Il colloquio nella scuola secondaria di primo grado
Alcune riflessioni sullo svolgimento del colloquio finale
Nella classe terza in cui quest’anno sto insegnando storia, già da qualche tempo ha cominciato a serpeggiare una certa inquietudine da esame. Basta pronunciare una semplice parola perché cali un silenzio insolito e sospetto. E questa parola è “colloquio”. “Ma come funziona?”; “Non sappiamo che cosa aspettarci”; “E se non mi viene niente da dire?”; “Ma ci interrogano proprio tutti?”. Questi sono solo alcuni dei quesiti angosciosi che in questi giorni si stanno agitando nella mente dei miei alunni.
Il paradigma dell’interrogazione: do ut des
Tutti questi dubbi sono il frutto di un’esperienza triennale in cui l’interrogazione orale viene proposta e vissuta come uno scambio di carattere “quantitativo”, se così lo si può chiamare: alla domanda posta dall’insegnante deve corrispondere un certo numero di informazioni con cui il ragazzo risponde, presentandole in modo adeguato. L’insegnante ha svolto una certa parte del programma, consegnando agli studenti un patrimonio di nozioni che, attraverso lo studio, dovranno essere comprese, assimilate, rielaborate e, in ultima istanza, restituite all’insegnante stesso al momento dell’interrogazione, in modo che lui possa così valutare la qualità dell’intero processo. L’interrogazione si configura insomma come una sorta di circolo chiuso, basato su un rigoroso rapporto di do ut des: ti ho dato una certa quantità di sapere, e tu devi essere in grado di restituirmela. Non a caso, una delle rimostranze post-interrogazione più diffuse tra gli studenti è “Mi ha chiesto delle cose che non aveva neanche spiegato!!”: il patto non scritto do ut des è stato tradito!
È quindi naturale che i ragazzi, pensando al colloquio d’esame, se lo prefigurino come una temibile sommatoria di “circoli chiusi” di questo tipo, in cui ciascun insegnante del Consiglio di classe si fa avanti a reclamare la restituzione della propria fetta di sapere. Poco cambia se per ciascuna fetta si riesce a scovare qualche elemento di connessione con le altre, come accade nelle famigerate “tesine”.
Un diverso approccio al colloquio
Occorre dirlo con chiarezza: per avere un colloquio diverso, occorre avere prima di tutto una didattica diversa. Come osserva Franca Da Re (Il nuovo Esame di Stato al termine del Primo ciclo, Quaderno Pearson Academy), «la conduzione del colloquio non dovrebbe dare luogo a frammentazioni centrate sulle singole discipline», ma perché questo accada occorre «impegnare durante l’anno gli alunni su progetti complessi e articolati che potrebbero costituire la base su cui l’alunno conduce una trattazione, motiva le scelte, collega concetti, argomenta». Prepararsi all’esame, insomma, non significa solo mettere insieme una certa quantità di ore di studio individuale. Certo, anche questo è importante, ma perché quanto viene dichiarato nel Profilo dello studente non rimanga lettera morta, molto più importante è impostare un lavoro didattico in grado di inglobare ogni aspetto della crescita di un ragazzo, anche mettendolo in relazione con i suoi pari e con la realtà vissuta ogni giorno in ambito extra-scolastico. A un lavoro di questo genere si fa riferimento quando si parla di «progetti complessi e articolati»: contesti di realtà dove le conoscenze apprese in classe possano agire e interagire, mettendosi alla prova e stimolando la creatività del ragazzo, perché il suo sapere maturi in vera saggezza. E non dobbiamo avere paura di usare parole troppo alte per descrivere l’esperienza scolastica di un adolescente. La “saggezza” non è un obiettivo troppo ambizioso quando si parla di educazione: dovrebbe anzi essere l’orizzonte di attesa di chiunque abbia a che fare con dei ragazzi in crescita.
Dalla “conoscenza” alla “sapienza”
“Conoscere” e “sapere” non sono assimilati, ma costituiscono due gradi diversi di un processo di maturazione che porta l’individuo a vivere in pienezza: prima si conosce, e poi, se di quella conoscenza si riesce a fare buon uso, si arriva a “sapere”.
