Convergere con gli altri in amicizia nella ricerca della verità
Viviamo un’esistenza in solitudine, povera di relazioni umane soddisfacenti e, soprattutto, povera di parola. Un’affermazione quest’ultima che può apparire paradossale. Non è al potere delle parole che ci affidiamo un po’ tutti: politici, uomini d’affari e di spettacolo, gente comune? Noi, popolo del Web, non siamo perciò persone che si prendono cura di sé e del prossimo, scambiandoci di continuo messaggi, sentimenti, emozioni, ansie, paure, preoccupazioni e speranze? Non esattamente! Il compulsivo chattare attraverso le evanescenti pagine dei social media, non riuscendo a bucare la corazza d’indifferenza degli uni verso gli altri, ci lascia un amaro sapore d’incompletezza e di frustrazione, se non d’infelicità: segno e indizio del fatto che abbiamo smarrito il valore e la dignità della “parola”.
Abbiamo sempre più difficoltà a immaginare una narrazione realistica del mondo in cui viviamo, dei suoi problemi umani e ambientali. Ci manca una visione di lungo respiro, un progetto coerente per fronteggiare le grandi sfide geopolitiche globali: le crescenti rivalità tra gli stati e le diverse culture (tribù) di appartenenza, il dramma delle emigrazioni, i temi del cambiamento climatico e dei disastri ambientali. Abbiamo distrutto foreste, conquistato e urbanizzato ambienti un tempo selvaggi, dove i virus se ne stavano tranquilli in serbatoi da cui non potevano fare il “salto di specie” dall’animale all’uomo, il cosiddetto spillover. E, dunque, oggi siamo in affanno.
Tuttavia, indifferenti a tutto questo, navighiamo a vista, anzi aspiriamo al ruolo di infuencer. Adoperiamo le parole per esercitare un potere sugli altri, spesso per denigrarli o farceli gregari, non per comunicare realmente. E ciò non è dovuto alla brevità dei tweet - si può anche dire molto con poco - quanto all’assenza di pensiero. Infatti, la brevità può essere una virtù nella comunicazione, a condizione che si abbiano cose da dire e, soprattutto, orecchie per ascoltare. In un memorabile discorso Gandhi disse un giorno che bisogna «aprire le orecchie degli altri, e uno dei modi migliori per farlo è aprire le proprie». L’ascolto attivo, restando in silenzio a considerare quello che ci viene detto, è una virtù rara, ma necessaria.
Il fatto è che ci capita sempre più frequentemente di non essere onesti con le parole. La parola intesa come valore e responsabilità dell’umano “conversare”, letteralmente “convergere” con gli altri in amicizia nella ricerca della verità. Era questo il senso della pratica filosofica degli antichi, vale a dire della “cura filosofica” finalizzata a una vita degna di essere vissuta, com’era intesa da Socrate, Pitagora, Platone, Epicuro, Seneca, Marco Aurelio, per fare i nomi più significativi.
L’uso appropriato delle parole
Chi non ricorda l’incessante dialogare per le vie e le piazze di Atene di Socrate? Socrate, il testimone del bisogno di armonizzare la vita con il pensiero. L’uomo dello scandalo, lo scandalo del tenere sotto esame la propria condotta di vita; lo scandalo del dubbio che attacca il pregiudizio e insegna l’arte dell’interrogarsi: che cosa è bene che io faccia, che cosa è giusto, che cosa invece devo evitare? Domande, tante domande che continuano a risuonare ancora oggi dalle pagine immortali di Platone.
Un domandare che mentre aspira alla definizione il più possibile chiara e precisa dei concetti, stimola altresì la ricerca di vie nuove, a cambiare strada, se necessario. Un domandare che prelude alla corretta interpretazione e all’uso appropriato delle parole, innanzitutto nella loro valenza “denotativa”. Ad esempio, se prendiamo il termine “coraggio”, di cui si vantano prepotenti e bulli in ogni epoca, sottoponendolo all’analisi filosofica - che richiama l’etimologia latina cor habeo - siamo rinviati a un’azione che tende al bene e nient’affatto alla prepotenza. “Il coraggio è una virtù morale che muove il sentimento (il cuore) al compimento del bene più che una forza fisica. È una qualità dell’anima più che una dote di classe”: è questo in estrema sintesi il senso dell’argomentazione platonica nel Lachete, un dialogo rivoluzionario rispetto all’identificazione tradizionale del coraggio con la “virilità” guerriera.
