Razzismo e diversità culturale
Il punto di vista della sociologia e dell’antropologia
Voci a confronto di due grandi esperti sul tema sempre attuale del pregiudizio razziale e del complesso rapporto tra differenti culture.
Perché il razzismo continua ad essere un fenomeno così diffuso?
Per scienze sociali quali l’antropologia e la sociologia, il razzismo e, più in generale, la complessità della relazione con la diversità culturale, rappresenta una sfida che si rinnova di generazione in generazione. In maniera forse non troppo diversa per quanto accade alle generazioni di esseri umani, gli studiosi sono condannati a risolvere continuamente le stesse questioni. In fondo, come racconta bene il mito di Sisifo, la roccia che portiamo in cima alla montagna non è che la questione della comprensione e convivenza reciproca tra persone differenti, questione che rotola giù in continuazione e ci condanna a ripensarla in eterno. Perché è così difficile, dunque, per uomini e donne riconoscersi unicamente in quanto esseri umani, anziché cercare continuamente linee di divisione e di frattura lungo le quali arroccarsi e giudicare gli altri?
In questo testo a due voci, vi suggeriamo due insiemi di risposte che prendono spunto dalle nostre rispettive discipline, per poi concludere con una visione unitaria.
IL PUNTO DI VISTA DELLA SOCIOLOGIA
Etnocentrismo e razzismo: gli andamenti dei pregiudizi
La sociologia delle relazioni interpersonali, interetniche e del razzismo documenta da sempre l’andamento quasi sinusoidale dell’etnocentrismo. Non vi è mai stato un momento in cui abbiamo potuto dirci liberi da pregiudizi razziali o da idee preconcette nei confronti di chi, di volta in volta, ci appariva diverso da noi, eppure gli andamenti di questi pregiudizi, cioè la loro diffusione tra la popolazione, hanno subìto abbassamenti e innalzamenti. Per molto tempo abbiamo creduto, e lo crediamo ancora, che un aumento dei livelli di istruzione serva ad abbassare i pregiudizi negativi nei confronti degli altri, perché è sempre stata una convinzione radicata nella cultura illuministica e non solo, quella secondo cui i pregiudizi non fossero altro che forme di ignoranza collettiva. Se così fosse, però, il razzismo e l’etnocentrismo dovrebbe tendenzialmente sparire, se è vero che l’analfabetismo di massa è stato fortunatamente debellato, e se è altrettanto vero che mai come in questo momento abbiamo raggiunto dei livelli di istruzione così elevati (si può fare molto di meglio, è certo, eppure siamo molto più mediamente istruiti dei nostri genitori e nonni). E invece magari scompaiono alcune forme di credenza errata, ma ne compaiono delle altre. Per esempio, si sono affievoliti gli stereotipi tra abitanti europei, come quelli tra italiani e francesi, o francesi e belgi, però sono cresciuti a dismisura quelli contro i musulmani (quella che chiamiamo anche islamofobia). La paura per gli asiatici da parte dei bianchi occidentali, che era stata molto forte in tutta la prima parte del Novecento, ora ha preso forme differenti ma meno violente del passato, mentre ancora oggi i pregiudizi contro rom, sinti e camminanti sono fortissimi e sfociano spesso in episodi violenti. Forse allora non è solo questione di livello di istruzione e di diffusione di una cultura cosmopolita. Non è nemmeno il contatto reciproco a poterci garantire che riconosceremo nell’Altra e nell’Altro quello che ci unisce, anziché quello che ci divide: mai come ora si viaggia a livello planetario, e dunque si entra in contatto con persone differenti, e non vi è mai stata nella storia dell’umanità una massa di turisti simile a quella attuale, eppure spesso si torna nelle nostre case con convinzioni e pregiudizi inalterati. Il viaggio non è garanzia di scoperta, così come il contatto non smussa necessariamente le nostre idee preconcette.
Pregiudizi e comportamenti reali
Se ci fermassimo qui, immaginiamo che la delusione e lo scoraggiamento prenderebbero il sopravvento. Oppure potremmo fare un passo di lato e riflettere più da vicino sul significato del pregiudizio, da un lato, e sulla distanza che lo separa dal comportamento, dall’altro. Se infatti guardiamo con attenzione ai pregiudizi, questi ci mostrano come non siano solo o unicamente delle molecole di idee sbagliate che si uniscono tra loro, ma anche dei modi per orientarci in territori che ci sembrano troppo complicati e inquietanti. I pregiudizi danno un ordine al mondo, collocano ciascuna e ciascuno dentro degli scaffali da cui possiamo pescare per collocare anche noi stessi. Pensiamo così di essere più vicini ad altri, solo perché condividiamo qualche idea rispetto al sacro e al profano (ma poi chissà se è vero realmente), e questo ci rassicura, così come è anche rassicurante poter condividere un potenziale nemico con altre persone. Se il pregiudizio è orientamento, è però anche vero che non trova una traduzione automatica nel comportamento. Ciò che le persone dicono non è ciò che le persone fanno. E anzi, spesso le persone non sono nemmeno troppo consapevoli delle proprie pratiche quotidiane, così come possono essere serenamente ambigue rispetto a ciò che dicono e ciò che fanno. Nella vita di tutti i giorni, infatti, incontriamo individui con i quali intratteniamo relazioni cordiali, ricche emotivamente, significative, e questo indipendentemente dal loro colore di pelle, forma degli occhi o qualsiasi altro elemento distintivo. Quando abbiamo a che fare con persone in carne ed ossa, spesso diventiamo molto più aperti, plastici, curiosi. Ecco dunque che dovremmo interessarci di più alla dimensione pragmatica, quotidiana, quella in cui le persone sono per davvero confrontate alla diversità, trovando di volta in volta soluzioni innovative e interessanti.
