Immigrazione, asilo, solidarietà

La percezione di un’immigrazione montante è un dato di senso comune così diffuso da non essere mai posto in discussione. Lo stesso accade per il rapporto tra immigrazione e povertà. E pochi osano avanzare dubbi nei confronti dell’inossidabile slogan “aiutiamoli a casa loro”. In realtà, anche chi assume una posizione equilibrata accetta perlopiù l’inquadramento del fenomeno fornito da una rappresentazione largamente ostile. Il primo passo per un approccio serio alla questione consiste nel conoscere qualche dato fondamentale e interpretarlo adeguatamente.

Identificare gli immigrati: una questione non banale

L’immigrazione è antica come l’umanità, ma in epoca moderna è stata definita e regolata in rapporto al concetto di nazione e all’istituzione degli Stati nazionali. La costruzione delle identità nazionali si è basata sull’idea di comunità omogenee, solidali al loro interno e racchiuse entro confini ben definiti. Gli immigrati internazionali hanno sempre rappresentato un “inciampo” rispetto ai progetti di formazione di società coese sotto l’insegna della bandiera nazionale: sono stranieri, portatori generalmente di lingue e abitudini diverse da quelle localmente prevalenti, che vengono a insediarsi sul territorio della nazione (Ambrosini, 2014; 2017).

A partire da questa premessa, possiamo introdurre il concetto di “immigrato” così come viene definito dall’ONU: una persona che si è spostata in un paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel paese da più di un anno. La definizione include tre elementi: l’attraversamento di un confine nazionale; lo spostamento in un altro paese, diverso da quello in cui il soggetto è nato o ha vissuto abitualmente nel periodo precedente il trasferimento; una permanenza prolungata nel nuovo paese, fissata convenzionalmente in almeno un anno. Si intende chiarire così che l’immigrato non è un turista, un partecipante a un congresso di pochi giorni, un operatore commerciale che accede a una fiera o viaggia per incontrare dei clienti.

Nella vita quotidiana però la definizione assume una declinazione operativa sensibilmente diversa. Di fatto noi definiamo come “immigrati” solo una parte degli stranieri che risiedono stabilmente e lavorano nel nostro paese. Ne sono esentati non solo i cittadini francesi o tedeschi, ma pure statunitensi, giapponesi e coreani, anche quando ricadono nella definizione convenzionale di immigrato prima riportata. Raramente si contesta a un cittadino statunitense o giapponese il diritto di entrare, uscire e circolare nel nostro paese. Gli si consente senza troppi problemi di portare con sé la propria famiglia. Anche il riconoscimento dei suoi titoli di studio, benché non proprio agevole, gode di un trattamento preferenziale rispetto a quello a cui sono sottoposti i titoli in possesso dei cittadini di paesi più deboli.

Lo stesso vale per il termine “extracomunitari”, un concetto giuridico (non appartenenti all’Unione europea), diventato invece sinonimo di “immigrati”, con conseguenze paradossali: non si applica agli statunitensi, ma molti continuano a usarlo per i rumeni. Di fatto il termine ha recuperato la sua valenza etimologica: noi chiamiamo extracomunitari coloro che non fanno parte della nostra comunità intesa in senso lato, di cittadini del Nord del mondo: della nostra comunità di benestanti, se la vediamo in una prospettiva globale.

Immigrati (ed extracomunitari) sono dunque ai nostri occhi soltanto gli stranieri provenienti da paesi che classifichiamo come poveri, mai quelli originari di paesi sviluppati. Il concetto contiene quindi un’implicita valenza peggiorativa: in quanto poveri, questi stranieri sono minacciosi, perché potrebbero volerci portare via qualcosa, oppure sono bisognosi di assistenza, e quindi suscettibili di rappresentare un carico per la nazione; e comunque sono considerati meno evoluti e “civilizzati” di noi.

