Letteratura contro gli orrori della guerra

Scorciatoia: dalla tradizione epica al Novecento

Fino a pochi anni fa nessuno si sarebbe aspettato di dover precipitare nuovamente nell’incubo della guerra. La realtà odierna ci ha purtroppo smentiti. Vogliamo quindi dedicare un “caffè letterario” alla rappresentazione della guerra in alcune opere del Novecento, anche per porre i nostri ragazzi di fronte a una realtà molto diversa da quella raccontata, magari, da certi film o addirittura epicizzata, con seducente leggerezza, da alcuni videogiochi.

Premessa

Fino a pochi anni fa nessuno di noi si sarebbe aspettato di dover precipitare nuovamente nell’incubo della guerra. I fatti ci hanno smentito: alle porte orientali d’Europa sono scoppiate guerre di cui non si riesce a vedere la fine, ci sono decine di conflitti regionali in corso sparsi in altri tre continenti e alcune aree del globo (si pensi a Taiwan) appaiono ad altissima tensione. 

In questo quadro non credo sia ozioso dedicare un “caffè letterario” (i lettori delle precedenti “Scorciatoie” sanno bene di cosa sto parlando) alla rappresentazione della guerra in alcune opere del Novecento, anche per porre i nostri ragazzi di fronte a una realtà molto diversa da quella raccontata, magari, da certi film o addirittura epicizzata, con seducente leggerezza, da taluni videogiochi.

Spunti cinquecenteschi

Un ottimo punto di innesto, didatticamente assai produttivo, potrebbe essere fornito da uno dei grandi autori del Cinquecento che di solito si affrontano a scuola, come Machiavelli, Castiglione, Ariosto o Tasso, istitutori di principi e cortigiani i primi due, maestri insuperati, gli altri, del poema cavalleresco o eroico. Aprire una finestra sulla letteratura novecentesca di guerra mentre si sta trattando uno di questi autori consentirà di riflettere con più consapevolezza sul tema, attraverso la messa a confronto di due visioni talmente diverse da generare un cortocircuito immediato.

Gli eserciti nel Principe di Niccolò Machiavelli

Machiavelli, per cominciare, nei capp. XII-XIV del Principe guarda alla guerra unicamente dal punto di vista politico-militare, preoccupandosi di raccomandare al sovrano di non affidarsi, per difendere il suo principato o per sostenere le sue mire espansionistiche, né alle truppe mercenarie né alle milizie ausiliarie, ma di dotarsi di un proprio esercito, sotto il suo diretto controllo. In questa prospettiva, le armi, insieme alle leggi, sono solo uno strumento al servizio del potere, i costi umani di una guerra non vengono presi minimamente in considerazione.

Utile elemento di confronto può essere, inoltre, quel che scrive Machiavelli, in chiusura, nella Exhortatio ad capessendam Italiam, avanzando il disegno, per quei tempi visionario, di liberare la penisola dal “barbaro dominio”. Il vagheggiamento di un’Italia unita e indipendente farà del Segretario fiorentino, dal Foscolo dei Sepolcri in avanti, un profeta del Risorgimento, cui guarderà con profitto, ad esempio, lo stesso Manzoni delle due tragedie storiche; ma le motivazioni patriottiche hanno scarsissima incidenza sulle narrazioni novecentesche della guerra, compresa quella del ’15-’18. Facendo interagire le pagine conclusive del Principe con qualcuno dei testi novecenteschi di cui diremo, si può ripetere, allora, l’esercizio sempre istruttivo di confrontare le cause effettive e i fini per cui si combattono le guerre con le ragioni, i diritti e i pretesti che si accampano per dichiararle.

Armi e giostre nel Libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione

Ancora più tangenziale è l’approccio di Baldassar Castiglione al tema della guerra. Nel Libro del Cortegiano (I, xvii) egli afferma che «la principale e vera profession del cortegiano debba esser quella dell’arme», ma si limita a ritrarre le qualità fisiche e morali dell’uomo di corte (prestanza atletica, dimestichezza con tutte le armi, fedeltà al suo signore, animo fiero e invitto di fronte al nemico, totale assenza di vanagloria) e ha cura di non dipingerlo nel furore della battaglia, ma nelle pratiche di addestramento e di esibizione tipiche di quella civiltà, ovvero la caccia, l’equitazione, i giochi, le giostre e i tornei (I, xx-xxii). Non c’è nulla, nella sua illustrazione, che richiami la brutalità della guerra. Del maneggio delle armi Castiglione ci dà una visione leggiadra, sportiva e mondana, quasi fosse soltanto una prova di virilità e di destrezza per farsi onore tra i gentiluomini e le nobildonne di una corte principesca.

