Alcune riflessioni sulle conseguenze economiche della guerra in Ucraina

I dati, gli aspetti critici, gli scenari

L'analisi dei dati economici offre interessanti spunti di riflessione sulla crisi in corso e consente di prefigurare alcuni scenari.

Non è obiettivo di questo scritto fare un’analisi geopolitica di una situazione ancora in evoluzione, né tanto meno avventurarsi in previsioni sul futuro, quando tutto è incerto e in divenire. Molto più cautamente, l’obiettivo è evidenziare i possibili effetti – di breve, medio, lungo periodo – che la crisi ucraina potrebbe avere sul sistema economico.
La crisi del Covid-19 ha già posto all’ordine del giorno rilevanti dibattiti sul ruolo dello Stato in economia, sulla necessità di una visione ecologica così come sul ruolo delle catene globali del valore e della tecnologia, portando all’attenzione le direzioni da prendere, quantomeno per l’Unione europea, per progredire negli anni a venire. Questi elementi sono raccolti intorno all’ambizioso programma Next Generation EU, ripresi nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). C’è da chiedersi però come le carte in tavola verranno cambiate o se, paradossalmente, questa guerra potrà accelerare alcuni processi già in corso.

I dati economici in campo

È opportuno prendere le mosse da alcuni dati relativi ai paesi coinvolti, presi dal World Development Indicator della Banca Mondiale.
In termini di popolazione, la Federazione Russa con 150 milioni circa di abitanti nel 2020, è circa tre volte più grande dell’Ucraina (44 milioni). Anche se la densità di popolazione di quest’ultima (76.2 ab. per kmq) è più di 8,5 volte quella Russa (8.8).
Il PIL pro-capite russo era, in termini reali nel 2020, calcolato in dollari internazionali a parità di potere d’acquisto (ppp), di circa 26.456, più del doppio di quello ucraino che era di circa 12.375 dollari ppp.
Negli ultimi 20 anni, i tassi di crescita dei due paesi sono allineati, anche se l’Ucraina, dopo la crisi finanziaria, ha visto il suo PIL ridursi di ben il 10% sia nel 2014 che nel 2015, in concomitanza con la prima crisi. C’è però da sottolineare che in Russia c’è un forte livello di diseguaglianza: la Banca Mondiale calcolava nel 2017 un indice Gini di 0.375 contro un 0.266 dell’Ucraina (la diseguaglianza massima dà un valore 1), dandoci come indicazione che il reddito russo è più sperequato e in mano ad una più ridotta fetta della popolazione.
In termini di valore aggiunto per entrambi i paesi i settori servizi (alle imprese e alle persone) rappresentavano il 55% circa del PIL. Per l’Ucraina è ancora rilevante il settore primario (quasi il 10% del PIL, infatti è uno dei maggiori produttori di grano al mondo), mentre per la Russia l’industria in senso lato conta per quasi il 30% del PIL. Tuttavia, questo valore nasconde che per Mosca le rendite da petrolio e gas rappresentano circa il 12% del PIL: la produzione industriale è strettamente legata all’estrazione di materie prime.
Entrambi i paesi sono alle porte dell’Unione europea (l’Ucraina in particolare confina con Polonia, Slovacchia, Ungheria e Romania), che è per entrambi il partner principale nell’import-export, in particolare per i prodotti agricoli e minerali ucraini e per le forniture di gas e petrolio russi. Gli interscambi più importanti sono proprio con Germania, Francia e Italia.

Il ruolo dell’Italia

L’Italia ha un forte legame con entrambi i paesi. Dall’Ucraina importiamo prodotti dell’agricoltura, alimentari e della metallurgia (metalli di base e prodotti in metallo, nel 2020 circa il 64% delle nostre importazioni), mentre esportiamo prodotti alimentari, articoli di abbigliamento, prodotti chimici, ma soprattutto macchinari e apparecchiature (22% circa del nostro export). Per gli ucraini eravamo, nel 2020, il settimo cliente e l’ottavo fornitore (il 4% circa delle importazioni e delle esportazioni ucraine erano targate Italia), ma per noi l’economia ucraina rappresenta solo il 42esimo cliente e il 36esimo fornitore.
Diverso per composizione e ordine di grandezza è l’import-export con la Russia. Da Mosca importiamo prodotti delle miniere (circa il 60% del nostro import), chimici e della metallurgia, oltre a carbone e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio. Esportiamo tutti gli articoli classici del made in Italy, tessile e abbigliamento, prodotti alimentari, mobili, prodotti farmaceutici, articoli in gomma e materie plastiche, apparecchiature elettriche, autoveicoli, rimorchi e semirimorchi e altri mezzi di trasporto (navi e imbarcazioni, locomotive e materiale rotabile). L’economia russa è un nostro importante partner: è il nostro decimo fornitore (soprattutto di gas) e quattordicesimo cliente. Allo stesso tempo siamo un loro partner importante: quinto fornitore e decimo cliente.
È chiaro quindi che le relazioni commerciali con entrambe le economie sono più interindustriali (scambiamo beni di settori diversi) che intra-industriale (beni dello stesso settore). Entrambi i paesi sono importanti mercati di sbocco delle nostre merci e i due paesi sono per noi fornitori di materie prime essenziali, soprattutto gas e petrolio se guardiamo alla Russia.