C’è però un’interessante eccezione: si riferisce ai cittadini di paesi di per sé classificabili come luoghi di emigrazione, ossia poveri e arretrati, ma individualmente riscattati dall’eccellenza nello sport, nella musica, nell’arte, o quanto meno negli affari. Pensiamo, per esempio, ai calciatori delle nostre squadre di serie A e B. Neanche a essi si applica l’etichetta di “immigrati”: il loro successo li ha affrancati da quella condizione di povertà che si associa intrinsecamente alla nozione di immigrato. Come ha detto qualcuno, “la ricchezza sbianca”. Il calciatore africano o l’uomo d’affari medio-orientale non allarma particolarmente le società riceventi, e anche le sue eventuali diversità, religiose o alimentari, sono ampiamente tollerate. La stessa rappresentazione della diversità, e della sua eventuale minaccia per l’identità culturale della società ricevente, non sembra coinvolgere i benestanti.

Possiamo quindi affermare che l’impiego del concetto di immigrato allude alla percezione di una doppia alterità: una nazionalità straniera e una condizione di povertà. Generalmente, quando un individuo o un gruppo riesce a liberarsi di uno di questi due stigmi, cessa di essere considerato un immigrato.

Siamo invasi dai rifugiati?

La guerra in Siria e Iraq ha costretto alla fuga circa cinque milioni di profughi. Solo una modesta minoranza secondo i dati dell’UNHCR (2016; 2017), mediamente i più attrezzati e selezionati, arrivano in Europa, ma questo basta a scatenare paure e rifiuti. In realtà l’84% delle persone costrette a lasciare le proprie case (65,6 milioni nel 2016, 20 al minuto, la metà circa minorenni) trova accoglienza in paesi del Terzo mondo. 40,3 milioni sono sfollati interni, accolti in altre regioni dello stesso paese. Gli altri 25 milioni sono perlopiù bene o male insediati nei paesi limitrofi. Meno del 10% arriva in Europa. Il Libano ha accolto più rifugiati siriani dei 28 paesi dell’UE messi insieme, con un’incidenza stimata oggi intorno ai 169 ogni 1.000 abitanti, oltre a 460.000 palestinesi conteggiati a parte, mentre la Giordania supera gli 80 su 1.000 e la Turchia sfiora i 40. Per offrire dei termini di paragone, si può ricordare che la Svezia è sopravanzata dal Ciad con circa 35 rifugiati ogni 1.000 abitanti, l’Italia si colloca sotto quota 6, con una stima di circa 350.000 rifugiati accolti a fine 2017. I termini di paragone in valori assoluti sono 2,9 milioni per la Turchia, 1,4 milioni per il Pakistan, 1 milione per il Libano, 980.000 per l’Iran, 940.000 per l’Uganda, 790.000 per l’Etiopia, mentre solo la Germania è in una posizione relativamente elevata in graduatoria con 670.000 persone accolte nel 2016. I paesi più poveri del mondo, tutti situati in Africa (Camerun, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Kenya, Sudan, Uganda) accolgono 4,9 milioni di rifugiati internazionali, pari al 28% del totale (UNHCR, 2017). Eppure in Europa e in Italia predomina l’idea dell’invasione di una folla incalcolabile di richiedenti asilo.

Considerazioni analoghe valgono per l’immigrazione in generale: il discorso pubblico ripete ogni giorno che siamo di fronte a un fenomeno gigantesco, in tumultuoso aumento, che proverrebbe principalmente dall’Africa e dal Medio Oriente e sarebbe composto soprattutto da maschi mussulmani. I dati disponibili ci dicono invece che l’immigrazione in Italia dopo anni di crescita è sostanzialmente stazionaria (appena +52.000 nel 2015), intorno ai 5,5 milioni di persone, che diventano 5,9 milioni tenendo conto delle stime sulle presenze irregolari (Fondazione Ismu 2016). Gli immigrati sono arrivati per lavoro in un primo tempo, poi per ricongiungimento familiare, con circa 1 milione di minori e 2,4 milioni di occupati regolari. Pochissimi per asilo, va ribadito: meno del 7% del totale. Le statistiche ci dicono, inoltre, che l’immigrazione in Italia è prevalentemente europea, femminile e proveniente da paesi di tradizione cristiana.Immigrazione_asilo_tabella_Ambrosini