Dei vari momenti di cui si compone l’Esame di Stato, il colloquio, insieme allo scritto di italiano, ma forse in maniera ancora più profonda e significativa, è il palcoscenico più adeguato per far agire quella “conoscenza acquisita” che i ragazzi hanno saputo trasformare in “sapienza”, attraverso la loro esperienza scolastica, ma non solo.
Gaetano Salvemini scrisse che la cultura è ciò che resta quando si dimentica ciò che abbiamo imparato: se ci si pensa, “ciò che resta” dopo che ci siamo liberati degli orpelli del nozionismo, è proprio quello di cui siamo in grado di parlare: quello che, magari anche a distanza di anni da quando lo abbiamo appreso, riusciamo a fare oggetto di una conversazione, o perfino di una discussione, nella quale le nostre opinioni e credenze vengono messe a confronto con quelle degli altri. In questo stesso modo, il colloquio è il momento in cui i ragazzi, parlando di ciò che sanno, traducendo le nozioni in parole proprie, hanno la possibilità di trasformarle in esperienza viva e autentica. Occorre però aiutarli a far sì che le loro parole siano “racconto vero” e non semplice ripetizione di parole altrui, acquisite passivamente. Torniamo così ai «progetti complessi e articolati» di cui parlava Franca Da Re: un colloquio che sia all’altezza degli standard previsti anche dalla normativa, «finalizzato a valutare il livello di acquisizione delle conoscenze, abilità e competenze descritte nel profilo finale dello studente previsto dalle Indicazioni nazionali», e che ponga «particolare attenzione alle capacità di argomentazione, di risoluzione di problemi, di pensiero critico e riflessivo, di collegamento organico e significativo tra le varie discipline di studio» (D.M. 741/2017), dovrà per forza essere il punto di arrivo di un percorso costruito proprio attorno alla costruzione di quelle capacità. Un percorso rigoroso, ma al tempo stesso fluido e aperto, in grado di accogliere tutte le sollecitazioni, anche quelle impreviste e poco ortodosse, che possono animare il processo di crescita dei nostri ragazzi.
Conoscere la realtà dei ragazzi
Mi sono imbattuta in uno scritto di Gianfranco Zavalloni, pedagogista, insegnante e poi anche dirigente, in cui racconta una sua esperienza come presidente di commissione a un esame di terza media. Doveva interrogare un alunno che gli insegnanti membri della commissione gli avevano presentato come “il peggiore della scuola”. Durante il colloquio, emerse che il ragazzo viveva in campagna; i suoi genitori erano entrambi operai, mentre lui insieme al nonno gestiva una piccola azienda agricola, lavorandoci in ogni momento libero dalla scuola. Sollecitato dalle domande piene di interesse di Zavalloni, il ragazzo fu in grado di descrivere con grande precisione tutte le mansioni svolte, dalla raccolta della frutta, al confezionamento, fino allo smercio al mercato ortofrutticolo, dimostrando una piena consapevolezza di ogni fase del processo produttivo e commerciale. In definitiva, come viene alla fine rilevato dall’autore, “il peggiore della scuola” sfoggiò un linguaggio appropriato, unì le varie questioni facendo i giusti collegamenti, mise a frutto conoscenze e competenze che potremmo definire “storico-tecnico-socio-matematiche”. Insomma, un colloquio che, come vuole la normativa ministeriale, doveva essere multidisciplinare, con la possibilità di verificare le competenze di carattere linguistico/espositive, facendo i dovuti collegamenti. Un colloquio di successo, lo potremmo definire senz’ombra di dubbio. Ma giunto a conclusione di un percorso scolastico fallimentare: per il ragazzo, certo, ma soprattutto per l’istituzione scolastica, che nel corso dell’intero primo ciclo di istruzione non era stata in grado di avvicinare la realtà dell’alunno, di mettersi in relazione con essa e di farla entrare in quel “circolo delle conoscenze” che dovrebbe sempre esistere in ogni classe.
