patria narrata ai “fanciulli” era quello di sollecitare un’identificazione patetico-sentimentale con i fatti e gli eroi del Risorgimento, buona ad alimentare nei giovani lettori ardenti volontà di emulazione. Tanto più che spesso le genealogie familiari potevano vantare un nonno, o uno zio o un parente, che avevano partecipato a vario titolo, in forma più o meno marginale, a qualche episodio dell’epopea patriottica: per cui “completare l’opera dei nonni” poteva essere non più un monito astratto, ma una sorta di vera e propria investitura familiare.
Tutto ciò finiva per alimentare giovanili sogni di gloria, ispirati a un modello di eroismo guerriero epico e premoderno che faceva agognare spade sguainate, elmi scintillanti, sfolgoranti prove di ardimento. E, ancora una volta, camicie rosse: l’immaginario di questi ragazzi era alimentato da una memorialistica garibaldina abbondante e ricca di suggestioni. In quei racconti, scritti dai reduci della spedizione dei Mille, i volontari al seguito di Garibaldi erano descritti come un gruppo di giovani eroici – magari, come nelle pagine dell’ex garibaldino Giuseppe Bandi, anche un po’ scapestrati – incuranti del pericolo, infiammati dagli ideali, uniti in un gioioso cameratismo giovanile: che cosa poteva esserci di meglio per interrompere il troppo tranquillo fluire dell’esistenza, la monotonia di un’epoca percepita come grigia e ordinaria?7
Ma non erano solo i racconti delle avventure garibaldine a riscaldare gli animi. I libri, in generale, avevano nel fissare l’immaginario dei giovani borghesi di inizio secolo una importanza di cui un paio di generazioni dopo – diciamo con la diffusione della televisione – si sarebbe persa traccia. Primo e a volte unico strumento di evasione in lunghi e noiosi pomeriggi invernali trascorsi in famiglie che stavano diventando sempre meno numerose, i libri apparivano agli occhi dei bambini oggetti attraenti e misteriosi, e l’iniziazione alla lettura finiva per essere spesso molto precoce. Tra i generi preferiti vi erano naturalmente i racconti d’avventura, e tra questi i romanzi di Emilio Salgari. In quelle pagine le avventure dei protagonisti davano vita a una «rappresentazione dell’eroico come etica della vita»,8 con il risultato di suscitare nei giovani lettori «l’ideale di imprese ardimentose» (e negli educatori più timorosi la diffidenza verso letture che si riteneva «eccita[ssero] i nervi» e «scalda[ssero] la testa» dei ragazzi).9 E poi, gli eroi dei romanzi salgariani, da Sandokan al Corsaro nero, non avevano forse molti tratti in comune con il personaggio di Giuseppe Garibaldi? Sandokan in particolare non condivideva con lui – oltre ai lunghi capelli, ai vestiti esotici, alle dote morali – anche la battaglia per liberare la sua gente dalla dominazione straniera?10
Si trattasse di memorialistica risorgimentale, di Salgari, o ancora di De Amicis o Vamba, bisogna insomma tenere a mente il potere che ebbe la lettura nell’ispirare i gusti, le fantasie e alla fine anche i gesti di una generazione assetata di libri. Però, oltre che dai libri, il desiderio di novità era anche acuito dal vincolo soffocante di un futuro già pianificato da famiglie saldamente gerarchiche, in cui i padri avevano perfettamente chiaro quale dovesse essere il percorso dei propri figli. Paolo Monelli, che sarebbe diventato un giornalista di primissimo piano e allora era un giovane studente di legge, si «preparav[a] malinconicamente a far l’avvocato in uno studio curialesco di Bologna». Rassegnato, sognava la guerra come un’avventura impossibile:

Soltanto qualche sera di tempesta sulle montagne invernali, ai confini, vedendo fumare la tormenta dalle valli oltre frontiera, fuggendo a testa bassa, chino sugli sci, verso quelle terre non nostre, fantasticavo di giungervi così da soldato, in un’avventura di guerra, e me ne ribolliva il cuore; ma ritornavo poi da quella breve ansia come da una sbornia, umiliato, abbacchiato, rassegnato alla quotidiana vita senza imprevisti.11

Invece la guerra scoppiò davvero, e lui, giovane alpinista romantico e ardimentoso, non ebbe dubbi, e andò soldato. Pochi anni dopo la fine del conflitto, riflettendo sulle ragioni che lo avevano fatto arruolare come volontario, fece il suo “esame di coscienza”: «attristire l’anima nel lo studio muffoso, parlare attraverso gli sportelli agli uscieri tabaccosi, ritagliare filosofia dozzinale nell’angolo del caffè, trapestare cocciutamente la via della carriera […] fare l’amore il sabato sera perché domani domenica si può stare a letto di più – oh che buona ventata la guerra su tutto questo ciarpame […]!». Era per questo, dunque, che si partiva; e anche – è ancora Monelli che parla – «per questo lievito di giovinezza che ci fa danzare sul filo del rischio con ebbrezza acuta».12
Amore per l’avventura, ebbrezza del rischio, fervore giovanile: sono gli slanci romantici dell’ultima generazione dell’Ottocento, comuni ai giovani di tutta Europa. Lo storico E.J. Leed ha descritto così quello che accadde allo scoppio della guerra: «L’agosto [del 1914] liberò tanta gioventù borghese da una quotidianità fatta di noci di cocco intagliate, porcellane classicheggianti, decorazioni floreali in gesso, stanze foderate con pesanti tappezzerie e drappi damascati, nonché ricolme di ninnoli sovraccarichi di polvere».13 Rispetto alla monotonia della vita quotidiana e a un mondo che appariva dominato dalla logica dell’utile e del benessere individuale, i giovani borghesi di tutta Europa anelavano a una vita spirituale più intensa e ricca di ideali. «Gli idealisti», scriveva un ragazzo di nome Amerigo Rotellini alla madre, nel tentativo di convincerla a lasciarlo arruolare come volontario, «non son mai divenuti re del petrolio e padroni economici del mondo; ma se non ci fossero i matti e i poeti il mondo sarebbe e rimarrebbe sempre per tutti la più nauseabonda fanghiglia che si possa mai concepire».14
Non stupisce che i genitori tentassero di frenare le scalmane dei figli, se questi – non essendo stati precettati per la troppo giovane età, per ragioni mediche o per altre ragioni – manifestavano il proposito di arruolarsi come volontari. Il pericolo era grande, ed era naturale che si tentasse di salvare la vita dei propri cari, finché era possibile. Ma contro questa volontà di protezione, i ragazzi più motivati si ribellavano, tentando di sfuggire al ricatto del senso di colpa. Scriveva ancora Amerigo nella lettera alla madre:

Perché devi dire che non hai più doveri, che il tuo compito è compiuto, che nulla t’importa della tua vita? Allora io, perché tu fossi contenta, dovrei ritornare ad essere eternamente un adolescente – cercare sempre, egoisticamente, solo il mio benessere materiale; fuggire ogni ragione di disagio, di dolore e di prova –; sacrificare al benessere personale ogni mia più pura fiamma di volontà?15

Non era questa una prospettiva accettabile; per cui si chiedeva, si pregava, si implorava di acconsentire all’arruolamento, talvolta cercando la complicità del padre al fine di emanciparsi dalle cure materne. Scriveva il ventenne Antonino Del Franco al padre:

Di te, so che sei infiammato dalla stessa grande idea, che pervade la mia mente: so che segui con ansia ogni mio passo, che trepidi ad ogni difficoltà, che io incontro, preoccupato solo del come la supererò. Vorrei che anche la mamma fosse dello stesso carattere tuo e mio, che [….] avesse più orgoglio che paura per le azioni del figlio.16

