Santa Margherita Ligure, settembre 1938
La solidarietà contro l’intolleranza e l’indifferenza
Il racconto che vi proponiamo rappresenta uno spunto interessante per riflettere sul tema dell’Olocausto in classe. Nella rubrica “Libri in classe” proponiamo sullo stesso argomento un percorso di letture più articolato, tra albi illustrati, racconti e romanzi, che indaga il processo di discriminazione e disumanizzazione dell’individuo.
Una bambina di otto anni cammina di fianco alla mamma, su per la salita che dal mare porta alla stazione. La mamma sta leggendo il Corriere della Sera – è strano che legga camminando, non si fa, potrebbe inciampare! – ed è insolitamente accigliata. Non sorride, non si diletta con i giochi di parole e le filastrocche buffe che spesso accompagnano le sue passeggiate.
Non sorride perché un titolone a piena pagina dice, sotto l’occhiello «Il Consiglio dei ministri per la difesa della razza: INSEGNANTI E STUDENTI EBREI ESCLUSI DALLE SCUOLE GOVERNATIVE E PAREGGIATE». E appena sotto: «I giudei cesseranno di far parte delle Accademie e delle associazioni di scienze, lettere e arti – il Gran Consiglio preciserà globalmente la posizione degli ebrei della Nazione».
La bambina allunga il collo e riesce a leggere. A lei andare a scuola piace, la quarta elementare l’aspetta, l’aspettano le sue compagne di classe! Adesso è accigliata anche la bambina: perché, mamma, perché?
La mamma taglia corto, come fanno gli adulti quando sono in difficoltà e sentono di non essere in grado di dare spiegazioni. Non ti preoccupare, troveremo un’altra scuola, una privata, ti piacerà, ti troverai bene. Cerca di tranquillizzare la figlia, ma è angosciatissima: che ne sarà di loro tutti, che cosa sta succedendo? È un’insegnante di lettere e latino, lavora in una scuola pubblica di Milano, dovrà lasciare il posto. Suo marito lavora in una cartiera – per quello si sono trasferiti da poco a Milano, da Genova. Verrà licenziato anche lui, nel giro di breve tempo.
La bambina si chiama Silvia. È magrolina, minuta, capelli castani chiari. Sa di essere una scolara come tutte le altre, però anche un pochino diversa. Ha una sorella maggiore che si chiama Cecilia, ha dodici anni, è bruna, molto più robusta di lei. Cecilia la prende in giro dicendole che è una secchiona, una sgobbona. Litigano: insomma, due sorelle normalissime. Però a scuola quando le altre pregano e si fanno il segno della croce loro stanno ferme, e in silenzio. A Natale non fanno pranzi o cenoni, niente presepi, a Pasquetta non vanno a fare la scampagnata con pizze e focacce. Le loro feste sono il Channukka, quando accendono una candela ogni giorno per otto giorni finché il candelabro non splende con nove luci, lo Yom Kippur, il giorno dell’espiazione quando gli adulti digiunano e ai bambini viene chiesto di comportarsi bene e di non bisticciare («Almeno oggi, vergognatevi!»), e tante altre dai nomi così, un po’ esotici.
Ma l’unica differenza con le altre ragazzine è questa. Silvia e Cecilia sono nate in una famiglia di ebrei laici, abituate a confrontarsi con quel mondo che crede nello stesso Dio loro, ma ha preghiere e abitudini religiose diverse. Non hanno mai avuto problemi, in Italia gli ebrei per tradizione hanno vissuto esistenze molto più sicure e tranquille che altrove.
Solo, ogni tanto, piccoli episodi spiacevoli. Lo sguardo severo che entrando in classe il vescovo in visita alle elementari di via Rasori a Milano ha scoccato a Silvia, che non si è fatta il segno della croce in sua presenza – ma poi la maestra lo ha distratto parlandogli nell’orecchio ed è tutto finito lì. Oppure quella voce dal banco dietro al suo: «La Calderoni è ebrea, e gli ebrei hanno ucciso Gesù». Silvia, che è molto timida, ha lanciato un’occhiata spaurita al crocefisso appeso al muro e ha formato con le labbra parole mute: «Gesù, io non ti ho fatto niente!»
Sono però appunto faccenduole isolate, rare. Per il resto è una vita felice: le gite in montagna, i bagni al mare, le feste con i tanti cugini, una famiglia molto unita con un padre mite, taciturno e affettuosissimo, e quella mamma insegnante dal carattere vivacissimo, spiritosa, un po’ eccentrica e ribelle alle convenzioni.
Ma nell’ultimo anno, prima di quel disgraziato giorno di settembre e di quella camminata verso la stazione ferroviaria di santa Margherita Ligure – dove la famiglia è in vacanza – qualcosa è cambiato. Sui giornali si parla sempre più spesso degli ebrei, e in termini sprezzanti, negativi: gli ebrei sono avidi e infidi, non hanno patria, tramano per dominare il mondo. Eppure, non è cambiato nulla: gli ebrei italiani sono sempre gli stessi, dai paesi dove gli ebrei sono già perseguitati (dalla Germania, dai paesi dell’Europa orientale, dove l’antisemitismo è radicato e violento) sono arrivati profughi, ma sono ben inseriti, la popolazione li ha accolti con simpatia, non ci sono mai stati problemi.