C’è quindi da chiedersi quali possano essere le conseguenze economiche di questa guerra, in generale a livello mondiale e in particolare per l’economia europea e quella italiana.

I profughi

A brevissimo termine, il primo effetto della guerra è un flusso crescente di civili in fuga dalle zone di combattimento. Ad oggi (3 marzo 2022), l’Organizzazione internazionale per la migrazione ha stimato che il 30% circa della popolazione ucraina (12 milioni di persone) ha bisogno di aiuti umanitari. Di questi, 4,3 milioni sono migranti interni, novecentomila hanno già attraversato le frontiere dell’Unione europea (gran parte diretti in Polonia). Si stima che 4 milioni di abitanti si sposteranno nei paesi vicini nelle prossime settimane.
Dopo una prima fase emergenziale, la gestione dei profughi riguarderà tutte le economie dell’Unione e dovrà essere affrontato anche attraverso il bilancio comunitario.
L’effetto economico sarà soprattutto sui bilanci dei singoli stati, già aggravati dalla crisi del Covid-19 e sulla gestione di un fenomeno che potrebbe protrarsi nel tempo.

Il costo delle materie prime

Il secondo effetto di brevissimo termine è dato dall’aumento del costo delle materie prime.
Il Brent, il prezzo europeo del petrolio grezzo, aveva raggiunto il suo minimo nell’aprile del 2020, durante la prima ondata del Covid-19, per poi iniziare a crescere con lentezza man mano che le attività produttive riprendevano a pieno ritmo.
Il 2021, con l’eccezione evidente dovuta alla comparsa della variante Omicron, è stato caratterizzato da una crescita continua nei corsi: il prezzo è passato dai 40 di inizio anno ai 78 dollari al barile di fine 2021. La vera accelerazione si è avuta da dicembre 2021 (ben prima della guerra), dovuta a una concomitanza di fattori: la transizione ecologica (che ha spinto diversi produttori a iniziare una conversione, limitando l’offerta) e l’aumento della domanda mondiale. La guerra ha avuto quindi un effetto dirompente, riportando il prezzo al barile sopra i 100 dollari, cosa che non succedeva dal 2014.

Anche il prezzo del gas ha visto i suoi corsi aumentare negli ultimi giorni.
Il Natural Gas EU Dutch TTF, il prezzo di riferimento in Europa, è passato in pochi giorni da 75 a 160 euro/MWh, segno della possibilità che il Governo russo riduca l’offerta.
L’effetto sulle economie europee (Germania e Italia in prima fila) è dirompente. L’energia è un input essenziale per tutte le produzioni, e l’aumento dei costi si scarica immediatamente su tutti i prezzi di produzione. Allo stesso tempo, il gas è rilevante nel paniere di consumo delle famiglie (lo usiamo sia per riscaldare che per cucinare) e l’aumento del suo prezzo non può che riversarsi sul potere di acquisto.
Nel breve periodo il problema è strutturale: importiamo il gas attraverso gasdotti e quindi siamo strettamente legati alla fornitura russa. Inoltre, rispetto a paesi come la Spagna, non abbiamo puntato sui rigassificatori, che ci permetterebbero di acquistare il nostro fabbisogno di gas da altri paesi in forma liquida. Tuttavia, questa crisi energetica potrebbe spingerci ancor più verso l’uso di risorse rinnovabili, aggiungendo all’obiettivo di contrastare i cambiamenti climatici anche quello della sicurezza/autonomia nazionale. Infine, è da sottolineare che il problema non è solo italiano e potrebbe essere l’intera Unione ad andare nella direzione di una gestione comunitaria delle risorse energetiche.