Del resto, non era facile per i genitori persistere nel rifiuto; perché è vero che alla decisione di combattere in guerra contribuivano la voglia di sentirsi grandi, la smania di eroismo, l’ebbrezza di nuove avventure. Ma è vero altrettanto che la scelta era sostenuta dall’amor di patria, dal senso del dovere e da una salda etica della responsabilità: esattamente i valori a cui questi giovani erano stati educati. In famiglia e a scuola avevano imparato, a partire dalla più tenera infanzia, che quando necessario occorreva essere disposti a morire per la patria; che compiere il proprio dovere era una regola che non ammetteva eccezioni; che bisognava assumersi – sempre – le proprie responsabilità, per intero e fino in fondo. L’intero apparato pedagogico ottocentesco ruotava attorno a questi punti fermi, sicché al momento della prova era difficile, per i genitori, argomentare diversamente e convincere i propri figli a tenersi al riparo. Questi ragazzi, a migliaia e migliaia, avevano letto sulle pagine di Cuore di De Amicis – il vero best seller dell’epoca – parole come queste, rivolte da un padre al figlio amatissimo:

Se un giorno io vedessi te tornar salvo da una battaglia combattuta per essa [la patria], salvo te, che sei la carne e l’anima mia, e sapessi che hai conservato la vita perché ti sei nascosto alla morte, io tuo padre, che t’accolgo con un grido di gioia quando torni da scuola, io t’accoglierei con un singhiozzo d’angoscia, e non potrei amarti mai più, e morirei con quel pugnale nel cuore.17

Avevano letto queste parole, e le avevano prese sul serio. Avevano ascoltato insegnamenti, mille volte ripetuti in famiglia, che sacralizzavano l’amore per la patria, la fermezza della volontà, e il senso del Dovere – con la d maiuscola, perché era così che lo si intendeva – di fronte a cui tutto il resto doveva arretrare: convenienza, comodità, piacere, interesse individuali. E proprio ora, con la Patria impegnata in una terribile guerra, sarebbero dovuti arretrare? «Ora è venuto il momento del dovere», scriveva ai genitori il giovanissimo Roberto Sarfatti, chiedendo a diciassette anni il permesso di arruolarsi come volontario. «Voi padre, voi madre, così avete detto! Così hanno detto i libri, i maestri. Questo di combattere è ora mio dovere [ ] io non andrò in guerra per uno stupido desiderio di distruzione o di avventure, io ci andrò perché così vogliono la mia coscienza, la mia anima, le mie convinzioni». Ottenuto infine il permesso dei genitori ed arrivato al fronte, Roberto ribadiva così, in una lettera al padre, la sua fedeltà ai valori familiari:

In ogni caso, qualunque cosa succeda, stai sicuro che compirò intero il mio dovere di italiano e di soldato fino a che lo potrò, e lo compirò senza inutili temerarietà e senza spavalderie vane, ma senza paura, e con la fierezza di essere figlio tuo e della mamma, e colla sicurezza che per quanto potesse essere grande il tuo dolore, tu mi preferiresti morto che vile.18

E così, come già osservava Omodeo, i genitori «vedevan dedurre dai presupposti stessi dell’educazione impartita la conseguenza terribile dell’offerta».19
L’aggressività, l’eroismo e la virilità marziale esaltate dalle frange più estreme dell’interventismo – dai futuristi ai sindacalisti rivoluzionari – finivano dunque per convivere con il ben più diffuso retaggio di una tradizione borghese basata sull’autocontrollo, il senso del dovere e la nobiltà d’animo. «La guerra era per me una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come a una delle tante necessità ingrate ma inevitabili della vita»: lo scrisse Emilio Lussu in Un anno sull’altipiano, dando voce ai tanti che come lui avevano combattuto «non per amor della guerra, ma per semplice amore del dovere».20 Quando la guerra mostrò il suo vero volto, quando il fango delle trincee spense ad uno ad uno i luccicanti sogni di gloria che avevano accompagnato l’arruolamento, fu la tradizione – non la trasgressione – che aiutò questi giovani a tenere duro.

