L’Italia in guerra: dall’entusiasmo al crollo del consenso

Nel giugno del 1940 l’Italia dichiara guerra a Francia e Gran Bretagna ed entra nel secondo conflitto mondiale al fianco della Germania nazista. L’ingresso in guerra rappresenta il completamento del percorso della politica estera di aggressione voluto da Mussolini e dal fascismo e segna, dopo gli entusiasmi iniziali, il punto di frattura nel rapporto fra gli italiani e il regime.

«L’ora delle decisioni irrevocabili»1

Il 10 giugno 1940 Benito Mussolini annuncia a Roma a una piazza Venezia gremita di folla l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale al fianco della Germania nazista. Scarica la fonte allegata
La decisione è maturata in precedenza e può essere messa in relazione con la politica di potenza perseguita dal fascismo sin dalle origini e con più vigore dalla metà degli anni Trenta.
Fin dal periodo dell’ascesa al potere, infatti, l’ideologia fascista attribuisce importanza alla politica estera intesa in una chiava espansionistica e imperialistica perché l’Italia possa acquisire un ruolo internazionale di rilievo, possedimenti territoriali, ricchezza economica, ovvero il cosiddetto “posto al sole” che secondo i fascisti le spetta di diritto.
L’area del Mediterraneo deve divenire il grande spazio che gravita attorno all’Italia, potenza imperiale e civilizzatrice, in una gerarchia di nazioni che dia vita ad un nuovo ordine: il Nord-Africa, le isole Ionie, la Corsica, i Balcani, prima di tutto, ma il fascismo mira a estendere il proprio influsso anche sulla Francia, la Spagna, la Bulgaria, la Romania e sul Vicino oriente.
La via per raggiungere tale obiettivo è la guerra, un altro motivo ideologico su cui il fascismo insiste sin dalle origini, sia sul piano della continuità del nuovo movimento politico con l’esperienza dei combattenti della Prima guerra mondiale, sia su quello della retorica della “giovane nazione guerriera” e dell’“uomo nuovo” fascista forgiato nel combattimento, sia su quello di un atteggiamento nei confronti degli interlocutori internazionali che mette in conto la guerra come strumento di pressione e minaccia o come effettivo mezzo per la risoluzione delle controversie.

Gli anni Trenta: le premesse dell’entrata in guerra

Dopo la fase di consolidamento interno del regime, gli anni Trenta vedono l’Italia impegnata nella realizzazione dei piani fascisti sulla scena internazionale.
Nel 1927-28 il fascismo dà avvio alle operazioni di “riconquista” di territori in Somalia e in Libia e nell’ottobre 1935 inizia la sua maggiore impresa coloniale con grande dispiego di uomini e mezzi: la conquista dell’Etiopia, conclusasi formalmente nel maggio del 1936 con la proclamazione dell’impero, anche se nei territori etiopi la violenza continua fino agli anni Quaranta sotto forma di operazioni di polizia coloniale e repressione dell’opposizione interna. Il fascismo dispiega una notevole quantità di uomini e mezzi, facendo dell’attacco al paese africano la più grande impresa bellica di una potenza europea dalla conclusione della Prima guerra mondiale.
L’aggressione senza dichiarazione di guerra ad uno stato indipendente, membro della Società delle Nazioni – il consesso internazionale istituito dopo la fine del primo conflitto mondiale per il mantenimento della pace –, le violenze brutali contro la popolazione etiope, l’uso di armi chimiche vietate dai trattati internazionali attirano all’Italia le dure critiche degli altri paesi e inducono la Società delle nazioni a infliggere sanzioni economiche allo stato italiano che si trova così isolato sulla scena internazionale.
In questo frangente Mussolini si avvicina alla Germania nazista, che non solo è ideologicamente affine all’Italia fascista, ma è anche l’unico paese europeo che, in polemica con le potenze democratiche di Francia e Inghilterra e con l’assetto continentale, appoggia il fascismo nelle sue rivendicazioni. Il 24 ottobre 1936 Italia e Germania siglano un trattato di amicizia – l’Asse Roma-Berlino – e l’anno seguente l’Italia aderisce al Patto Anticomitern in funzione antisovietica con Germania e Giappone, cui seguirà il Patto Tripartito nel 1940. Sempre nel 1937 Mussolini porta l’Italia fuori dalla Società delle Nazioni, la avvicina sempre più alla Germania e nel corso del 1938 sostiene le rivendicazioni territoriali di Hitler che preludono allo scatenamento della guerra. Fra il 1936 e il 1939 l’Asse si consolida nell’impegno comune di italiani e tedeschi nella guerra civile spagnola a sostegno degli insorti filofascisti del generale Francisco Franco contro la Repubblica legittima.
Nell’aprile del 1939 l’Italia invade l’Albania trasformandola in un protettorato sotto la corona italiana e un mese dopo firma il Patto d’acciaio con la Germania: i due stati sono ora legati da un accordo di carattere politico, diplomatico e militare che prevede l’appoggio di ciascuna delle due potenze all’alleata anche in caso di guerra.
Con queste premesse, l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale al fianco di Hitler appare scontato.