Rappresentazione e realtà dell’immigrazione

La crisi economica sta condizionando le strategie dei migranti, e in modo particolare i nuovi arrivi. Mentre per circa trent’anni il mercato ha assorbito manodopera immigrata, obbligando governi di ogni colore a varare ben sette sanatorie in 25 anni, ora il sistema economico sta comunicando il messaggio che nella fase attuale non ha bisogno di nuovi lavoratori. Persino i ricongiungimenti familiari risentono dell’avversa congiuntura economica e le stesse nascite da genitori immigrati sono leggermente calate negli ultimi anni: erano 80.000 nel 2012, sono scese a 69.000 nel 2016. L’immigrazione in Italia nel suo complesso sta cercando di resistere alla persistente crisi economica e di mantenere per quanto possibile l’insediamento costruito negli anni precedenti.

Un problema su cui riflettere è dunque la divaricazione tra realtà e rappresentazione, l’attenzione selettiva verso una sola componente dei processi migratori, quella dei rifugiati, la confusione tra asilo e immigrazione in generale. Arrivi molto visibili, certo drammatici ma anche drammatizzati, hanno occupato il centro della scena, offuscando le altre componenti, molto più rilevanti, di un universo complesso e sfaccettato come quello delle migrazioni. Per dare qualche termine di paragone, a fronte di 350.000 rifugiati, gli immigrati titolari di partita IVA sono circa 570.000, le persone che lavorano presso le famiglie italiane sono stimate in circa 1,6 milioni, i cittadini stranieri che hanno ottenuto la naturalizzazione hanno raggiunto nel 2015 la cifra di 178.000 e nel 2016 hanno superato i 200.000 (IDOS, 2016; 2017).

Per di più, gli sbarchi solo negli ultimi due anni si stanno traducendo prevalentemente in richieste di asilo in Italia: in precedenza, la maggioranza passava le Alpi per chiedere protezione internazionale in altri paesi. Nel 2014, su 170.000 sbarcati meno di 70.000 avevano richiesto protezione internazionale al nostro governo. Le loro aspirazioni si incontravano con la tradizionale politica italiana in materia: favorire i transiti verso Nord, evitando il più possibile d’impegnarsi nell’assicurare protezione sul territorio nazionale. Poi l’UE ci ha imposto gli hotspots (i centri di identificazione dei migranti), i nostri vicini hanno inasprito i controlli alle frontiere, e le domande di asilo sono cresciute, raggiungendo nel 2016 la cifra di 123.482. La quota rispetto agli sbarchi è passata dal 37% del 2014 al 56% del 2015 al 68% nel 2016. Da qui all’invasione c’è ancora comunque molta strada.

Il governo italiano è stato molto attivo nei salvataggi in mare e le navi della Marina militare e della Guardia costiera hanno l’indubbio merito di aver salvato migliaia di vite umane, con il contributo di navi equipaggiate da organizzazioni umanitarie, da privati cittadini e dalla Marina di altri paesi: un’attività così notevole da aver innescato le note polemiche sui salvataggi in mare da parte delle ONG. Il punto cruciale consiste invece nelle accresciute difficoltà del passaggio verso Nord, giacché i paesi dell’Europa centro-settentrionale fanno pressione perché i rifugiati vengano identificati e accolti nei paesi di primo approdo, anche prelevando forzatamente le impronte digitali presso i cosiddetti hotspots. Gli accordi di redistribuzione faticosamente raggiunti nell’autunno 2015, e non con tutti i paesi membri dell’Unione europea, di fatto finora sono stati onorati pochissimo, con poche migliaia di reinsediamenti.

