La questione dell’integrazione degli immigrati

Il percorso affronta un tema di grande attualità da una particolare prospettiva, concettuale e terminologica, che consente di mettere a fuoco, in modo chiaro e rigoroso, i caratteri propri dell’integrazione degli stranieri nella nostra società.

In epoca moderna l'immigrazione è stata definita e regolata in rapporto all’istituzione degli stati nazionali. La costruzione delle identità nazionali si è basata sull’idea di comunità omogenee e racchiuse entro confini ben definiti. Gli immigrati internazionali hanno sempre rappresentato un “inciampo” rispetto a questo disegno di formazione di società coese sotto l’insegna della bandiera nazionale: sono stranieri, portatori di lingue e abitudini diverse da quelle localmente prevalenti, che vengono a insediarsi sul territorio della nazione. Da qui nasce il problema dell’integrazione degli immigrati. Riguarda l’incorporazione di stranieri nel tessuto sociale e, nello stesso tempo, l’integrazione della società in presenza di immigrati.

L’integrazione: processo sociale e politiche

Un chiarimento è tuttavia opportuno. Il termine “integrazione”, riferito all’inserimento degli immigrati nelle società riceventi, dà infatti luogo a molte discussioni e a non poche confusioni. Occorre dunque distinguere, in primo luogo, tra la dimensione dell’integrazione come processo sociale, che avviene per così dire “dal basso”, e quella dell’integrazione degli immigrati come obiettivo consapevole di un insieme di politiche, perseguito quindi “dall’alto”: ossia, in sintesi, delle politiche d’integrazione come strategia pubblica, esplicita, di governo del fenomeno. Le politiche evidentemente incidono sui processi d’integrazione, ma questi sono influenzati da svariati fattori, che vanno oltre le politiche esplicite in materia: vi contribuiscono anzitutto il mercato del lavoro, che può offrire o meno opportunità di occupazione, di crescita professionale, di sviluppo di attività indipendenti; le politiche di welfare, con la loro capacità di offrire protezione sociale e di attutire le disuguaglianze di partenza; i sistemi educativi, come ascensore sociale per le seconde generazioni; le società civili con le loro organizzazioni pro-sociali e l’impegno a contrastare razzismi e discriminazioni. Per esempio, negli Stati Uniti diverse ondate di immigrati europei si sono integrati nella maggior parte dei casi in modo soddisfacente non per effetto di politiche d’integrazione particolarmente generose, ma grazie alle opportunità offerte da un mercato per decenni straordinariamente dinamico; in Germania, il robusto e universalistico sistema di welfare ha prodotto nei fatti molta più integrazione degli immigrati delle politiche di altri paesi, apparentemente più liberali, ma non sostenute da una dotazione altrettanto consistente di misure di politica sociale.
Discuterò prima dell’integrazione come processo per poi affrontare la dimensione delle politiche.

