Un anno di esperienze, dentro e fuori…
Intervista a Monica Guerra
Monica, nella sua esperienza di docente e ricercatrice, mi pare emergere con evidenza l'auspicio di una sempre maggiore permeabilità tra la scuola e il mondo che sta fuori dalla scuola. Potrebbe spiegarci meglio di che cosa si tratta?
Il mondo è il luogo d'origine e di appartenenza dei bambini, oltre che degli adulti, insegnanti e familiari: è ciò da cui veniamo e ciò che siamo chiamati ad abitare. Una scuola che non sappia dialogare con il mondo in cui è collocata è una scuola che si colloca fuori dallo spazio e dal tempo e che dunque è più facilmente destinata a parlare un linguaggio distante da coloro che la abitano. Ma è anche una scuola che perde l'opportunità di cogliere dal mondo tutte le sollecitazioni che può offrire e che rinuncia a mettere a disposizione dei bambini e dei ragazzi con cui si confronta quegli strumenti di cui hanno bisogno per potersi muovere in esso con fiducia e competenza.
Nella sua ultima pubblicazione, FUORI. Suggestioni nell'incontro tra educazione e natura, si individua nella natura, intesa nelle sue molteplici manifestazioni, un ambiente di apprendimento privilegiato per i bambini di oggi. Si suggerisce, anzi, che la separazione tra persone e natura non solo sia innaturale, ma anche pericolosa. In che senso?
Il presupposto da cui muovo è che l'uomo sia parte della natura, quindi non altro da, ma esso stesso natura. In questo senso, la distanza tra l'uomo e l'ambiente che stiamo vivendo non può che essere innaturale, perché ci allontana dalle nostre radici, addirittura da noi stessi. E questo comporta una progressiva incapacità tra uomo e natura di comprendersi e rispettarsi, che diventa progressivamente incapacità di prendersi cura l'uno dell'altro, vicendevolmente. Accanto a questa motivazione, se vogliamo più antropologica e magari ambientale, ce ne è una che, da persona che si occupa di educazione, è per me altrettanto importante: all'aperto, in natura o se vogliamo più genericamente nel mondo, i bambini trovano un contesto naturalmente provocante, nel quale incontrano facilmente elementi o fenomeni che interessano la loro curiosità, e si trovano quindi spontaneamente nella condizione di attivare e coltivare le proprie strategie di ricerca, che credo siano oggi una delle competenze più utili che possiamo auspicare nella loro formazione.
Pensando alla didattica a scuola, vorrei chiederle: perché oggi con i bambini la lezione frontale non funziona più?
Non credo che non funzioni più in assoluto, ma che occorra ripensarne senso, tempi e modi. La lezione frontale è nata e si è sviluppata in una scuola diversa, collocata in un contesto diversissimo, in cui esisteva una maggior necessità di mettere a disposizione conoscenze altrimenti non reperibili, ma anche in cui non disponevamo delle stesse informazioni in merito a come si costruisce la conoscenza - una conoscenza che oggi sappiamo essere partecipata, che ha bisogno del confronto con gli altri per definirsi tale, e che dunque richiede altre strategie per generarsi. Accanto a ciò, i bambini oggi sono immersi in un mondo che utilizza canali differenti, interattivi, multilinguistici per comunicare loro i contenuti: se questo non deve significare un adeguamento acritico della scuola, non può neppure tradursi in una resistenza anacronistica e poco utile ad utilizzare strumenti e strategie che mostrano sempre più la loro inefficacia.
A fronte di una reperibilità sempre più immediata di informazioni e conoscenze, nonché della sempre maggiore fruibilità di esperienze culturali nel territorio e attraverso i media, la scuola può dirsi ancora un ambiente privilegiato di apprendimento? Se sì, in virtù di quali sue caratteristiche?