Poi è arrivata la svolta delle politiche governative nell’estate 2017. Il governo italiano, spalleggiato dall’UE, ha messo sotto controllo le attività delle ONG e stretto accordi con lo Stato libico e con le forze locali. Le partenze dalle coste libiche sono diventate più difficili e la Guardia costiera intercetta le imbarcazioni costringendo i migranti e richiedenti asilo a tornare indietro. Al riparo dai nostri sguardi, dalle telecamere e dal controllo di organizzazioni umanitarie e testimoni esterni, le persone in cerca di asilo vengono detenute in condizioni che tutte le fonti definiscono disumane. Quello che viene presentato e percepito come un “successo” nel controllo dell’immigrazione indesiderata è una tragedia dal punto di vista dei diritti umani. A fine 2017, gli sbarchi sono diminuiti del 34% rispetto al 2016, da 181.436 a 119.310.

Sul territorio italiano, per le persone che, una volta arrivate, hanno presentato domanda di asilo, la gestione del sistema di protezione continua a oscillare tra l’idea di un’“emergenza” da fronteggiare con interventi straordinari e quella di un fenomeno che va affrontato mediante l’allestimento di un “sistema” organico di accoglienza (Marchetti, 2014). Pur con queste precisazioni, l’enfasi sulla necessità di contenere i flussi non deriva da un’analisi obiettiva dei dati, ma dall’impatto che ha sull’opinione pubblica la visione televisiva dei salvataggi, dei naufragi e degli sbarchi sulle coste delle regioni meridionali. Alcuni attori politici si sono impadroniti dell’argomento, facendone materia di polemica e propaganda. D’altro canto, l’approdo dal mare di persone in cerca di asilo ha tutte le caratteristiche per scatenare le ansie e le preoccupazioni delle società riceventi: si tratta di stranieri che arrivano senza chiedere permesso e senza essere stati invitati, non hanno regolari documenti, e per di più una volta sbarcati chiedono assistenza e non possono essere respinti. Il vulnus nei confronti dell’idea di sovranità nazionale, di controllo dei confini e di sicurezza nei confronti di intrusioni dall’esterno non potrebbe essere più clamoroso.

Stiamo per essere sommersi dalla povertà del Terzo mondo?

Anche l’idea largamente diffusa di un nesso diretto tra povertà e migrazioni è ugualmente approssimativa. Certo, le disuguaglianze tra regioni del mondo, anche confinanti, spiegano una parte delle motivazioni a partire. Anzi, si può dire che i confini sono il maggiore fattore di disuguaglianza su scala globale. Pesano più dell’istruzione, del genere, dell’età, del retaggio familiare. Un bracciante agricolo nell’Europa meridionale guadagna più di un medico in Africa: questo fatto rappresenta un incentivo alla mobilità attraverso i confini.

Nel complesso però i migranti internazionali sono una piccola frazione dell’umanità: rappresentano all’incirca il 3,3% della popolazione mondiale: in cifre, intorno ai 244 milioni su oltre 7 miliardi di esseri umani (IDOS, 2016): una persona ogni 33. 76 milioni di essi, pari al 31,4%, risiedono in Europa, che è anche però terra di origine di 59 milioni di emigranti. Ciò significa che le popolazioni povere del mondo hanno in realtà un accesso assai limitato alle migrazioni internazionali, e soprattutto alle migrazioni verso il Nord globale. Il temuto sviluppo demografico dell’Africa non si traduce in spostamenti massicci di popolazione verso l’Europa o altre regioni sviluppate. I movimenti di popolazione nel mondo avvengono soprattutto tra paesi limitrofi o comunque all’interno dello stesso continente (87% nel caso della mobilità africana), con la sola eccezione dell’America settentrionale, che attrae immigrati dall’America centro-meridionale e dagli altri continenti.