Socrate, quale ci viene presentato nella versione platonica, ci mostra anche un secondo livello delle parole, che possiamo definire “connotativo”. Ad esempio quando, prima di bere la cicuta, si domanda quale sarà la sua destinazione dopo la morte, non sapendo onestamente dare una risposta certa, preferisce sperare in un posto migliore della terra, perché: “il rischio è bello”, dice. E, dunque, nel momento di bere la cicuta, il veleno si trasforma in medicina che apre (nella immaginazione) il passaggio all’immortalità. Un processo che esprime la doppia valenza del termine greco “farmaco”, come veleno e medicina, e che - attraverso la cura socratica - riesce ad allargare l’orizzonte del significato della parola, aprendola con la potenza dell’immaginazione alla speranza. T1 Socrate, La parola che salva
La cura filosofica non è prescrittiva, ma lascia liberi gli interlocutori, perché sono loro - ieri come oggi - che devono sforzarsi di partorire la verità, non il filosofo che può solo contribuirvi, aiutando i giovani a spazzar via pregiudizi e luoghi comuni. Non a caso Socrate era solito richiamarsi al mestiere di levatrice della madre Fenarete, che esercitava una professione riconducibile a un ramo della cura medica: ormai vecchia, non era lei a partorire, ma si limitava a prestare il proprio aiuto alle partorienti.
Il miglior medico è anche filosofo
Claudio Galeno, il grande medico e filosofo di origine greca (nato a Pergamo in Asia Minore nel 129 d.C.) ma vissuto a Roma, diceva che «chi è un vero medico è sempre anche filosofo». Si deve a lui la grandiosa elaborazione dell’enciclopedia medica antica che venne trasmessa intatta al Medioevo e che costituì la base su cui nacque la moderna medicina sperimentale. Una medicina - quella propugnata da Galeno - che rigettava le rigide contrapposizioni delle sette mediche antagoniste che si contendevano il campo alla sua epoca: metodici, dogmatici, empirici. Nel suo trattato Il miglior medico è anche filosofo, Galeno raccoglieva l’eredità dei classici (Socrate, Ippocrate, Platone, Epicuro) per affermare la necessaria cooperazione tra l’armamentario logico-scientifico e le virtù morali per una più efficace cura dell’uomo nella sua integrità di corpo e anima, soggettività e ambiente. T2 Galeno, Il vero medico deve coltivare la filosofia
D’altro canto, non va dimenticato che tra filosofia e medicina c’è una originaria sintonia. Il medico si presenta sulla scena della civiltà classica come l’artefice di una techne, un’arte che affonda le proprie radici in una sophia, una visione unitaria del corpo e dell’anima. La pensava così Socrate, per il quale se vuoi curare gli occhi, devi prenderti cura della testa e di tutto il corpo (il suo equilibrio energetico) e non dimenticare l’anima. Una visione olistica della cura, dunque. Ciò spiega il motivo per cui fino al Settecento il medico che si laureava nelle università europee era accreditato del titolo Medicinae ac Philosophiae Doctor.