La campagna di stampa è stata molto violenta, e si sa che le masse si lasciano facilmente influenzare. E così, quando nel luglio del 1938 compare un “Manifesto della Razza” firmato da 10 scienziati italiani, ben pochi – a parte le vittime di questi proclami – si indignano apertamente. Insomma, questi ebrei qualcosa devono aver fatto, altrimenti perché nessuno li vuole?
Tuttavia, solo una parte relativamente esigua degli ebrei fugge dall’Italia. Gli altri pensano: ma non è possibile che ci succeda qualcosa di grave, qui siamo sempre stati bene, è un momento così, passerà.
Invece non passa. La mamma però non ha mentito a Silvia e nemmeno a Cecilia (che a dir la verità è un po’ meno smaniosa di andare a scuola, il ginnasio è così faticoso!): in fretta e furia la comunità ebraica di Milano si organizza, la piccola scuola che ha sede in due palazzine di via Eupili passa dall’accogliere pochi alunni ad accoglierne centinaia – tutti scacciati dalle scuole del Regno – si raccattano in qualche modo sedie e tavoli. Il 7 novembre 1938 iniziano le lezioni. Trovare gli insegnanti non è certo stato un problema, ci sono tanti professori lasciati a spasso dalle leggi razziali, alcuni sono docenti universitari, e dopo la guerra si ricorderà quanto fossero stati eccezionali – dal punto di vista del livello didattico – quegli anni umanamente così tristi.
Ecco, la scuola funziona, ma nei cuori delle ragazzine c’è una ferita aperta. Le amiche e le compagne sono sparite. Silvia e Cecilia, come tante loro coetanee ebree, aspettano telefonate che non arrivano. Aspettano visite, ma nessuno, o quasi, viene a suonare alla porta. È un ricordo brutto, difficile da cancellare. Nessuno che chiami per dire: «Non è giusto. Mi dispiace. Io non sono d’accordo. Ci manchi».
Anzi, quando incontrano per strada una ex compagna di classe, quella gira la testa dall’altra parte, e lo stesso fanno i suoi genitori. Nemmeno dalle maestre o dalle insegnanti arriva una parola di conforto. Che dolore. Forse si vergognano? O forse pensano che in fondo c’è una legge che dice che gli ebrei non appartengono alla razza italiana, che devono vivere separati, e se lo dice la legge non c’è niente da fare, sarà giusto anche se magari di primo acchito sembra ingiusto. Alle leggi si obbedisce, le ha firmate il Re d’Italia, no? E pazienza se sono le leggi di una dittatura, e non un volere espresso dal paese.
La mamma di Silvia e Cecilia – si chiama Irma, e in casa per celia la chiamano “Irma la rossa” perché a lei il fascismo non è mai piaciuto – resta a casa, invece. Decide di non andare a insegnare alla scuola ebraica: non se la sente di prendere impegni in un momento simile, lei e le sue tre sorelle con i rispettivi mariti continuano a tenere riunioni di emergenza per capire che cosa fare. Restare in Italia? Andare via, lasciando il paese in cui si è sempre vissuti, lasciare la casa, gli amici?
Alla fine le tre sorelle di Irma con le famiglie partono, e questa volta per fortuna una rete di conoscenti le aiuta a fuggire all’estero, nonostante le leggi. Qualcuno si prenderà cura delle loro cose, qualcuno li aiuterà con i documenti, qualcuno li aiuterà a vendere gli oggetti preziosi e a mettere via il gruzzolo che servirà a mantenersi nell’esilio dalla durata incerta.
Silvia e Cecilia restano. Vanno a scuola, studiano, anche se nel frattempo è iniziata la guerra. Poi, quando i bombardamenti su Milano si fanno più intensi se ne devono andare con gli altri sfollati. Un’altra persona che non ha paura di violare una legge che reputa ingiusta prende in affitto una casa a Santa Margherita Ligure a proprio nome, e poi ci manda a stare le ragazze Calderoni, con i genitori: in quanto ebrei, a loro non sarebbe concesso stipulare il contratto.
Nel 1943 cade il fascismo, è luglio, per poche settimane si pensa che sia tutto finito, che sia finita la guerra, che le leggi contro gli ebrei verranno cancellate, che si tornerà a parlare di libertà, invece il peggio deve ancora venire. Arrivano i tedeschi e a quel punto non ci sono freni, l’emarginazione e le umiliazioni si trasformano in massacro. Ma per fortuna quando il pericolo diventa enorme e mortale spuntano tanti eroi che antepongono le loro leggi morali a quelle inique del regime. Quando i nazifascisti si ritirano e la guerra finisce, le due ragazzine e i genitori tornano a casa sani e salvi. Non dimenticheranno mai la gratitudine nei confronti di chi li ha salvati o ha semplicemente avuto il coraggio di non abbandonarli come appestati, e la viltà di chi ha assistito con indifferenza a quell’ingiustizia colossale.
Quelle due ragazzine erano mia zia e mia madre; la loro mamma era mia nonna Irma. Questa storia è realmente accaduta nel nostro paese, e io ho scelto di non dimenticarla mai.
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