Per spiegare meglio quel che vorrei dire, parto dal suo esatto contrario, il genere letterario a cui ancora oggi spesso viene ridotta la scrittura nelle scuole italiane: il “tema”. Se ci fermiamo un momento a riflettere, vediamo che le regole di Barbiana le contraddice tutte: del valore del contenuto importa poco; non c’è un destinatario reale, si scrive per l’insegnante, al quale non importa davvero quel che l’alunno scrive, ma solo valutare la correttezza formale (logica, sintattica, lessicale…); il tema è “a sorpresa”, l’alunno deve arrangiarsi con quel che ha in testa; trovare una logica, sì, ma da solo, in fretta, su un argomento che non possiede; aggiungere più parole possibile per tirare in lungo (i temi, salvo quelli di alunni eccezionali, sono sempre “troppo brevi”); usare paroloni per darsi un tono; finire nelle due, massimo tre, ore fissate.
Il fatto è, mi pare, che il genere “tema” poteva avere un senso – a me in verità non è piaciuto mai, nemmeno quando li dovevo fare da studente; ma io, lo so, sono troppo estremista – all’interno di un dato modello di scuola, che aveva alcuni presupposti impliciti. Provo a esplicitarne qualcuno.
- La scuola interessava per ragioni diciamo “esterne” alla scuola stessa. Si dava cioè per scontato, era un’evidenza socialmente condivisa che fosse in sé una cosa “buona”, indispensabile per il mantenimento dello status sociale di provenienza o per la conquista di uno migliore.
- Gli studenti – in particolare quelli della secondaria, ma non solo – avevano di per sé un bagaglio culturale: lettura di libri, conversazioni a casa o nei gruppi giovanili, consuetudine con i giornali e con l’informazione erano dati per presupposti, non c’era bisogno che li fornisse la scuola.
- C’era una gerarchia di abilità che si formava in qualche modo da sé, gli alunni che le sviluppavano erano destinati a proseguire, quelli che non le sviluppavano si fermavano via via per strada: era normale che fosse così.
All’interno di questo quadro, non c’era bisogno di insegnare esplicitamente a scrivere: una volta dati i fondamenti (ortografia, grammatica, sintassi) il resto sarebbe venuto da sé, grazie principalmente alla lettura («per saper scrivere bisogna leggere molto»); al tema spettava solo il compito di verificare regolarmente questi progressi “spontanei”, e chi non imparava era giusto che venisse fermato.
Ora però questi presupposti impliciti sono venuti meno. Sono ben pochi gli studenti – non a caso, spesso gli stranieri – che vedono nella scuola un veicolo di promozione sociale: per la maggior parte di loro è uno scotto da pagare a un sistema che non prevede altra forma di passaggio alla vita adulta. Il bagaglio culturale extrascolastico – sempre, ovviamente, con le dovute eccezioni – si assottiglia sempre più: raramente leggono libri; quasi mai in casa o fra amici si parla di attualità o di politica (se non, al massimo, in termini di slogan); giornali e telegiornali sono ruderi di un passato remoto. L’abilità specifica della scrittura è atrofizzata dalla comunicazione digitale: sms, whatsapp, twitter non richiedono grandi competenze grammaticali, sintattiche, lessicali: «tanto si capisce» è la loro ostinata obiezione alle nostre osservazioni in merito.
E allora? Allora, venuta meno l’impalcatura delle ragioni che per comodità ho chiamato “esterne” alla scuola, bisogna pazientemente ricominciare da quelle “interne”: interne a ogni contenuto, a ogni sapere, a ogni abilità. Per usare, spero non a sproposito, una terminologia in voga, di fronte al “crollo delle evidenze” in cui i nostri ragazzi crescono bisogna ricominciare pazientemente a ricostruirle dall’interno di quel che insegniamo.
Come? In estrema sintesi potrei dire: ricominciando dalle “regole di Barbiana”. Provo a esplicitare. Ho avuto il privilegio di insegnare tanti anni italiano in un Istituto professionale, dove già venti o trent’anni fa i ragazzi avevano in odio la scuola e in particolare la scrittura. Che cosa ho fatto? Primo, ho sempre proposto loro di scrivere a partire da qualche cosa di interessante. Un fatto accaduto a qualcuno di loro, una discussione in classe, un evento della vita pubblica che in qualche misura li avesse colpiti. Secondo, ho sempre preparato il testo. Cioè, non sono mai arrivato in classe il giorno dello scritto con le solite due o tre tracce più o meno a sorpresa, ma dicevamo sempre: su questo vale la pena scrivere qualcosa, queste osservazioni vale la pena metterle per iscritto. Quindi facevamo un lavoro di preparazione – prima in classe, poi, una volta un po’ consolidato il sistema, a casa – in cui ciascuno di loro metteva per iscritto, così come era capace, quel che voleva dire sull’argomento. Poi leggevamo insieme quei primi abbozzi – alcuni li leggevo io con l’autore, alcuni li leggevamo in classe a tutti, spesso chiedevo che leggessero loro gli uni quelli degli altri – in modo da mettere in evidenza i punti di debolezza e quelli di forza (devo a Roberto Filippetti l’uso della matita verde, cioè la sottolineatura dei passaggi o delle espressioni particolarmente felici: ha ragione, perché segnare sempre e solo gli errori? Scoprire che anche loro sapevano scrivere cose belle è stato per i ragazzi un potente aiuto a cercare di migliorarsi). Solo a questo punto arrivavamo alla stesura definitiva, anche questa non un lavoro strettamente individuale: incoraggiavo i ragazzi a chiedere consiglio a me, ma soprattutto a far leggere il loro lavoro a qualche compagno, per raccogliere da un lettore vero le ultime indicazioni e correzioni. Alla fine, qualche volta – non sempre – la raccolta dei loro testi diventava un fascicoletto per tutti. E devo dire che il fatto che scrivessero di una cosa che interessava, a qualcuno a cui il loro scritto interessava, che altri avrebbero letto – superato lo sconcerto iniziale, «ma come, prof, lo leggono anche altri??» – è sempre stata una spinta potente.
Ora insegno da molti anni storia e filosofia, e mi limito a sottolineare come il fatto che gli studenti scrivano su un argomento davvero interessante, i cui elementi di base sono dati per acquisiti (il più delle volte lascio tenere sott’occhio gli appunti, non è la pura conoscenza che mi interessa), a qualcuno davvero interessato, e tendenzialmente a tutti – ora tutte le verifiche le carico su una cartella dropbox della classe, chiunque può leggerle (e chiunque può vedere le mie correzioni) –, è un incitamento non da poco a provare a scrivere “bene”.
Conosco bene l’obiezione fondamentale (oltre ad altre minori): ma allora come fai a sapere quanto uno sa scrivere “da solo”? Risposta: e chi, nel mondo reale, scrive “da solo”? Io scrivo per mestiere, libri, articoli di giornale, si suppone che sia capace di scrivere, qualunque cosa questo voglia dire; eppure, meno male che ci sono i correttori di bozze, altrimenti quanti errori resterebbero dentro i miei testi. Più ancora, meno male che c’è qualcuno che legge i miei scritti prima che vadano al correttore di bozze, che mi segnala dove non mi sono spiegato, dove ho tirato troppo in lungo, dove non sono stato efficace… Se ho bisogno dell’aiuto altrui io, che sono un professionista, perché non dovrebbero averlo (l’aiuto) i ragazzi che devono ancora imparare?
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