Insegnare grammatica
La distanza tra documenti ufficiali e pratiche scolastiche
Mi riferisco in particolare a due documenti che hanno, o dovrebbero avere, un posto centrale nella vita della nostra scuola e costituire per tutti i docenti punti di riferimento ineludibili: le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell'infanzia e del primo ciclo di istruzione del 2012 e il Quadro di riferimento della prova di italiano dell'Invalsi nella sua ultima versione del 2013. I due documenti, tra loro in sinergia, anche se diversissimi per finalità, contenuti e strutturazione, contengono una serie di affermazioni piuttosto impegnative che riguardano la metodologia dell'insegnamento grammaticale, che vale la pena di rileggere e confrontare con le pratiche scolastiche.
Le Indicazioni nazionali: i concetti di grammatica implicita ed esplicita
All'interno del documento, nell'ambito della disciplina di italiano, compare un paragrafo dal titolo molto significativo: Elementi di grammatica esplicita e riflessione sugli usi della lingua (pp. 38-39). Il paragrafo chiarisce subito cosa si intenda per "grammatica esplicita", introducendo il concetto di "grammatica implicita": «Ogni persona, fin dall'infanzia, possiede una grammatica implicita, che le permette di formulare frasi ben formate pur senza conoscere concetti quali quelli di verbo, soggetto, ecc. Questa "grammatica implicita" si amplia e si rafforza negli anni […] sin dai primi anni di scolarità, i bambini hanno una naturale predisposizione a riflettere sulla lingua. È su queste attitudini che l'insegnante si può basare per condurre gradualmente l'allievo verso forme di "grammatica esplicita"».
Dunque il percorso è segnato: in fatto di grammatica i bambini non sono tabula rasa, nel momento del loro ingresso a scuola sono già in grado di usare la lingua per le loro necessità, capiscono e producono centinaia, migliaia di forme che combinano in enunciati sostanzialmente corretti e, quel che più conta, mai sentiti prima. Anche i loro errori (petaloso per "ricco di petali" o pungiuto per "punto") dimostrano che conoscono e applicano le regole della loro lingua materna, anche se non ne hanno nessuna consapevolezza, e non saprebbero in nessun modo spiegare come mai li hanno prodotti. È su questo terreno dunque che va innestata la riflessione scolastica sulla lingua, per arrivare a quella "grammatica esplicita" che altro non è che una più alta e matura forma di conoscenza, quella che darà ai bambini, e più tardi agli adolescenti e agli adulti, gli strumenti e le parole per analizzare la lingua che già conoscono. Ma è da questa lingua, e dunque da questa grammatica già conosciuta, che bisogna partire.
In che modo? Le Indicazioni nazionali danno puntuali indicazioni di metodo, suggerendo il "modo induttivo" (dai dati linguistici alla regola), con l'avvertimento di evitare "un'introduzione troppo precoce della terminologia specifica". E più oltre: «il ruolo probabilmente più significativo della riflessione sulla lingua è quello metacognitivo: la riflessione concorre infatti a sviluppare le capacità di categorizzare, di connettere, di analizzare, di indurre e dedurre, utilizzando di fatto un metodo scientifico». Dunque, anche qui si ribadisce che si fa grammatica su frammenti di lingua, i quali vanno messi a fuoco nelle loro caratteristiche distintive, confrontati fra loro, suddivisi in gruppi e sottogruppi sulla base di proprietà condivise.
Il Quadro di riferimento della prova di italiano dell'Invalsi: l'obiettivo è far ragionare sulla lingua
Il documento contiene un passaggio chiave per i nostri ragionamenti (p. 10):
«Nella formulazione dei quesiti di grammatica si mira, più che misurare la capacità di memorizzare, riconoscere e denominare classi e sotto-classi di elementi, ovvero di operare una categorizzazione astratta e fine a se stessa, a privilegiare le capacità di operare analisi di tipo funzionale e formale, in particolare di:
- osservare i dati linguistici e mettere a fuoco fenomeni grammaticali anche nuovi rispetto alle consuete pratiche didattiche;
- ragionare sui dati offerti - possono essere parole, frasi, brevi testi - per confrontarli, scoprirne le relazioni, le simmetrie e le dissimmetrie, risalire alle regolarità;
- ricorrere alla propria competenza linguistica implicita per integrare frasi e per risolvere casi, anche problematici, proposti alla riflessione;
- descrivere i fenomeni grammaticali;
- accedere ad un approccio ai fatti di lingua (pre)scientifico piuttosto che normativo.»