Il colloquio, che si sviluppa in un incontro diretto tra docente e discente, è il momento in cui maggiore rilevanza acquista la conoscenza che gli insegnanti hanno della realtà dei propri alunni: per metterli a proprio agio in quello che, di fatto, è il primo esame importante della loro vita, ma soprattutto per creare con loro quel genere di relazione autentica grazie alla quale il colloquio potrà mutare il proprio statuto, e da “interrogazione” diventare una “conversazione”.
Che fare? Partire da un dato di realtà
Conoscere la realtà dei ragazzi, dunque, e tradurla in un contesto che favorisca la circolazione del sapere e la sua maturazione in “saggezza”: in che modo il colloquio d’esame può contribuire significativamente a questo processo? Come strutturarlo affinché sia per i ragazzi non solo uno spauracchio, ma un reale momento di crescita, un ricordo davvero formativo?
Sarebbe importante partire da un dato di realtà: il colloquio potrebbe prendere le mosse da un documento, scelto appositamente dai docenti del Consiglio di classe a partire da ciò che essi sanno del ragazzo che si trovano di fronte: i suoi punti di forza così come le sue debolezze, ma anche i gusti, le propensioni, le aspirazioni e i progetti per il futuro. Insomma, quegli stessi dati su cui i docenti avranno sicuramente ragionato a fondo quando hanno formulato il giudizio orientativo, e che diventano assolutamente cruciali nel momento dell’esame, che segna il passaggio dal primo ciclo di istruzione alla scuola specifica verso cui il ragazzo è stato indirizzato.
Scuola e attitudini personali: un esempio
Ipotizziamo di dover esaminare un ragazzo con un curriculum scolastico regolare ma non eccelso, con spiccate doti artistiche e una grande passione per la musica, che vive in una realtà di periferia e si è iscritto al liceo scientifico. Immaginiamo di mettergli tra le mani, al momento del colloquio, questo articolo (Periferie, carcere e canzoni: intervista a Ghali) tratto dalla rivista “Internazionale”.
Si tratta di un’intervista a uno dei protagonisti dell’attuale scena trap italiana, Ghali. Vi sono molteplici riferimenti a diverse problematiche della nostra società, che a un lettore attento offrono tanti spunti per collegarsi anche ad alcuni dei temi affrontati in ambito scolastico, parlandone in modo originale, profondo e, soprattutto, “situato”.
Al candidato verrà lasciato il tempo per leggere il documento, e trarne gli elementi per costruirsi una propria mappa mentale che riesca a spaziare nel modo più ampio possibile entro le diverse aree di apprendimento attraverso cui si è sviluppato il suo percorso scolastico.
Il punto di partenza sarà determinato dalle specifiche attitudini del ragazzo, che lo porteranno a privilegiare alcuni temi piuttosto di altri: per esempio, nella lettura dell’articolo qui proposto la sua attenzione potrebbe essere particolarmente attirata dal riferimento ai social network, ormai indispensabili per la promozione di qualsiasi lavoro artistico. Questo potrebbe suggerirgli una riflessione sul rapporto tra arte e pubblico o tra musica e politica. E potremmo fare un discorso analogo per un altro fenomeno di massa, come ad esempio lo sport.
Il colloquio come confronto
Sarà già abbastanza chiaro quanti spunti possa offrire un documento scelto e presentato con oculatezza dai docenti e a un candidato che loro conoscono bene: spesso i ragazzi, quando sono messi a contatto con qualcosa che li riguarda da vicino, e da cui si sentono toccati, sanno sorprenderci; e in ogni caso, sarà cura e responsabilità del Consiglio di classe selezionare documenti di un livello adeguato.
Una prova di questo genere potrà fornire l’occasione per sviluppare un momento di confronto profondo e autentico con il candidato, chiamato a mettere in gioco, oltre che le conoscenze, tutte le competenze reali acquisite nel suo processo di crescita, e a dimostrare, come recita il profilo dello studente, di sapere «affrontare in autonomia e con responsabilità le situazioni di vita tipiche della propria età, riflettendo ed esprimendo la propria personalità in tutte le sue dimensioni».
Referenze iconografiche: maryolyna/Shutterstock