In questo scenario, la povertà in senso assoluto ha un rapporto negativo con le migrazioni internazionali, tanto più sulle lunghe distanze. Le migrazioni sono processi selettivi, che richiedono risorse economiche, culturali e sociali: occorre denaro per partire, che le famiglie investono nella speranza di ricavarne dei ritorni sotto forma di rimesse; occorre una visione di un mondo diverso, in cui riuscire a inserirsi pur non conoscendolo; occorrono risorse caratteriali, ossia il coraggio di partire per cercare fortuna in paesi lontani, di cui spesso non si conosce neanche la lingua, di affrontare vessazioni, discriminazioni, solitudini, imprevisti di ogni tipo; occorrono risorse sociali, rappresentate specialmente da parenti e conoscenti già insediati e in grado di favorire l’insediamento dei nuovi arrivati. Come ha detto qualcuno, i poverissimi dell’Africa di norma non riescono neanche ad arrivare al capoluogo del loro distretto. Di conseguenza, la popolazione in Africa potrà anche aumentare, ma senza una sufficiente dotazione di risorse e senza una domanda di lavoro almeno implicita da parte dell’Europa, non arriverà fino alle nostre coste.

I migranti, dunque, come regola, non provengono dai paesi più poveri del mondo. Certo, gli immigrati arrivano soprattutto per migliorare le loro condizioni economiche e sociali, inseguendo l’aspirazione a una vita migliore di quella che conducevano in patria. Ma questo miglioramento è appunto comparativo, e ha come base una certa dotazione di risorse. Lo mostra, con una certa evidenza, uno sguardo all’elenco dei paesi da cui provengono. Per l’Italia, la graduatoria delle provenienze vede nell’ordine: Romania (1,2 milioni), Albania (450.000), Marocco (420.000), Cina (280.000), Ucraina (230.000) (IDOS, 2017). Nessuno di questi è annoverato tra i paesi più poveri del mondo, quelli che occupano le ultime posizioni nella graduatoria basata sull’Indice di sviluppo umano dell’ONU: un complesso di indicatori che comprende non solo il reddito, ma anche altre importanti variabili come i tassi di alfabetizzazione, la speranza di vita alla nascita, il numero di posti-letto in ospedale in proporzione agli abitanti. In generale, i migranti provengono prevalentemente da paesi collocati nelle posizioni intermedie della graduatoria. Per esempio negli Stati Uniti di oggi provengono in maggioranza dal Messico.

Per le stesse ragioni, i migranti non sono i più poveri dei loro paesi: mediamente, sono meno poveri di chi rimane. E più vengono da lontano, più sono selezionati socialmente. Chi arriva da più lontano, fra l’altro, necessita di un progetto più definito e di lunga durata, non può permettersi di fare sperimentazioni o andirivieni: deve essere determinato a rimanere e a lavorare per ripagare almeno le spese sostenute e gli eventuali prestiti ricevuti. Ha anche bisogno di teste di ponte più solide, ossia di parenti o connazionali affidabili che lo accolgano e lo aiutino a sistemarsi.

Un caso per certi versi opposto è quello di una categoria di emigranti emersa nel dibattito recente, quella dei rifugiati ambientali. Il concetto sta conoscendo una certa fortuna, perché consente di collegare la crescente sensibilità ecologica, la preoccupazione per i cambiamenti climatici e la protezione di popolazioni vulnerabili del Sud del mondo. Ora, è senz’altro vero che ci sono nel mondo popolazioni costrette a spostarsi anche per cause ambientali, direttamente indotte come nel caso della costruzione di dighe o di installazioni petrolifere, o provocate da desertificazioni, alluvioni, avvelenamenti del suolo e delle acque. Ma le migrazioni difficilmente hanno una sola causa, e le crisi ambientali si sommano semmai ad altre cause di fragilità. Inoltre, che questi spostamenti forzati si traducano in migrazioni internazionali, soprattutto sulle lunghe distanze, è molto più dubbio. È più probabile che i contadini scacciati dalla loro terra ingrossino le megalopoli del Terzo mondo, anziché arrivare in Europa. Va aggiunto che l’esodo dal mondo rurale è una tendenza strutturale, difficile da rovesciare, in paesi in cui la popolazione impegnata nell’agricoltura supera il 50% dell’occupazione complessiva.