In questo passaggio si dice esplicitamente che le domande di grammatica saranno costruite in modo da valutare non tanto la capacità di richiamare categorie, sotto-categorie, regole e definizioni, ma piuttosto la capacità di riflettere sulla lingua e di ragionare in modo autonomo su di essa facendo appello anche alla "propria competenza linguistica implicita". Dovrebbe funzionare come un invito, neanche tanto tacito, rivolto ai docenti perché evitino la grammatica delle liste, delle etichette e dei paradigmi da mandare a memoria e da richiamare nel momento della esercitazione, per puntare su una modalità più attiva e riflessiva, che induttivamente parta dai fatti di lingua per estrarre da questi, dopo gli opportuni confronti, generalizzazioni attendibili e verificabili. È di tutta evidenza che solo chi è stato allenato a questo metodo saprà cavarsela anche in presenza di quei "fenomeni grammaticali nuovi rispetto alle consuete pratiche didattiche", che l'Istituto non esclude di proporre nelle prove.
Le pratiche scolastiche sono in linea con questi suggerimenti?
Non è facile rispondere a questa domanda, che ha tra l'altro il difetto di essere troppo generica, tale da indurre risposte impressionistiche sulla base delle esperienze, sempre limitate, che ciascuno di noi ha accumulato nel corso del tempo. L'unica possibilità per entrare in questo universo è aggredire la materia scegliendo un particolare punto di osservazione - possono essere i libri maggiormente adottati in un'area del paese o nell'intera nazione, o i risultati delle prove Invalsi, o i quaderni dei bambini e le attività in essi documentate, o lezioni di grammatica registrate, o altro ancora - e infatti non mancano studi che hanno tentato di rispondere a quella domanda a partire dal punto di osservazione prescelto. C'è anche chi, come me, indagando su tutt'altro, si è imbattuto per caso in materiale interessante che potrebbe servire a comporre il quadro generale, fornendo un tassello su cui vale la pena di riflettere.
Ho seguito in questi ultimi anni una serie di tesi di laurea incentrate su colloqui individuali con studenti di diverse fasce scolari, su temi grammaticali ritenuti per una qualche ragione meritevoli di attenzione specifica nell'insegnamento. Lo scopo era quello di testare la competenza linguistica e metalinguistica degli studenti intervistati, per provare a capire se, al di là degli insegnamenti grammaticali ricevuti, essi fossero in grado di "vedere" certi fatti grammaticali e di riflettere sui dati offerti. Ora, uno dei risultati più eclatanti di queste interviste è che spesso non c'è nei ragazzi alcuna abitudine a riflettere in modo autonomo sui dati linguistici. Soprattutto sui temi già incontrati nell'iter grammaticale scolastico, i dati - le parole, le frasi, i brevi testi - offerti alla riflessione vengono nella maggior parte dei casi letti e analizzati sulla base degli schemi e delle definizioni introiettate, che fanno da filtro, e spesso da lente deformante della realtà.
Un esempio concreto: le interviste ad alcuni bambini sull'uso dei tempi verbali
Farò un esempio, relativo al paradigma verbale dell'italiano. A differenza delle precedenti Indicazioni del 2007 - che prevedevano una voce specifica al termine della V classe della scuola primaria: "individuare e usare in modo consapevole modi e tempi del verbo"- nelle ultime Indicazioni (2012) manca in proposito un esplicito richiamo. Si pone solo, al termine della V elementare, l'obiettivo di "Riconoscere in una frase o in un testo le parti del discorso, o categorie lessicali, riconoscerne i principali tratti grammaticali", indice che viene ripetuto praticamente con le stesse parole al termine della III classe della scuola media. Dobbiamo supporre che tra le categorie lessicali sia compreso anche il verbo. Nella pratica scolastica, a giudicare dai libri di testo in uso e dai quaderni dei bambini che ho avuto modo di sfogliare, il verbo è presente fin dalle prime classi della scuola primaria, ma riceve una trattazione sistematica nella IV e nella V classe.
Riporterò a questo punto alcuni frammenti di interviste, relative ad alcuni usi del modo indicativo (la ricerca sull'indicativo è descritta più in dettaglio in Lo Duca 2016, disponibile in rete). Le interviste sono state fatte in area veneta e lombarda, in comuni e scuole diverse. Cominciamo da Giovanni (V primaria), il quale, posto di fronte a una serie di voci verbali che in italiano veicolano il passato, risponde prontamente:
- ‘Mangiavo' è imperfetto, ‘ho mangiato' passato prossimo, ‘mangiai' passato remoto, e ‘avevo mangiato' trapassato prossimo.
- Secondo te il passato prossimo quand'è che si usa?
- (ci pensa un po') Quando una cosa è accaduta da poco.
- Ma posso usarlo anche per dire ad esempio "i miei nonni si sono sposati cinquant'anni fa"?
- No.
- Cosa dovrei dire?
- Si furono sposati.