I duelli della tradizione epica

Del resto, il quadro non cambia nemmeno se spostiamo l’attenzione sui grandi poemi del Cinquecento: e dire che la guerra (e per giunta una guerra di religione e di civiltà) fa da sfondo, da innesco e da basso continuo, alle vicende cantate tanto nell’Orlando Furioso quanto nella Gerusalemme Liberata; tuttavia, l’incremento conoscitivo che possiamo ricavare dagli episodi bellici descritti nell’uno come nell’altro è davvero esiguo, anche per effetto dei vincoli posti dalla tradizione epica. Sebbene non manchino, infatti, né nell’Iliade né nell’Eneide manovre di truppe e battaglie campali, nel genere epico la cifra più autentica e caratteristica della guerra resta il duello, destinato a esaltare le virtù eroiche dei singoli contendenti, ciascuno con le sue armi e la sua corazza. Non per nulla, in ossequio al modello omerico e virgiliano, anche Ariosto e Tasso pongono fine alle ostilità con dei memorabili duelli tra i capi o i campioni dei due opposti schieramenti. Nel penultimo canto della Liberata, anzi, Tancredi allontana i compagni dal saraceno Argante, che continua a far strage di crociati, perché vuole essere lui a vincerlo in singolar tenzone, riprendendo il duello interrotto nel canto VI per il sopraggiungere della notte. 

Fra l’altro, questa modalità guerresca resterà in auge ancora fin dentro la letteratura risorgimentale, che farà leva sull’esemplarità degli eroi per infiammare i cuori dei giovani italiani e chiamarli all’azione: si pensi soltanto all’Ettore Fieramosca di Massimo d’Azeglio e alla celebre disfida di Barletta tra tredici cavalieri italiani e tredici francesi.

La realtà della guerra in Manzoni e in Tarchetti

La musica cambia, e radicalmente, con Manzoni, che nel cap. XXVIII dei Promessi sposi ci offre, finalmente, un’immagine non edulcorata della guerra, indugiando sui saccheggi, sugli stupri, sulle violenze, sugli incendi, sulle devastazioni, che accompagnavano di norma il passaggio dei soldati di ventura in un determinato territorio. Su questa scia, lo scrittore scapigliato Igino Ugo Tarchetti, irriducibilmente antimilitarista, darà in Una nobile follia una rappresentazione addirittura raccapricciante della guerra di Crimea che aveva visto impegnato anche un contingente di bersaglieri piemontesi: basti ricordare l’orribile comando dato loro durante la battaglia della Cernaia, di innalzare una muraglia di carne coi corpi dei soldati italiani e russi e dei cavalli uccisi negli scontri precedenti o ancora agonizzanti, per arginare l’ennesimo assalto nemico.

Clemente Rebora “tra melma e sangue”

Lo stesso orrore tracima dalle poesie e dalle prose liriche di guerra composte da Clemente Rebora (1885-1957) soprattutto tra il 1916 e il 1917, attorno a cui varrebbe sicuramente la pena di imbastire un “caffè letterario”. Questi testi si collocano tra la stagione vociana dei Frammenti lirici (1913) e quella postbellica dei Canti anonimi (1922). Si tratta di un Rebora immeritatamente poco noto, rimasto in ombra solo perché l’iniziale progetto di radunare in un libro queste dolorose testimonianze fu poi abbandonato. Usciti, in ordine sparso, sulle principali riviste di quegli anni, dalla «Riviera Ligure» alla «Brigata», dalla «Diana» alla «Raccolta», quei componimenti furono inseriti da Gianni Mussini e Vanni Scheiwiller nell’edizione Garzanti delle Poesie (1913-1957) di Rebora e, più di recente, riproposti in volume autonomo, intitolato Tra melma e sangue, da Valerio Rossi, con corredo di note e ricco commento, insieme a un’ampia scelta di lettere del tempo di guerra.