L’inflazione

L’aumento delle materie prime (come abbiamo detto, precedente alla guerra) ricadrà sui prezzi e quindi sull’inflazione per l’intera area euro. Possiamo aspettarci che, se non calmierati, l’aumento del costo delle materie prime rafforzerà l’aumento dell’inflazione che si è visto da metà del 2021.
A febbraio del 2022, l’inflazione è stata del 5.8% in tutta l’area euro in aumento rispetto al 5.1% di gennaio. È evidente che la Banca Centrale Europea sia combattuta fra mantenere bassi i tassi di interesse, per rispondere alla turbolenza dei mercati dovuta al conflitto e per sostenere i debiti pubblici (come quello italiano), o aumentarli (così come si pensava fino a qualche settimana fa) per contrastare la crescente inflazione.
Se il trend sull’inflazione venisse mantenuto nei prossimi mesi, potremmo raggiungere una media su base annua del 5%, molto superiore al target statutario della BCE (il 2%). Bisogna inoltre tener presente che l’aumento dell’inflazione colpirà particolarmente le famiglie a basso reddito, indebolendo la domanda già duramente colpita da due anni di pandemia.

Le catene globali del valore

Dobbiamo chiederci se la guerra porterà a una riorganizzazione delle catene globali del valore.
Le catene di produzione si sono allungate e ramificate allo scopo di sfruttare le economie di scopo e di scala disponibili in altre parti del mondo, collegando materie prime, semilavorati, design, pubblicità, finanza, conoscenze tecnologiche, organizzando lavoratori di culture e lingue diverse con le più diverse specializzazioni, a migliaia di chilometri di distanza, come in una grande catena di montaggio sparpagliata per il globo. Abbiamo però visto che Ucraina e Russia sono prioritariamente fornitori di prodotti agricoli e di materie prime. Possiamo immaginare quindi che l’effetto sulle catene possa essere guidato più dai costi di trasporto e quindi dalla logistica. È presto per dire se questo sarà un effetto di medio o di lungo termine, con una riorganizzazione – un accorciamento – delle catene globali.

La riorganizzazione delle aree di influenza economica

La situazione internazionale di questo inizio secolo è alquanto fluida. L’entrata in campo di nuovi giocatori come la Cina e l’India ha già cambiato visibilmente la geografia della produzione e gli equilibri internazionali. Nel libro Pensare la Macroeconomia ho già sottolineato come questo sia un aspetto da considerare, perché ha ripercussioni sulla produzione globale: la riorganizzazione produttiva a livello globale va di pari passo agli equilibri fra le diverse aree.
La crisi russo-ucraina non fa che rimescolare le carte o spingerle in una direzione che ancora non è ben chiara. Sebastiano Nerozzi e io avevamo individuato alcuni scenari economici di lungo periodo, riprendendo Il lungo XX secolo, di Giovanni Arrighi:

  1. La Cina nuovo leader economico mondiale: la riorganizzazione della produzione mondiale verso i paesi del Sud-est asiatico, insieme alla quota di popolazione mondiale che qui si concentra e al vantaggio di essere ormai sulla frontiera della rivoluzione scientifica, porterà all’ascesa inarrestabile dell’intera area. La Cina, pur avendo un’imponente macchina militare, preferisce usare – come sta facendo in queste ore – il suo soft power per espandere la sua influenza.
  2. Gli Stati Uniti rimangono polo principale: sono ancora il centro del processo di accumulazione di capitale tecnologico e conoscenze, e possono ancora sfidare la Cina e altri paesi per ribadire la leadership mondiale e recuperare posizioni nello scacchiere internazionale.
  3. Il mondo va verso diversi poli: la guerra sta ridefinendo le aree di influenza. Gli Stati Uniti e le Americhe, la Cina e il sud-est asiatico sono due poli chiari. Resta da capire che cosa succederà all’Unione europea, un’area da 450 milioni di persone, che da questa guerra potrebbe uscire come polo attrattore, protagonista a livello mondiale sia dal punto di vista produttivo sia da quello politico e portatore di una visione specifica del mondo.

Sicuri che l’incertezza sul futuro sia pervasiva, non possiamo che aspettare l’evolversi della situazione, tenendo ben chiari i rischi economici globali e locali.

Referenze iconografiche: ogichobanov/Shutterstock

Giorgio Ricchiuti

Laureato in Economia politica, ha inoltre conseguito il Dottorato di Economia dello sviluppo. È professore associato presso il Dipartimento di Scienze per l'Economia e l'Impresa dell'Università di Firenze, dove tiene corsi di Economia internazionale, Macroeconomia ed Economia computazionale. È autore di diverse pubblicazioni Paramond.