Autore: Yasmina Khadra
Editore: Mondadori (Milano 2005)
Temi: la ricerca della verità, la questione palestinese, il terrorismo, laicità e religione, identità e pluralismo culturale
Destinazione: scuola secondaria di secondo grado, secondo biennio e quinto anno
Tel Aviv, Amin Jaafari, un chirurgo di origini beduine naturalizzato israeliano perfettamente integrato nella società che lo ha accolto, un professionista stimato a livello internazionale, abita in uno dei quartieri più ricchi della città e ama la moglie da cui è riamato: un uomo a cui non manca nulla, un uomo felice. Ma un giorno, mentre è in servizio all’ospedale, arriva la notizia di un attentato. Emergenza tutt’altro che eccezionale in Palestina e lui come sempre opera giorno e notte per salvare vite umane. Quando è ormai al limite delle sue forze e, esausto, sta per tornare a casa, giunge una seconda, terribile notizia: tra le vittime della strage c’è anche la moglie.
Ci sono, però, addirittura cose peggiori della morte. Poco dopo arriva una terza notizia: la moglie non è una vittima dell’attentato bensì l’attentatrice. Amin rifiuta categoricamente di credere a tale assurdità. Mentre le prove si accumulano e amici e conoscenti cominciano a schierarsi, il dubbio è ancora, costantemente, respinto. Fino a quando arriva un ultimo, decisivo messaggio: una lettera della moglie, spedita il giorno prima dell’attentato… Può un uomo sopportare «il dolore e l’orrore al tempo stesso»?
Come dopo un uragano la vita a poco a poco si ridesta, anche Amin, dopo aver fatto tacere anche il più lieve moto dell’anima, comincia a porsi domande e a voler trovare risposte. Chi era mia moglie? E chi sono io, che non conoscevo neppure la compagna della mia vita? Amin, come Edipo, vede crollare ogni certezza su cui si era fondata la propria vita e cerca di scoprire ad ogni costo la verità sulla moglie e, soprattutto, su sé stesso. Ci proverà compiendo un lungo viaggio, fisico e coscienziale, attraverso la Città Santa, le zone colpite dalla guerra, i rifugi segreti in cui si nascondono i mandanti dell’attentato e i luoghi dell’infanzia dove ancora vive la sua gente. Quest’uomo attraverso scoperte dolorose, pericolose peripezie e dialoghi tra posizioni inconciliabili rimetterà in discussione tutto.
Tutto eccetto un principio fondamentale, che rimarrà per il personaggio e – per l’autore – un punto fermo dall’inizio alla fine di questo percorso di conoscenza, dalla prima all’ultima pagina del romanzo: scegliere di salvare la vita, schierandosi contro chi progetta di dare la morte. Per qualsiasi ragione lo faccia.
Tuttavia questa affermazione, mai ritrattata, non risolve le molteplici tensioni che attraversano l’opera. La funzione di un dramma non è quella di spiegare o dimostrare una tesi, ma di porre, in termini universali, un problema, un’aporia. E di vie che sembrerebbero senza uscita, che richiedono lunghe e ponderate riflessioni, ce ne sono tante in questo libro di Yasmina Khadra (pseudonimo dello scrittore algerino Mohammed Moulessehoul), così denso di punti di vista contrapposti su scottanti temi d’attualità: la questione palestinese, il terrorismo, la nozione di guerra giusta, il discrimine tra patriottismo e criminalità, il rapporto tra professionalità laica dell’individuo e tradizioni religiose di un popolo e molti altri ancora.
La lettura del romanzo ci spinge a fare attenzione alle differenze e alle sfumature di significato tra concetti che talvolta nel dibattito pubblico sono trattati, in modo confuso, come equivalenti. Si pensi alle coppie di termini come israeliano/ebreo, palestinese/arabo, islamico/islamista, integralità/integralismo, nazionalista/fondamentalista. Comprendere l’importanza delle differenze, capire che le diverse tradizioni culturali rappresentano una ricchezza insostituibile, perché solo attraverso il confronto con l’altro da sé si costruisce l’identità di una persona o di una nazione, può essere il primo passo verso il rispetto e la tolleranza dell’altro, la rinuncia alla pretesa che il diverso sia soppresso, emarginato o omologato.
Non c’è solo la questione politica e sociale in questo romanzo, perché esso racconta innanzitutto il dramma di un uomo. Ma come non vi troviamo la soluzione di quelle spinose tematiche né uno schieramento fazioso dalla parte di uno dei fronti in lotta, così il protagonista della storia, benché difensore della vita contro tutti gli estremismi, non è un eroe del tutto positivo e rimane un personaggio problematico. Anche la moderazione quando è miope diventa una colpa. Il lettore, accompagnando il personaggio nel suo cammino autoconoscitivo, a poco a poco scopre che è un egoista e un bugiardo. È un uomo che ha mentito a sé stesso, ha vissuto col paraocchi in una gabbia dorata eludendo la realtà di un territorio dilaniato dalla guerra, ha scelto la carriera professionale rinunciando alla religiosità e rinnegando le proprie origini. «Chi sogna troppo dimentica di vivere» era il rimprovero della madre di Amin al marito che la trascurava per inseguire velleità artistiche. Questa frase terribilmente ambigua, in cui il sogno può essere interpretato sia come consolazione della fatica di vivere sia come accecamento di fronte alla realtà, vale tanto per il protagonista quanto per ogni tipo di ideologo e, più in generale, per chi disimpara a vedere l’altro essere umano, vivo e presente, per vedere solo ciò che vuole o crede di vedere in un possibile mondo a venire.
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