Le città turistiche e la sindrome olandese

Rischi e opportunità nello sviluppo turistico dei grandi centri

Lo sviluppo turistico delle città d’arte offre notevoli opportunità, ma va governato per non deteriorare il tessuto sociale e le prospettive economiche locali.

Il turismo in Italia: un quadro disomogeneo

Fin dai tempi del Gran Tour intrapreso dai giovani aristocratici di tutta Europa a partire dal XVIII secolo, le città italiane sono sempre state una meta ambita. Che sia per il clima, per i chilometri di spiagge, per i musei o per la bellezza dei tantissimi borghi, l’Italia è meta privilegiata per il turismo (interno e internazionale).
Il turismo è spesso evocato come soluzione dei problemi economici del Bel Paese e individuato come settore su cui puntare per crescere - in termini economici - e per aumentare l’occupazione.
Secondo il rapporto 2019 di Banca d’Italia sul turismo in Italia, a questo settore si può ricondurre il 5% del PIL e il 6% degli occupati italiani. La distribuzione sul territorio è fortemente diseguale: le regioni del Centro e del Nord (soprattutto Nord-Est) attraggono il maggior numero di turisti, specialmente stranieri, anche grazie alla presenza di Venezia, Firenze e Roma. Negli ultimi 20 anni, anche alcune aree del Meridione (Puglia, Basilicata e Sicilia orientale) hanno evidenziato un certo dinamismo. D’altro canto, anche nelle regioni del Centro-Nord a farla da padrone sono pochissime province: secondo Banca d’Italia il 70% dei turisti stranieri si concentra in quattro province. Questo dato si correla con il fatto che il 30% dei visitatori dei musei italiani si concentra solo su 20 dei 5000 musei esistenti.

Le nuove variabili del settore turistico

In anni recenti due fattori hanno determinato la ristrutturazione profonda del settore turistico:

  • l’affermarsi delle aerolinee low cost, che hanno reso gli spostamenti aerei un valido e conveniente sostituto a treni e auto, permettendo a tutte le fasce di reddito di raggiungere ambite mete turistiche;
  • l’emergere delle piattaforme di condivisione, che hanno reso molto più competitivo il settore alberghiero: alcune piattaforme permettono di comparare i prezzi delle stanze e valutare la qualità dei servizi. Allo stesso tempo, si è data l’opportunità ai proprietari di casa (o semplicemente a chi voglia mettere in condivisione una stanza o un divano) di ottenere un reddito aggiuntivo.

Questi due elementi hanno inciso fortemente sul mercato dei servizi turistici, determinando un aumento del numero dei viaggiatori e una ricomposizione dell’offerta: da una parte le strutture alberghiere hanno aumentato la qualità e quantità dei servizi, per catturare una clientela di alta gamma; dall’altra, grazie alle piattaforme, sono cresciuti gli alloggi privati destinati all’affitto breve.
Il livello raggiunto dalle piattaforme e la loro pervasività costituiscono un piccolo paradosso, se si pensa a come sia nata una delle aziende più importanti e conosciute del settore, Airbnb. I due fondatori vivevano a San Francisco ed erano in difficoltà economiche, tanto da non riuscire a pagare l’affitto. Decisero quindi di mettere un annuncio per affittare un letto gonfiabile (air bed, in inglese) e offrire la colazione (la seconda b). Lo spirito era quello iniziale della sharing economy: condivido i beni posseduti per ottenere un piccolo ritorno. Tra l’altro i primissimi progetti come il couchsurfing (la condivisione del divano) non prevedevano lo scambio monetario: si condivideva e basta.

Potenzialità e rischi dello sviluppo turistico

Lo sviluppo delle piattaforme ha aperto numerose opportunità, sia per risolvere o arginare il problema della mancanza di alloggi sia per aiutare lo sviluppo del settore turistico e contribuire così al rilancio dell’economia locale e all’aumento dell’occupazione. È tuttavia necessario un investimento rilevante delle autorità locali per far conoscere i luoghi, le tradizioni, i musei e le bellezze presenti sul territorio, per formare personale di qualità e per far sì che le risorse prodotte abbiano una ricaduta su tutta la popolazione. Il turismo può ad esempio lanciare il settore del restauro delle opere d’arte presenti sul territorio, così come l’organizzazione di mostre, con il fine di diversificare l’offerta.
Tuttavia il settore turistico non può essere l’unico presente, se non nei piccoli centri. Proprio su questo punto è centrata la critica che sta emergendo soprattutto nelle grandi città (Firenze, Roma, Venezia), dove si contano presenze o pernottamenti nell’ordine di milioni per anno.
Per spiegare che cosa stia avvenendo, prendiamo a prestito un concetto dalla teoria economica: la cosiddetta sindrome olandese (dutch disease), con cui ci si riferisce agli effetti sul sistema economico prodotti dal boom in un unico settore. L’Economist coniò questa espressione nel 1977 per spiegare la deindustrializzazione dei Paesi Bassi in seguito alla scoperta del gas naturale nel mare del Nord, nel 1959. L’idea è molto semplice: quando aumenta il reddito generato da uno specifico settore economico, le risorse produttive tendono a spostarsi verso quel settore, modificandone i prezzi e spiazzando altri settori, come il manifatturiero nel caso olandese.