- Quindi dovrei usare un trapassato remoto?
- Sì, perché è accaduto tanto tempo fa.
- Da quando è che diventa tanto tempo fa? Dieci anni fa è tanto tempo fa?
- Abbastanza.
- Ma io direi "dieci anni fa ho iniziato le scuole superiori". È sbagliato?
- Sarebbe meglio "avevo iniziato".
- Ho capito. Allora il passato prossimo si usa per un passato quanto vicino?
- Più di un giorno.
- Non posso dire "domenica sono andata al cinema"? Io lo direi.
- Anche io!
- E "l'estate scorsa sono andata al mare"? Va bene questa frase anche se è passato più di un giorno?
- Sì. Però anche il trapassato prossimo si potrebbe usare: "l'estate scorsa ero andato al mare".
Giovanni è un bambino molto diligente, ha studiato bene il paradigma verbale e, a differenza di molti suoi compagni, riconosce prontamente tutti i tempi e richiama correttamente le relative etichette. Ma ha introiettato che il passato prossimo è un passato vicino al momento dell'enunciazione, mentre il trapassato remoto è un passato lontano, così come suggerito dalla stessa terminologia oltre che dalla presentazione tradizionale di questi tempi verbali. È una sistemazione talmente radicata, che le frasi della lingua che contravvengono alla regola appresa vengono rifiutate e sostituite da sequenze quelle sì discutibili.
Non è un caso isolato. Spesso, di fronte ai dati, i nostri intervistati arrivano a forzare la loro naturale competenza linguistica per adattare la lingua alle regole apprese. (si legga nel box un altro esempio)
Qualche conclusione
Senza caricarli di significati eccessivi, questi colloqui rivelano, con una frequenza preoccupante, il persistere di una certa modalità di fare grammatica che è nei ricordi di molti di noi. Più che orientare all'osservazione e alla riflessione sulla lingua, questa modalità consiste nella presentazione di forme, etichette, liste e definizioni, fatta con tutta probabilità troppo precocemente e per lo più in modo semplificato. Molti argomenti vengono affrontati troppo presto, quando i bambini non hanno ancora maturato una competenza linguistica che li metta in condizione di "vedere" certe forme e di capirne la funzione. Risultando inaccessibili a una vera comprensione, a tutti o a una parte consistente di allievi, le definizioni e le liste vengono (quando va bene) studiate, memorizzate e poi applicate in modo meccanico nella soluzione degli esercizi.
Evidentemente continua a circolare nelle nostre aule un'autorità indiscussa: di fronte alle frasi che tutti dicono si erge la Grammatica che legifera e sanziona, cui gli studenti credono di dover sottostare. È un modello così distorto che impedisce loro di ragionare liberamente sui dati offerti alla loro riflessione per provare a scoprirne comportamenti e regolarità. Piuttosto di ammettere che una certa regola o una certa definizione - apprese fin dai primi anni di scuola e mai verificate o messe in discussione nei cicli superiori - è sbagliata, o parziale, o inadeguata nel caso specifico, molti studenti preferiscono dire, molto semplicemente, che la frase è scorretta.
Intervista ad alcuni studenti sull'uso dei tempi verbali
Si chiedeva, a un certo punto dell'intervista, se fosse corretta la seconda frase della sequenza che segue: "Stanotte ho sentito un gran rumore. Sarà successo qualcosa?". In ogni livello scolare ci sono studenti pronti a giurare che la seconda frase è sbagliata. Per esempio:
- Luca (V primaria): allora qua dice che è stanotte quindi è passato, però ‘sarà' io dico che è futuro, però questo rumore lo ha già sentito stanotte!
- Lucia e Paolo (rispondono assieme per iscritto, III media): No [non è corretta], si usa nella lingua parlata però è scorretta grammaticalmente perché è al tempo futuro.
- Riccardo e Roberto (rispondono assieme per iscritto, IV liceo): La frase non è corretta, poiché è utilizzato un futuro per indicare un'azione che è avvenuta in passato (per indicare posteriorità nel passato si usa il condizionale passato).
È possibile che sul giudizio di correttezza abbia pesato, in questo caso, il sospetto per una forma sentita come tipica del registro parlato e colloquiale: ma dalle argomentazioni addotte si ricava chiaramente che per molti dei nostri ragazzi una forma etichettata come "futuro anteriore" non può rimandare a un evento passato rispetto al momento dell'enunciazione. È una eventualità che provoca una sorta di conflitto cognitivo che molti non sanno come risolvere. Sicché quando sono costretti ad ammettere che la frase "Sarà successo qualcosa?" si riferisce a un evento passato, preferiscono pensare che sia, molto semplicemente, errata, e i liceali richiamano una regola appresa a sostegno del loro ragionamento.
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