Che cosa significa “integrazione”? Un chiarimento terminologico

In premessa occorre però affrontare un’obiezione. A qualcuno il termine “integrazione” appare troppo obbligante nei confronti della libertà di scelta e delle identità culturali dei migranti: viene confuso con l’assimilazione vecchia maniera, ossia con l’obbligo di conformarsi alle pratiche sociali, culturali e linguistiche della popolazione maggioritaria (Ambrosini, 2007). Sono stati così proposti altri termini, come “inclusione”, “incorporazione” o, come si ama dire in Italia, “interazione”, ognuno rivela pregi e limiti. Chiarisco che il termine “integrazione” va interpretato distinguendolo dal vecchio assimilazionismo: intendo infatti per “integrazione” un’interazione positiva (Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, 2000) basata sulla parità di trattamento e sull’apertura reciproca tra società ricevente e cittadini immigrati. Ancora più semplicemente, l’integrazione può essere definita come il processo del divenire una parte accettata della società (Penninx e Martiniello, 2007): una definizione che sottolinea il carattere processuale dell’integrazione, non specifica i requisiti richiesti, lascia spazio a diversi possibili risultati intermedi e finali e, soprattutto, chiama in causa la società ricevente, con la sua disponibilità ad accettare o meno i nuovi residenti, e in quali termini.
D’altronde, tra i termini alternativi a quello di integrazione, “incorporazione” rivela un’inquietante radice antropofagica: incorporare significa dopo tutto immettere nel proprio corpo, è in realtà molto prossimo ad “assimilazione”. “Inclusione”, ha un retroterra simile e presuppone in ogni caso un processo a senso unico, in cui solo la società ricevente sembra svolgere un ruolo attivo. Questi termini insistono dunque sulla responsabilità delle società ospitanti e delle loro istituzioni. Nel dibattito americano è poi riemerso il concetto di “assimilazione”, reinterpretato in modo politically correct nel senso di «trattare come simili» (Brubaker, 2001).
Il termine “interazione” intende invece porre maggiormente l’accento sulla pari dignità delle culture, sulla critica alla pretesa superiorità occidentale, sullo scambio e la comunicazione paritaria. Il punto è rilevante, giacché l’accettazione reciproca, lo scambio paritario e la comunicazione aperta sono aspetti decisivi dell’inclusione di persone e gruppi di origine diversa. Non mancano però anche in questo caso gli elementi di debolezza. Il concetto di interazione di per sé può anche evocare relazioni asimmetriche (di dominazione, discriminazione, ecc.) o conflittuali (di scontro, contrapposizione, ecc.), e va dunque qualificato per assumere significati positivi. L’interazione “buona” presuppone comunque un minimo di integrazione per poter cominciare, a partire dal possesso di codici linguistici comuni che consentano di comunicare. Per di più, prolungandosi e rafforzandosi nel tempo, l’interazione produce conoscenza, frequentazione, amicizia, ossia integrazione sociale.
Da ultimo, va rilevato che il concetto di integrazione tiene conto della dimensione strutturale, ossia del benessere e dell’integrità delle persone e delle comunità immigrate, per riprendere i termini di Zincone (2009), nonché del trattamento egualitario e delle opportunità di accesso a servizi, istituzioni, posizioni lavorative non solo marginali. Se si parla di interazione, si insiste invece sulla dimensione comunicativa e culturale, trascurando gli aspetti strutturali. L’interazione rientra dunque nel concetto di integrazione come processo, certamente lo arricchisce, ma non lo sostituisce né tanto meno vi si contrappone.

I caratteri dell’integrazione

Si possono a questo punto sviluppare alcune specificazioni del concetto d’integrazione, come sopra definito.