Mandato in prima linea, sul finire del 1915, il sottotenente Rebora visse un’esperienza spaventosa e traumatica, dalla quale uscì prostrato fisicamente e terribilmente scosso nello spirito, costretto a combattere, da un ospedale psichiatrico all’altro, una guerra parallela contro gli incubi provocati da quell’immensa carneficina, che egli paragona, in una lettera, alla «stanza dell’ammazzatoio di Barbableu». Quella di Rebora è una rivolta che sale dalle viscere, è la spontanea resistenza allo scempio dei tanti uomini spediti al fronte a uccidere e a morire. In Arche di Noè sul sangue l’autore è sconvolto dalla visione di un nuovo diluvio, non d’acqua, stavolta, ma del sangue sparso a fiotti da milioni di caduti, tanto copioso da coprire, come allora, la Terra. L’angoscia e il ribrezzo di fronte alla morte sprigionano un linguaggio violentemente espressionistico: «C’è un corpo in poltiglia / con crespe di faccia, affiorante / sul lezzo dell’aria sbranata» (Voce di vedetta morta); «Fungaia d’un morto saponava la terra, a divano» (Perdóno?). E si leggano anche Coro a bocca chiusa, Calendario, Stralcio, o l’atroce Viatico, col ferito ridotto a un «tronco senza gambe», «tra melma e sangue». Dall’ossessione di Rebora escono poesie agghiaccianti e prose amarissime, allucinate, intrise di umori polemici, nella consapevolezza, come si legge in Senza fanfara, di essere unicamente carne da cannone.

Due rappresentazioni radicalmente opposte della guerra: narrazione epica e Rebora

L’orrore che prova e trasmette Rebora davanti alla vista rivoltante della morte è il miglior antidoto contro ogni esaltazione, antica o moderna, della guerra, compresa quella che, con spavalderia guascona e invasata aggressività, Marinetti aveva fatto prima nel manifesto di fondazione del Futurismo e poi in piena campagna interventista, salutandola come «sola igiene del mondo». Leggere i testi reboriani in contrappunto alle ottave dell’Orlando Furioso o della Gerusalemme Liberata che inscenano qualche duello mortale dovrebbe essere, in tal senso, operazione per più versi fruttuosa, perché rovescia completamente lo sguardo sulla guerra, facendo emergere i risvolti artificiosi e stilizzati del racconto epico, in quanto idealizzazione del mondo cortese. Farei notare, in sede di confronto, almeno queste differenze.

  1. Il focus della narrazione epica è portato sui singoli combattenti, mentre in Rebora prevale un “noi” che abbraccia tutta la massa dei soldati, accomunati da un destino di morte.
  2. Coerentemente, gli eroi della tradizione hanno un nome e un’identità precisi e anche quando si affrontano in duello sono sempre riconoscibili, perché ciascuno possiede le sue armi e la sua corazza. I qui pro quo si verificano, semmai, quando un guerriero non indossa la sua solita armatura, come accade, nella Gerusalemme Liberata, a Clorinda, uccisa dall’ignaro Tancredi nell’episodio più patetico del poema tassiano (canto XII). Invece, nei versi e nelle prose di Rebora i soldati restano anonimi, come tanti “militi ignoti”, senza volto perché sono solo carne da macello, membri di un’entità collettiva votata a un inutile martirio.
  3. Nei poemi epici i guerrieri e le eroine che soccombono nei duelli mortali, da Ettore a Turno, da Camilla a Clorinda, da Rodomonte ad Argante, vanno incontro alla bella morte, per aver combattuto strenuamente, con vigore e a viso aperto, meritandosi l’ammirazione, il pianto e gli onori dei loro amici e perfino dei loro avversari. Viceversa, nei testi di Rebora la morte, priva di qualsiasi alonatura eroica, è brutta e repellente, giunge improvvisa e a tradimento, con una pallottola o un proietto, senza che i soldati possano difendersi, e ha le proporzioni immani di una strage, di un massacro.
  4. La rappresentazione della morte nei componimenti di Tra melma e sangue non è più in chiave epica, per glorificare l’eroe, ma tragica, per denunciare l’assurdità della guerra, del sacrificio di tante vite brutalmente interrotte e spezzate. I sentimenti che suscita nel lettore la realtà rappresentata da Rebora sono quelli tipici della tragedia, ovvero la pietà e l’orrore.
  5. Mentre l’epica enfatizza il duello, Rebora enfatizza la morte.
  6. Quel tanto di iperbolico, di fumettistico e granghignolesco, che condisce i duelli della tradizione epica è straniante, produce un effetto di irrealtà, come se assistessimo a un teatro dei pupi; il sovraccarico, livido e angosciato, linguaggio espressionistico di Rebora è invece straziante, produce un effetto di iperrealtà.