Note

  • 1P. Vita-Finzi, Le delusioni della libertà, Vallecchi, Firenze 1961, pp. 224-226. Cfr. anche A.M. Ghisalberti, Il popolo italiano e la guerra, entrambi cit. in E. Papadia, Di padre in figlio. La generazione del 1915, il Mulino, Bologna 2013, p. 197.
  • 2M. Baioni, La religione della patria. Musei e istituti del culto risorgimentale, 1884-1918, Pagus, Treviso 1994; B. Tobia, Una patria per gli italiani. Spazi, itinerari, monumenti nell’Italia unita (1870-1900), Laterza, Roma-Bari 1998; S. Soldani, Il Risorgimento a scuola: incertezze dello Stato e lenta formazione di un pubblico di lettori, in Alfredo Oriani e la cultura del suo tempo, a c. di E. Dirani, Longo, Ravenna 1980; A. Ascenzi, Tra educazione etico-civile e costruzione dell’identità nazionale. L’insegnamento della storia nelle scuole italiane dell’Ottocento, Vita e Pensiero, Milano 2004.
  • 3G. Bassi, in A. Omodeo, Momenti della vita di guerra, Laterza, 1935, p. 29.
  • 4G. Butticci, Dal Risorgimento al Partito d’Azione. Ricordi e cronache d’un quarantennio, Carabba, Lanciano 1896, p. 43.
  •  5G. Fabiani, Il 1848 narrato ai fanciulli, Vallardi, Milano 1898, p. 14.
  • 6G. Fabiani, op. cit., p. 34.
  • 7A. Dumas, I garibaldini: scene, impressioni e ricordi della spedizione dei Mille, Libreria Editrice Nazionale, Milano 1861; G. C. Abba, Noterelle di uno dei Mille, Zanichelli, Bologna 1880; G. Bandi, I Mille da Genova a Capua, Salani, Firenze 1903.
  • 8S. Zavatti in Emilio Salgari. Documenti e testimonianze, a cura di O. Salgari e L. De Nardis, Faro, Predappio 1939.
  • 9Ivi, pp. 54-58.
  • 10Per l’analogia tra Sandokan e Garibaldi cfr. O. Calabrese, Garibaldi tra Ivanhoe e Sandokan, Electa, Milano 1982, p. 80 e sgg.
  • 11P. Monelli, Le scarpe al sole, Edizioni libreria militare, Milano 2008, p. 9.
  • 12Ivi, p. 16.
  • 13E.J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, il Mulino, Bologna 1997 [ed. originale 1979], p. 88.
  • 14Amerigo Rotellini alla madre (24 agosto 1916), in In memoria di Amerigo Rotellini, San Paolo (Brasile), 2 maggio 1894 - Altipiano della Baisizza, 26 agosto 1917, Garroni, Roma, sd, p. 100.
  • 15Amerigo Rotellini cit. p. 100.
  • 16Lettera al padre (4 dicembre 1914), in Il diario di una valoroso: Antonio Del Franco, raccolto e ordinato dal padre Luigi, tip. Maggi, Avellino 1919, p. 85.
  • 17E. De Amicis, Cuore, Feltrinelli, Milano 2009 [ed. originale 1886], p. 76.
  • 18A. Panzini, Roberto Sarfatti, Piacenza 1924. La prima citazione è tratta da p. 27, la seconda dalle pp. 40-41.
  • 19A. Omodeo, Momenti della vita di guerra, Einaudi, Torino 1968 [ed. originale 1935].
  • 20E. Lussu, Un anno sull’altipiano, Einaudi, Torino 1964 [ed. originale Parigi 1938], pp. 136-137.

Elena Papadia

È ricercatrice di Storia contemporanea all’Università di Roma “La Sapienza”.
Ha pubblicato per il Mulino Di padre in figlio. La generazione del 1915 (2013).