Dalla “non belligeranza” all’intervento

Il 1° settembre 1939, dopo una lunga serie di atti che non lasciano dubbi sulle intenzioni di Hitler, la Germania nazista invade la Polonia dando inizio alla Seconda guerra mondiale in Europa. Il Patto d’acciaio vincola l’Italia a intervenire, ma la situazione induce Mussolini a dilazionare l’ingresso in guerra. Impegnato da anni nei conflitti in Africa, in Spagna e in Albania e tuttavia impreparato e arretrato sul piano militare, povero di materie prime e debole sotto il profilo dell’industria pesante, il paese non è pronto per affrontare una nuova guerra. Da parte del fascismo e del suo capo non si tratta di mettere in discussione l’alleanza con la Germania, né si intende rimandare all’infinito la partecipazione al conflitto che è un obiettivo del regime. Mussolini sceglie la formula della “non belligeranza” – e non quella della neutralità rispetto ai contendenti – per chiarire che l’ingresso in guerra dell’Italia è solo temporaneamente rinviato e che quando avverrà sarà al fianco dell’alleato nazista.
Sin dalla firma del Patto d’acciaio Mussolini ha cercato di convincere Hitler a non iniziare la guerra a breve e più volte ha sottolineato la volontà dell’Italia di marciare con la Germania, ma di avere bisogno di tempo per prepararsi al conflitto, almeno fino al 1942-43. La guerra scoppia dunque prima di quanto sperato dai vertici del fascismo, ma di fronte alla rapidità delle conquiste tedesche in Polonia, Scandinavia e sul fronte occidentale contro la Francia, Mussolini opta per l’intervento. È convinto che la guerra si concluderà rapidamente a vantaggio della Germania e che quindi l’impegno dell’Italia non sarà troppo gravoso, e sa che solo con una partecipazione diretta al conflitto potrà rivendicare un ruolo da vincitore e portare avanti i suoi piani per una guerra parallela a quella nazista che conduca l’Italia al controllo nei Balcani e nel Mediterraneo. Né i gerarchi, né i vertici militari, né il re intervengono per scongiurare l’ingresso nel conflitto, certi anche loro che dalla partecipazione italiana possano derivare dei vantaggi.
Il 10 giugno 1940, dunque, come «fase dello sviluppo logico della [...] rivoluzione» fascista2, come afferma lo stesso Mussolini, l’Italia dichiara guerra alla Francia e alla Gran Bretagna e attacca le truppe francesi sulle Alpi, quando le sorti dello scontro tra Germania e Francia sono praticamente già decise: quattro giorni dopo i nazisti entrano a Parigi.

Gli italiani e la guerra: contrarietà, entusiasmo, disillusione

È comune l’opinione secondo la quale gli italiani alla vigilia del secondo conflitto mondiale sono contrari alla guerra e all’intervento dell’Italia. Eppure nell’estate del 1940 l’entusiasmo per l’impresa bellica si diffonde nel paese. I resoconti degli informatori di polizia, le relazioni dei questori e dei prefetti registrano gli umori degli italiani nei mesi dallo scoppio della guerra all’intervento e da diverse parti d’Italia segnalano un cambiamento nell’atteggiamento verso la partecipazione al conflitto; un mutamento prima più lento e poi repentino, nella primavera del 1940, quando le vittorie tedesche che si susseguono una dietro l’altra fanno pensare che la “guerra lampo” scatenata dai nazisti si concluderà in breve tempo con la vittoria della Germania.
Tale pensiero, sostenuto dalla campagna propagandistica degli organi di stampa del regime, porta gli italiani ad accettare il discorso del duce del 10 giugno 1940 e l’entrata in guerra. Certo tra la popolazione non mancano le preoccupazioni, ma le ovazioni e gli applausi che interrompono il discorso di Mussolini a piazza Venezia e l’attenzione con cui è seguito attraverso la radio in altre piazze d’Italia attestano l’atmosfera con cui gli italiani entrano nel conflitto.
L’entusiasmo cresce nei mesi estivi, specialmente dopo la vittoria in agosto contro gli inglesi in Somalia, e accompagna la partecipazione italiana alla guerra fino all’autunno, quando Mussolini ordina l’attacco alla Grecia il 28 ottobre 1940. Questo momento segna un nuovo cambiamento, un’incrinatura nelle illusioni degli italiani sul conflitto: la campagna di Grecia è disastrosa e scemano le speranze in una guerra breve che possa portare conquiste all’Italia.