La scuola, per me, è ancora un ambiente privilegiato di apprendimento, o perlomeno lo può essere ad alcune condizioni, che partono innanzitutto da una interrogazione profonda sul proprio ruolo. Certamente, la scuola non è più l'unico luogo che detiene la conoscenza, ammesso che ve ne sia una univoca e statica, ma può - sinceramente, credo debba - essere un luogo fondamentale in cui esercitare il pensiero rispetto alla quantità infinita di informazioni con cui ogni bambino può oggi venire a contatto: a scuola si può apprendere a ricercare le informazioni di cui si necessita, a verificarne l'attendibilità, a discuterle criticamente, ovviamente se si privilegia un apprendimento per ricerca. Il suo essere luogo di comunità ne fa poi un ambiente privilegiato di incontro con altri, bambini e adulti: questa oggi è forse la sua caratteristica più rivoluzionaria, perché la scuola resta uno dei pochi luoghi in cui confrontarsi con la differenza in un modo che può essere mediato, a patto che scelga di adottare strategie che credano e investano sulla dimensione del gruppo.
Le faccio una domanda a cui le chiedo di rispondere "di pancia": nel futuro vede una "scuola naturale" o una scuola digitale?
Non ho mai avvertito naturale e digitale in opposizione. Ovviamente mi è chiaro che le tecnologie sono una delle ragioni per cui oggi i bambini vivono meno la natura, ma non ho mai pensato fossero l'unica causa, né che fossero il "nemico" da combattere: il digitale è parte del mondo dei bambini di oggi e come tale è ineludibile, rilevante, interessante anche. Per questo, nel futuro sogno soprattutto una scuola naturale non tanto nel senso di immersa nella natura, quanto di sempre più vicina a ritmi, domande, modi del procedere dello sviluppo e della conoscenza e dunque amica dei bambini reali. Questo credo non possa prescindere da tutti i contesti che compongono il loro mondo, che è digitale ma che necessita anche di essere più "analogico", più vicino a un fare animato di senso e di vita. Quella che vedo è, invece, una scuola che corre il rischio di confondere gli strumenti con le strategie e, nel farlo, di perdere l'opportunità di trasformarsi radicalmente, che mi pare essere ciò che molti movimenti centrifughi dalla scuola cosiddetta tradizionale suggeriscono come necessità.
Che relazione c'è, secondo lei, tra una scuola in dialogo con la natura come ambiente di apprendimento e la scuola delle competenze che il MIUR propone con vigore, da anni attraverso le Indicazioni Nazionali e più di recente attraverso la normativa in merito alla certificazione delle competenze acquisite dagli alunni?
Comincerei dicendo che abitare contesti vivi è il modo migliore per incontrare domande autentiche. E le domande autentiche sono quelle che attivano maggiormente l'utilizzo di strategie plurime, euristiche, trasversali. In natura - molta letteratura, internazionale ma sempre più anche nazionale, lo suggerisce ormai chiaramente - bambini e ragazzi hanno la possibilità di misurarsi con fenomeni complessi, di vivere un apprendimento situato, di incontrare saperi da esplorare in modo naturalmente interattivo, di fare esperienze significative, di apprendere facendo, tutti obiettivi della scuola delle competenze. Fuori, nel mondo, si realizza poi quell'intreccio tra aspetti cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali che gli stessi documenti sollecitano.
Infine: se potesse suggerire uno strumento efficace da "tenere in tasca" per i docenti che stanno incominciando, chi per la prima volta, chi dopo lunghi e magari faticosi anni di esperienza, un anno scolastico nella scuola primaria, che cosa menzionerebbe?
Credo che suggerirei un taccuino - di carta o virtuale poco importa - sul quale annotare le domande che i bambini si pongono, così da poterle raccogliere e utilizzare per rendere più significativi i percorsi che si intendono proporre loro, ma anche le proprie domande di insegnanti, quelle che emergono nello stare ad osservare i bambini e nell'interrogarsi sulle loro curiosità e sulle loro strategie di apprendimento: impegnarsi a scrivere le loro e le proprie domande è ancora oggi un modo prezioso di mettersi in ascolto, di valorizzare ciò che già c'è nei contesti educativi e scolastici, per contenere gli interventi degli adulti e per dare fiducia alle ricerche dei bambini.
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