Concludendo, vale la pena di ribadire alcuni concetti per intraprendere una seria discussione sulle migrazioni. In primo luogo, non confondere immigrazione e asilo, non mescolare sbarchi e immigrazione. Va ricordato: i richiedenti asilo sono una piccola quota rispetto agli immigrati, e gli sbarchi nemmeno oggi si traducono sempre e immediatamente in richieste di asilo. Chi non presenta domanda di asilo non aspira a una vita da fantasma nel nostro paese, ma cerca di valicare le Alpi. Gli immigrati irregolari, i cosiddetti “clandestini” sono perlopiù donne che lavorano presso le famiglie italiane: talmente utili che riusciamo a scordarcene, quando si tratta di verificare la regolarità del soggiorno.

Secondo: meglio non parlare di immigrazione in generale, ma di categorie specifiche. Se si segmenta la massa amorfa e temuta dell’immigrazione e si focalizza l’attenzione su gruppi ben individuati, almeno una parte delle ansie può sgonfiarsi. È molto più serio discutere di cittadini europei mobili, di studenti, di infermiere, di assistenti familiari dette volgarmente badanti, di investitori, di gente che lavora in occupazioni lasciate scoperte dagli italiani, di persone che fuggono da guerre e persecuzioni. Alla fine dell’esercizio, ci si accorgerà che dell’immigrazione incontenibile e temuta resterà ben poco.

Da ultimo, se bisogna parlare di rifugiati, va ricordato sempre il dato ripetuto incessantemente dalle istituzioni che se ne occupano: l’84% trova asilo in paesi del Terzo mondo, l’Europa in realtà si difende dai propri impegni umanitari.

Riferimenti bibliografici

  • Ambrosini, M. (2013), Immigrazione irregolare e welfare invisibile. Il lavoro di cura attraverso le frontiere. Bologna: Il Mulino.
  • Ambrosini, M. (2014), Non passa lo straniero? Le politiche migratorie tra sovranità nazionale e diritti umani. Assisi: Cittadella.
  • Ambrosini, M. (2017), Migrazioni, Milano: EGEA.
  • Caritas e Migrantes (2016), XXV Rapporto Immigrazione 2015. Todi (PG): Tau editrice.
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  • Fondazione Ismu (2016), Ventiduesimo Rapporto sulle migrazioni 2016, Milano, FrancoAngeli.
  • Marchetti, C. (2014), “Rifugiati e migranti forzati in Italia. Il pendolo tra ‘emergenza’ e ‘sistema’”, REMHU - Rev. Interdiscip. Mobil. Hum., vol. 22, no 43: 53-70.
  • UNHCR (2016), Global trends. Forced Displacement in 2015, Geneva, UNHCR.
  • UNHCR (2017), Global trends. Forced Displacement in 2016, Geneva, UNHCR.

Referenze iconografiche: sun ok/Shutterstock

Maurizio Ambrosini

È docente di Sociologia delle migrazioni all’Università degli Studi di Milano. Insegna inoltre da diversi anni all’Università di Nizza. È responsabile scientifico del Centro studi Medì di Genova, dove dirige la rivista “Mondi migranti” e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni, che giunge nel 2018 alla 14a edizione. È consulente dell’ISPI e collabora con “lavoce.info”. Dal luglio 2017 è stato chiamato a far parte del CNEL in qualità di esperto. È autore, fra vari altri testi, di Sociologia delle migrazioni, manuale adottato in parecchie università italiane. Suoi articoli e saggi sono usciti in riviste e volumi in inglese, spagnolo, francese, tedesco, portoghese e cinese. Ha pubblicato ultimamente Irregular immigration in Southern Europe (Palgrave, 2018); Migrazioni (EGEA, 2017); Non passa lo straniero? Le politiche migratorie tra sovranità nazionale e diritti umani (Cittadella, 2014); Migrazioni irregolari e welfare invisibile. Il lavoro di cura attraverso le frontiere (Il Mulino, 2013).