Eugenio Corti e il museo degli orrori

Sulla linea che sono venuto tracciando, da Manzoni a Tarchetti a Rebora, un “caffè letterario” meriterebbe anche Il cavallo rosso (1983) di Eugenio Corti (1921-2014), che ci guida nei diversi teatri della Seconda guerra mondiale dando all’immaginario dell’orrore materia se possibile ancora più vasta e raccapricciante. Qui molti degli uomini in divisa, e anche delle popolazioni inermi a vario titolo coinvolte nelle azioni belliche, tornano ad avere un nome e una storia, retaggio della visione cristiana dell’autore, che guarda ciascuno, nel bene e nel male, come persona. Ma lo spettacolo delle atrocità che Corti documenta in questo romanzo storico, parte per averle vissute sulla propria pelle, parte avvalendosi di testimonianze orali e di ricostruzioni specialistiche, non ha forse l’eguale in tutta la letteratura di guerra. Sull’uno come sull’altro fronte sembra che lo stato di belligeranza autorizzi le nefandezze più abominevoli, sospesa ogni legge morale e ogni pietà umana: in Russia, in Ucraina, in Polonia, in Germania, è un susseguirsi di eccidi, di massacri di civili, di fucilazioni in massa di partigiani ma anche di orfani, di malati, di prigionieri. I cadaveri insepolti vengono accatastati a decine e centinaia dove capita, o gettati in fosse comuni, o lasciati stecchire sulla neve lungo le piste del Don. Ma c’è di peggio: nella Prussia Orientale, durante la loro avanzata, nell’autunno del 1944, i russi si macchiano di crimini mostruosi: «persone bruciate dentro le case, vecchi con evidenza torturati», le donne «violentate un’infinità di volte, qualcuna anche da decine e decine di soldati di seguito», o «inchiodate vive alle porte dei cascinali», «perché si opponevano». Per non parlare dei prigionieri deportati nel lager di Crinovaia, costretti a cibarsi della carne dei loro stessi commilitoni defunti, proprio come il conte Ugolino, per non morire a loro volta di fame.

Questi e simili episodi di violenza inaudita e di degradante abbrutimento ci restituiscono della guerra l’immagine insalvabile del male assoluto che si scatena. A buon diritto, perciò, Corti può affermare che «nel tempo moderno» la guerra è «la più terribile delle calamità collettive» e che insieme al «razzismo», violando il comandamento divino dell’amore fraterno, dà origine agli «inferni di questa terra».

Mario Rigoni Stern scrittore di pace

Nuto Revelli (1919-2004) in Mai tardi. Diario di un alpino in Russia (1946) ricorda che durante la tragica ritirata dal fronte del Don, nel gelido inverno del 1943, a un certo punto i comandi militari diedero l’ordine, con priorità assoluta, di «salvare l’uomo», disfacendosi, per alleggerire il carico, di tutto il resto. Era l’ammissione, implicita, che la vita umana conta infinitamente più di ogni guerra e di ogni bandiera. Ma questo, appunto, è ciò che hanno fatto i nostri autori svelando gli orrori della guerra. E allora mi piace chiudere con un’ultima proposta di lettura, quella del Sergente nella neve (1953) di Mario Rigoni Stern (1921-2008), “scrittore di pace”, che rievoca proprio quelle terribili giornate. Ne parlo nel video seguente; buona visione!

Bibliografia essenziale
  • Clemente Rebora, Tra melma e sangue. Lettere e poesie di guerra, a cura di Valerio Rossi, Interlinea, Novara 2008.
  • Eugenio Corti, Il cavallo rosso, Ares, Milano 1983 (202336).
  • Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia - Ritorno sul Don, Einaudi, Torino 1990.
  • Mario Isnenghi, Il mito della grande guerra, Il Mulino, Bologna 1970.
  • Mario Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi (1848-1945), Mondadori, Milano 1989.
  • Jay Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, Il Mulino. Bologna 1998.
  • Mariacristina Ardizzone (a cura di), Scrittori in divisa. Memoria epica e valori umani, Grafo, Brescia 2000.
  • Simone Magherini (a cura di), In trincea. Gli scrittori alla Grande Guerra, Atti del convegno internazionale di studi (Firenze, 22-24 ottobre 2015), Società Editrice Fiorentina, Firenze 2017.
  • Elena Landoni (a cura di), Al cuore della realtà. Eugenio Corti scultore di parole, Interlinea, Novara 2017.
  • Franco Baldasso, Curzio Malaparte, la letteratura crudele: “Kaputt”, “La pelle” e la caduta della civiltà europea, Carocci, Roma 2019.

Referenze iconografiche: The Stapleton Collection/Bridgeman Images

Guarda la videolezione di Giuseppe Langella

Giuseppe Langella racconta Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern.

Giuseppe Langella

Già professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e direttore del Centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita”, è presidente della “Società italiana per lo studio della modernità letteraria” (Mod). Da sempre attivo nel campo dell'aggiornamento scolastico, promotore di corsi e pubblicazioni di didattica della letteratura, è coautore per Sanoma, insieme a Pierantonio Frare, Paolo Gresti e Uberto Motta, della Letteratura italiana Amor mi mosse (2019).