IL PUNTO DI VISTA DELL’ANTROPOLOGIA
La naturalizzazione delle differenze
La prima tentazione nel chiederci perché il razzismo continui a essere un fenomeno così diffuso e importante nel mondo contemporaneo è quella di fare ricorso a motivi pragmatici, economici, strategici. Siamo razzisti verso i migranti perché ci siamo chiusi in una sorta di “fortino” – qualcuno parla di “fortezza Europa” – fatto di privilegi e vantaggi. Insomma, non vogliamo dividere la torta con altri più poveri di noi. È un’idea da non buttare: in effetti, se pensiamo alla parola “extracomunitario”, spesso impiegata con il significato di “migrante”, “povero”, “marginale”, ci rendiamo conto che essa non viene quasi mai utilizzata per definire un cittadino statunitense o svizzero.
La ragione economica, tuttavia, spiega soltanto in parte la presenza del razzismo. L’antropologia sottolinea molto il tema della “naturalizzazione” delle differenze. L’essere umano nasce alquanto incompleto: siamo nudi alla nascita, non possediamo praticamente alcuna abilità che ci possa far sopravvivere. Dobbiamo affidarci agli altri: per nutrirci, per scaldarci, per imparare a parlare, persino per capire come esprimere le nostre emozioni. Gli antropologi chiamano “cultura” tutto quel complesso insieme di saperi che noi acquisiamo in quanto facciamo parte di una certa società. possiamo dire che la cultura ci modella, ci dà forma, ma non lo fa in modo universale, bensì attraverso saperi, abilità – pensate alle lingue – sempre, almeno un po’, differenti. Siamo esseri culturali, ma non esiste LA cultura bensì un insieme variegato di culture, tutte adatte a costruirci come esseri umani. E qui sta il punto. La “naturalizzazione” della nostra cultura è quel fenomeno per cui pensiamo di essere i più razionali, i più intelligenti, i più evoluti tra gli esseri umani: siamo etnocentrici e l’etnocentrismo è uno dei motori del razzismo.
Le “vie di fuga” dalla nostra cultura
Un altro aspetto del razzismo nasce dalla paura del nuovo, delle “contaminazioni”, del meticciato. I regimi politici razzisti e dittatoriali, non a caso, hanno sempre avuto timore dei matrimoni cosiddetti “misti”. Soprattutto in periodi di crisi economica, sociale e ambientale, come quello che stiamo vivendo, la “novità” spaventa e lo status quo, fatto di categorie fisse e naturali, appare a molti più rassicurante.
Che fare allora? Vivere concretamente con persone in carne e ossa un po’ diverse da noi, dice la sociologia, è un buon punto di partenza per apprezzare la varietà culturale. Coltivare le esperienze che ci portano “fuori” dai confini della nostra cultura è un altro buon modo di combattere il razzismo. Percorrere vie di fuga dal “noi” quotidiano: leggere un bel romanzo, per esempio, ci permette di immergerci in un’altra realtà. Lasciarci catturare da un film che ci porta “altrove”, essere autoironici, ascoltare molto quello che gli altri ci raccontano, viaggiare lontano ma anche soltanto in un altro quartiere della nostra città, osservando, parlando con le persone, lasciandoci catturare dalle loro storie. La formazione dovrebbe consistere in gran parte nel percorrere delle vie di fuga dalla nostra cultura e nel provare ad allontanarci almeno un po’ dalla nostra “identità”.
Conclusione
Una delle abilità di Zeus consisteva nella capacità di prendere altre forme, umane e non umane. Come spesso avviene, i miti ci dicono molto di noi. Gli esseri umani, infatti, attraverso l’immaginazione, la letteratura, il viaggio, il sogno e molte altre attività possono “mettersi nei panni degli altri”. La sociologia, l’antropologia e altre scienze sociali ci aiutano a uscire almeno un po’ da noi stessi per capire altri punti di vista. Non sarà risolutivo, ma è un buon antidoto al razzismo.
Referenze iconografiche: Attivisti in una manifestazione per i diritti umani.
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