La quotidianità della guerra e il crollo dei consensi

A far calare il consenso verso la guerra e lo stesso regime fascista, più dell’andamento militare delle operazioni, che comunque influisce, è il cambiamento determinato dal conflitto nella vita quotidiana degli italiani, un impatto che con il passare del tempo diviene sempre più radicale e sconvolgente.
Con la guerra è introdotto il razionamento di alimenti (pane, pasta, riso, farina, carne, zucchero, grassi, patate, legumi, uova, latte...) e altri generi, quali ad esempio i combustibili per il riscaldamento, il tabacco o il sapone, che diventano acquistabili attraverso la tessera annonaria e solo in quantità stabilite per ogni persona. La riduzione dei beni e degli alimenti che si possono vendere e comprare provoca un generale aumento dei prezzi, che in alcuni casi è vertiginoso, e il fiorire del mercato nero, al quale gli italiani si rivolgono per acquistare generi introvabili e quantitativi maggiori di merce.
A causa dei bombardamenti il governo impone l’oscuramento delle città di notte per evitare che siano facili bersagli per gli aerei nemici: l’illuminazione pubblica è ridotta, i fanali delle auto e delle biciclette devono essere coperti e anche nelle abitazioni la luce va spenta o si devono oscurare le finestre in modo che la luce non trapeli all’esterno. Inoltre le persone non possono uscire e circolare liberamente durante il coprifuoco nelle ore serali e notturne. Si allestiscono anche rifugi antiaerei che però non risultano realmente efficaci per proteggere la popolazione, tanto che molti preferiscono allontanarsi dalle città e sfollare in campagna per sfuggire alle bombe. Nel dicembre 1942 è lo stesso Mussolini a ordinare lo sfollamento dei centri urbani maggiori e delle città industriali.
Questi provvedimenti modificano le abitudini, creano disagi, generano paure, rendono precaria l’esistenza. A ciò si aggiungono le preoccupazioni per i propri cari lontani – in patria, al fronte, in prigionia – e i lutti che, tra militari e civili, colpiscono numerose famiglie.
Nonostante i tentativi del regime di coprire la realtà dei fatti attraverso la propaganda, con il protrarsi della guerra il solco creatosi tra gli italiani e il fascismo si approfondisce e l’inverno 1942-43, in concomitanza con l’acutizzarsi dei bombardamenti e l’aggravarsi della situazione militare, segna il crollo del consenso. Già nel corso del 1941 e poi del 1942 si sono registrate manifestazioni di protesta, soprattutto di donne, contro la guerra e il carovita; sul finire del 1942, persa ogni speranza nella vittoria, cresce l’insoddisfazione e aumentano le critiche dei civili e dei militari verso il regime e anche verso Mussolini, finché nel marzo e nell’aprile 1943 si verifica in Italia una serie di scioperi operai importanti, come ad esempio quelli di Torino e Milano.
Non si tratta ancora di manifestazioni di opposizione politica, ma la grande maggioranza degli italiani desidera la pace e si distacca nettamente dal fascismo e dal suo duce che hanno voluto la guerra, tanto da vedere nel 25 luglio 1943 e nella destituzione di Mussolini la fine del conflitto da accogliere con sollievo e euforia. Come nel giugno del 1940, anche il quel caso però l’Italia è di fronte a una illusione.

Note

  • 1Mussolini definisce così nel suo discorso agli italiani il momento che segna l’entrata in guerra dell’Italia: «Popolo italiano! Corri alle armi…», in B. Mussolini, Opera omnia, a cura di Edoardo e Duilio Susmel, vol. 29, Firenze, La Fenice, 1959, pp. 403-405.
  • 2Ivi, p. 404.

Bibliografia

  • Pietro Cavallo, Italiani in guerra. Immagini, Bologna, il Mulino, 1997.
  • Simona Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime 1929-1943, Roma-Bari, Laterza, 1991.
  • Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939, con la collaborazione di Nicola Labanca e Teodoro Sala, Firenze, La Nuova Italia, 2000.
  • MacGregor Knox, La guerra di Mussolini 1939-1941, Roma, Editori Riuniti, 1984.
  • Miriam Mafai, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1987.
  • Bruna Micheletti e Pier Paolo Poggio (a cura di), L’Italia in guerra 1940-43, Annali della Fondazione Luigi Micheletti, n. 5, 1990-1991.
  • Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino, Bollati Boringhieri, 2003.

Referenze iconografiche: Hi-Story/Alamy Stock Photo 

Roberta Mira

Dottore di ricerca in Studi storici per l’età moderna e contemporanea, è docente a contratto di Storia dei conflitti all’Università di Modena e Reggio Emilia. Collabora come ricercatrice con la Fondazione Fossoli, l’Istituto nazionale Ferruccio Parri, la rete degli Istituti storici dell’Emilia-Romagna. Si occupa di fascismo, nazismo, Resistenza, deportazione, violenze di guerra, memoria, temi su cui ha pubblicato monografie e saggi.