  1. L’integrazione va concepita anzitutto come un processo, che si distende nel tempo, dipende da una pluralità di fattori (il mercato del lavoro, l’accettazione degli immigrati, il sistema complessivo di welfare), non discende meccanicamente dalle politiche di integrazione, anche se evidentemente è favorito da politiche più aperte nei confronti dell’inclusione paritaria degli immigrati nelle società riceventi.
  2. L’integrazione è inoltre un percorso sfaccettato e multidimensionale, che può essere più avanzato in alcuni ambiti e meno in altri; essa può essere maggiormente richiesta e promossa in alcune aree, soprattutto quelle di rilevanza pubblica (per esempio, la conoscenza della lingua della società ricevente), e lasciata invece alla libera determinazione dei soggetti in altre, attinenti alla sfera privata. L’aspetto più rilevante in proposito è la libertà religiosa.
  3. Non comporta una progressione lineare di stampo evoluzionistico, da stili di vita “tradizionali” e determinati dall’appartenenza etnica a stili di vita “moderni”, individualistici, secolarizzati, conformi alle pratiche sociali prevalenti nella società ricevente.
  4. Può prevedere diverse articolazioni tra la dimensione individuale e quella collettiva, tra identificazioni che rimandano a legami etnici o religiosi e comportamenti orientati alla fruizione delle opportunità offerte dalla società ricevente. Non contrappone il riferimento a elementi culturali ascrittivi all’acquisizione di competenze e abilità funzionali all’inserimento sociale.
  5. Riveste un carattere locale e contestuale: l’integrazione avviene in luoghi specifici, in sistemi di relazioni situati nel tempo e nello spazio, non in un’astratta “società italiana”. Ci si integra in una società locale, dove si riescono a trovare lavoro, casa, amicizie, riconoscimento, possibilità di partecipazione sociale e politica. L’integrazione dunque privilegia di fatto la dimensione “micro” (i rapporti interpersonali) o “meso” (le attività associative o di gruppo), in cui si sperimentano occasioni di socialità e forme di apprendimento. Nello stesso tempo, comporta la consapevolezza che non tutte le frequentazioni e le pratiche apprese nella società ospitante sono vantaggiose ai fini dell’accettazione, dell’inserimento, della mobilità sociale.
  6. L’integrazione degli immigrati, infine, chiama in causa in vario modo la società ricevente e le sue istituzioni: nelle normative sulla cittadinanza, nel discorso pubblico sugli immigrati, nel clima di accettazione, pregiudizio o rifiuto di determinate categorie di residenti stranieri, nell’impostazione e attuazione di politiche educative e sociali che influenzano le condizioni di vita dei migranti e dei loro figli (le seconde generazioni) e nelle risorse investite in esse, nelle possibilità concrete di incontro nella vita quotidiana. In altri termini, l’integrazione richiede apertura e inclusione da parte della società ospitante. La politica non produce automaticamente l’integrazione, altri fattori concorrono (in primo luogo il sistema economico), ma di certo ha grandi responsabilità nel favorirla o viceversa nel comprometterla.

Sul sito StoriaLive vedi anche Immigrazione, asilo, solidarietà: realtà e rappresentazione del fenomeno migratorio.

Bibliografia

  • Ambrosini, M. (2017), Migrazioni, Milano, Egea.
    - (2014), Non passa lo straniero? Le politiche migratorie tra sovranità nazionale e diritti umani, Assisi,  Cittadella.
    - (2012) (a cura di), Governare città plurali. Politiche locali per la cittadinanza e l’integrazione degli immigrati in Europa, Milano, FrancoAngeli.
    - (2007), Integrazione e multiculturalismo: una falsa alternativa, in “Mondi Migranti”, 1, pp. 213-237.
  • Brubaker, R. (2001), The return of assimilation? Changing perspectives on immigration and its sequels in France, Germany and the United States, in «Ethnic and Racial Studies», 24 (4), pp. 531-548.
  • Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati (2000), Primo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, a cura di G. Zincone, Bologna, Il Mulino.
  • Penninx, R. e Martiniello, M. (2007), Processi di integrazione e politiche (locali): stato dell’arte e lezioni di policy, in “Mondi migranti”, 1 (3), pp. 31-59.
  • Zincone G. (a cura di) (2009), Immigrazione: segnali di integrazione. Sanità, scuola e casa, Bologna, Il Mulino.

Referenze iconografiche: Dino Fracchia / Alamy Stock Photo

Maurizio Ambrosini

È docente di Sociologia delle migrazioni all’Università degli Studi di Milano. Insegna inoltre da diversi anni all’Università di Nizza. È responsabile scientifico del Centro studi Medì di Genova, dove dirige la rivista “Mondi migranti” e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni, che giunge nel 2018 alla 14a edizione. È consulente dell’ISPI e collabora con “lavoce.info”. Dal luglio 2017 è stato chiamato a far parte del CNEL in qualità di esperto. È autore, fra vari altri testi, di Sociologia delle migrazioni, manuale adottato in parecchie università italiane. Suoi articoli e saggi sono usciti in riviste e volumi in inglese, spagnolo, francese, tedesco, portoghese e cinese. Ha pubblicato ultimamente Irregular immigration in Southern Europe (Palgrave, 2018); Migrazioni (EGEA, 2017); Non passa lo straniero? Le politiche migratorie tra sovranità nazionale e diritti umani (Cittadella, 2014); Migrazioni irregolari e welfare invisibile. Il lavoro di cura attraverso le frontiere (Il Mulino, 2013).