La beach disease

Nel caso del turismo, le risorse naturali sono costituite dai paesaggi, dalle spiagge (la Banca d’Italia parla proprio di beach disease), dalle montagne, ma anche dalla storia, dalla cultura e dalla bellezza della città. Come nel caso del dutch disease, le risorse e gli investimenti si spostano verso il settore turistico mettendo gli altri settori, come il manifatturiero, in difficoltà.
E così, la maggior domanda di lavoratori per il turismo è una bella notizia per una città depressa, ma non necessariamente lo è per una città già sviluppata. In questo caso, infatti, donne e uomini con qualifiche anche alte potrebbero trovarsi a dover accettare lavori lontani dalle proprie competenze. Di conseguenza, nel medio periodo, le nuove generazioni saranno spinte a formarsi per il settore turistico, riducendo il numero di lavoratori (ad alta qualificazione) necessari per il manifatturiero. Le imprese d’eccellenza, dal canto loro, sceglieranno di localizzarsi altrove, dove potranno trovare un capitale territoriale adeguato: lavoro qualificato settoriale, altre aziende dello stesso settore da cui “apprendere”, accesso alle informazioni e conoscenza.
Allo stesso tempo, gli imprenditori preferiranno effettuare investimenti immobiliari (con alti ritorni), piuttosto che manifatturieri con rendimenti incerti. Questo genera un forte effetto sulla produttività dell’intero sistema e sull’innovazione, vero motore della crescita di lungo periodo. Infine, l’aumento della domanda di alloggi, spingendo in alto i prezzi di case e affitti, può rendere opportuno spostarsi altrove, anche per le imprese manifatturiere già presenti sul territorio.

La gentrificazione e l’inquinamento

L’aumento dei prezzi delle abitazioni e degli affitti hanno anche un forte effetto sulla composizione della popolazione. La carenza di alloggi e/o il loro alto prezzo spinge i lavoratori (soprattutto i meno abbienti, che spesso sono proprio quelli del settore turistico) verso le periferie o i centri abitati limitrofi, determinando quella che i sociologi chiamano gentrificazione: la trasformazione dei centri storici in aeree per soli ricchi e affitti di breve e brevissima durata.
Cambiare la composizione sociale dei quartieri centrali, paradossalmente, comporta la trasformazione di quelle che spesso sono le peculiari caratteristiche di questi quartieri ricercate dai turisti: i rumori, le voci, gli abitanti “originari”, le botteghe artigiane, spesso impossibilitate a reggere gli elevati affitti o sostituite da negozi di souvenir.
Infine, è importante sottolineare l’effetto della pressione turistica sull’ambiente, sia a livello micro, per la maggiore pressione antropica sul territorio (consumo del suolo e risorse), sia a livello macro, dato che i viaggi in aereo sono molto inquinanti: una compagnia low cost è entrata nella non felice classifica dei 10 maggior produttori di CO2, causa principe dei cambiamenti climatici.

Le possibili soluzioni

Siamo di fronte a un chiaro trade-off fra gli effetti positivi del turismo (crescita del PIL e dell’occupazione) e gli effetti negativi (sindrome olandese, gentrificazione).
Alcune città hanno iniziato a ragionare su tutti i possibili effetti del turismo. Le risposte sono complesse, vanno sicuramente contestualizzate e non possono esser date da una singola città, ma almeno a livello regionale, se non nazionale.
Al momento gli interventi sembrano essere di due tipi. I primi puntano a limitare l’utilizzo delle piattaforme da parte di società di comodo, che nei fatti svolgono attività (para)alberghiera.

Le proposte riguardano ad esempio la limitazione della possibilità di:

  • affittare per periodi inferiori al mese fino a un numero massimo di unità immobiliari;
  • affittare a breve termine per un numero limitato di giorni all’anno.

Così facendo si intende limitare la possibilità di affitti brevi solo a chi ha un’unica seconda casa, evitando di togliere dal mercato gli affitti a medio-lungo termine.
D’altra parte, soprattutto nel nord Europa si è cercato di combattere la gentrificazione permettendo anche alle persone meno abbienti di vivere nei centri delle città, attraverso “case popolari” ricavate da vecchi edifici pubblici dismessi.
Il turismo non va demonizzato e costituisce una grande ricchezza per il nostro Paese. Tuttavia va promossa la vivibilità dei luoghi (scuole, mobilità integrata, qualità dell’ambiente) e occorre investire nei settori strategici del manifatturiero.

Referenze iconografiche: f11photo/Shutterstock

Giorgio Ricchiuti

Laureato in Economia politica, ha inoltre conseguito il Dottorato di Economia dello sviluppo. È professore associato presso il Dipartimento di Scienze per l'Economia e l'Impresa dell'Università di Firenze, dove tiene corsi di Economia internazionale, Macroeconomia ed Economia computazionale. È autore di diverse pubblicazioni Paramond.