La scuola storicamente non fonda la propria legittimità sulle emozioni, ma sulla ragione. Vuole insegnare ai bambini a non credere alle apparenze e a esaminare i fatti, a distinguere tra opinioni e conoscenze, a formare uomini di ragione, e lo fa attraverso procedure costruite, a loro volta, in maniera rigorosamente razionale.
Questo - ancora oggi - ci porta spesso a relegare emozioni, particolarismi e soggettività lontano dal nostro insegnamento. Quando invitiamo un bambino a esprimere un giudizio, ovvero qualcosa che dovrebbe coinvolgere più direttamente la sua soggettività, gli chiediamo di farlo non secondo le proprie emozioni, passioni o “credenze”, ma in base alle “conoscenze” oggettive che gli abbiamo trasmesso, giungendo spesso a ritenere che solo più conoscenze possano produrre giudizi e azioni più ragionati e ragionevoli. Prudenza e correttezza deontologica ci spingono spesso ad allontanare dalle nostre lezioni tutto ciò che potrebbe creare opinioni e pareri divergenti e a insegnare soprattutto ciò su cui esiste già un consolidato consenso.
Abbiamo così imparato a trattare le emozioni dei nostri alunni (e anche le nostre) come qualcosa su cui è meglio soffermarsi occasionalmente, qualcosa “in più”, del tutto opzionale rispetto all’esigenza primaria che è “far imparare”.
La dimensione emotiva è stata presa in considerazione recentemente per lo più quando si parla di motivazione, che è – ancora – motivazione all’apprendimento. Al di fuori delle loro “funzionalità” all’apprendimento le emozioni sembrano non godere di alcuno status.
Gran parte del personale docente che opera nella scuola (insegnanti, educatori, specialisti di qualche ambito), inoltre, non ha ricevuto una specifica formazione sulla centralità degli aspetti relazionali ed emotivi che possono coinvolgere la vita scolastica dei propri alunni, né sugli aspetti della comunicazione non verbale e gestuale. Molto è lasciato all’autoformazione e all’esperienza. Così la paura di non avere gli strumenti e la preparazione adeguati per agire sul benessere psico-fisico degli alunni, il timore di non poter reggere una reale presa in carico emotiva degli alunni, l’idea di dover svolgere una mole di lavoro sempre più pesante senza un maggior riconoscimento sociale o economico conducono a una crescente insoddisfazione, al progressivo disinvestimento emotivo e alla tendenza a disaffezionarci al nostro lavoro, concentrandoci prevalentemente sulle funzioni didattiche e organizzative e assai meno su quelle relazionali ed emotive.
In tutto questo è complice anche la perenne preoccupazione di non fare in tempo a completare “i programmi” d’insegnamento, che di fatto ormai da anni sono stati sostituiti – a livello ministeriale – da un invito esplicito a un’organizzazione curricolare della didattica, finalizzata all'acquisizione di competenze, ma che di fatto orientano ancora in maniera predominante il fare scuola con una quantità molto ambiziosa di contenuti che genera poi la comprensibile preoccupazione di non “farcela” a esaurire quanto programmato, con il rischio di legare a tale insuccesso il riconoscimento delle proprie capacità di docenti.
Il “problema” delle emozioni
Le emozioni irrompono tuttavia con violenza nella vita scolastica sotto forma, spesso, di problema che non si può fare a meno di considerare. Dietro numerosi casi di alunni con problemi di apprendimento, di integrazione e di comportamento emerge sempre più diffusamente il profilo di bambini scarsamente empatici, incapaci cioè di riconoscere i propri sentimenti, di gestirli, di raccontarli, di spiegarne l’origine in relazione a cause esterne, desideri, conoscenze, memoria; incapaci di leggere correttamente i sentimenti degli altri, di intuirli in anticipo, di relazionarsi in maniera profonda e costruttiva con i compagni, di uscire dall’affermazione a oltranza del proprio punto di vista e di costruire una verità condivisa e “sentita” con gli altri; bambini incapaci di relazionarsi positivamente con gli insegnanti (bambini che “non ascoltano”), in difficoltà persino nell’introiezione di semplici consegne.
La spiegazione di questi problemi è stata individuata in alcuni modelli di tipo affettivo (le relazioni tra il bambino e chi lo educa in famiglia) e cognitivo (il modo in cui si parla dei sentimenti in famiglia). Da non sottovalutare l’importanza di modelli culturali, che dietro il continuo richiamo all’autonomia spingono in realtà alla disaffezione, alla disaffiliazione, a ignorare vincoli, legami, contesti, solidarietà. A volte a deteriorare il clima della classe è – al contrario – il comportamento di bambini iperdesiderosi di attenzione e di ascolto, capaci di mettere in atto modalità di comportamento “eclatanti” per richiamare l’attenzione dell’insegnante e dei compagni. A volte sono l’ansia e la paura dell’errore a rendere difficile la vita a scuola, generando inquietudine, disagio, paura. I bambini temono di non essere all’altezza delle richieste genitoriali, oppure di essere derisi per i loro interventi o perché chiedono all’insegnante di rispiegare una procedura che non hanno afferrato, oppure perché durante un’interrogazione sbagliano la propria risposta.
L’espressività a scuola
In questo contesto, le ore curricolari di musica, arte ed educazione motoria, spesso sottovalutate in favore di altre materie ritenute più fondanti dal punto di vista dell’apprendimento (e più “remunerative” dal punto di vista delle verifiche nazionali) possono essere considerate come un’occasione preziosa per ridare valore all’affettività, rafforzare le relazioni positive all’interno del gruppo classe e favorire la comprensione e la gestione delle emozioni da parte dei singoli bambini e del gruppo, attraverso una serie di attività perfettamente gestibili dall’insegnante e da ritenersi, fra l’altro, perfettamente curricolari.
Queste considerazioni e intenzioni hanno ispirato i percorsi contenuti nella guida metodologica Oltre le parole, pubblicata da Pearson Pinguini. Si tratta di percorsi didattici trasversali, pluridisciplinari, nati e verificati nel corso di una felice e stimolante esperienza didattica che si è svolta in una scuola primaria di Milano e che ha coinvolto Grazia Floris, maestra di scuola primaria, e chi scrive, Andrea Carnevali, specialista di musica e didattica della musica. Nel corso di questa esperienza è stata elaborata una strategia di intervento sulle emozioni e sui vissuti dei bambini attraverso laboratori interdisciplinari di attività espressive, incentrati su una didattica di tipo laboratoriale e cooperativo. I risultati hanno comprovato la validità di percorsi di questo tipo non solo dal punto di vista dell’affettività e della comprensione ed espressione delle emozioni, ma anche dal punto di vista delle competenze concretamente conseguite nei rispettivi ambiti disciplinari e nell’affascinante ambito della loro interazione, funzionando come una sorta di propedeutica culturale in grado di generare una spinta motivazionale a esplorare e approfondire i vari ambiti di conoscenza rispetto alle tematiche proposte, in linea con quanto auspicato dalle più recenti Indicazioni Nazionali.
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