La connessione tra filosofia e medicina in Grecia si può riscontrare persino nel vocabolario. “Anatomista” delle forme (si pensi alla celebre tripartizione platonica dell’anima in razionale, concupiscibile ed eroica); “chirurgo” degli idoli della mente, estirpatore delle false credenze, il medico-filosofo era anche pietoso “farmacista”, benevolo distillatore di farmaci e balsami utili nella cura delle angosce quotidiane, solerte erborista delle intossicazioni della vita. L’esempio di alcuni grandi medici-filosofi (si pensi alla Scuola ippocratica, ad Epicuro e agli stoici) dimostra come non si trattasse solo di brillanti metafore, ma della vocazione filosofica di una “ragione appassionata” - per cui la filosofia non è solo amore del sapere ma anche saggezza dell’amore, in quanto si ragiona sempre in compagnia dell’altro - capace di prendersi cura dell’uomo nell’unità e complessità della sua realtà. Ippocrate, ad esempio, dava consigli anche sul posto dove edificare le città, in luoghi di collina, soleggiati ed esposti ai venti in modo da scacciare le infezioni durante le epidemie. T3 Ippocrate, Le condizioni ambientali influiscono sulla salute
Il compito della filosofia: armonizzare anima e corpo
E che dire della pandemia? Il termine è di origine greca: pan, che significa “tutto”, e demos, “il popolo”. La pandemia si riferisce a qualcosa di globale, che coinvolge tutto il mondo. Gli antichi non usarono mai questa parola in senso medico, che invece iniziò a circolare nel Settecento, il secolo dei Lumi, ad opera degli scienziati che la ricalcarono sulla parola greca epidemia, già presente nel Corpus Hippocraticum (IV secolo a.C.) e ne La guerra del Peloponneso di Tucidide, dove si può leggere la più vivida descrizione della pestilenza di Atene.
Gli antichi greci conoscevano però l’aggettivo pandemos in quanto attributo della dea dell’amore, Afrodite. Anche in questo caso sempre di un virus si trattava, un virus potentissimo “relativo a tutto il popolo” come l’amore. Nel Simposio Platone spiega il carattere virale di eros facendo dire a Pausania, uno dei partecipanti al dialogo, che l’amore “pandemico” è quello più diffuso perché riguarda l’attrazione fisica dei corpi, l’amore “volgare” e, dunque, popolare. «L’amore di coloro che amano i corpi più che le loro anime. E per giunta amano le persone che sono del tutto prive d’intelligenza, mirando a fare solo ciò di cui hanno voglia, e non preoccupandosi affatto se agiscono in modo bello o no» (Simposio, 181 b).
A esso si contrappone un amore più elevato e nobile, che riguarda l’anima. L’amore maschile, in linea di massima, tra un giovane bisognoso di apprendere l’arte del vivere e un adulto che doveva essere l’equivalente (con molte differenze) della nostra scuola di oggi, che i greci non conoscevano. Un eros filosofico, che essendo figlio di Penìa, la povertà, è pieno di dubbi e debolezze, ma anche appassionato ricercatore della verità perché figlio di Poros, l’intraprendente - come narra il mito che Platone ricorda nel Simposio. «Un amore che si accompagna ad Afrodite celeste, la più antica e del tutto priva di sfrenatezza» (ivi, 181 c). Risale a questa visione la contrapposizione tra un amore “virale” e “volgare”, perché legato alla soddisfazione degli istinti sensuali (l’eros pandemico) e un amore superiore, spirituale (l’eros celestiale). Un dualismo che attraversa tutta la storia della cultura occidentale.
Ma, per tornare al Simposio, si deve osservare che Platone affida proprio a un medico di nome Erissimaco il compito di mettere le cose a posto: in sostanza, di demolire la dicotomia tra i due tipi di amore. Non è vero che esistono due eros, uno volgare - pandemico - e l’altro uranio (celestiale): entrambi sono buoni, purché siano “ordinati”, capaci di armonizzare l’anima e il corpo. E a dimostrazione di ciò, il medico-filosofo porta l’esempio della musica, a cui l’amore vero è paragonato. «Dunque, nella musica e nella medicina, e in tutte le altre cose umane e divine, per quanto è possibile, bisogna cercare di cogliere l’una e l’altra forma di Eros, perché sono presenti ambedue in tutte le cose» (ivi, 187 b – 188 a).
Un testo che rende giustizia a Platone, a volte erroneamente interpretato come “uomo di pura teoria”, che pensa mediante la negazione del corpo. Se si scruta a fondo nella vita del filosofo si scopre infatti che frequentava le palestre e si dedicava con passione all’arte della lotta, praticando il pancrazio, come il resto della gioventù benestante ateniese. Non a caso il suo vero nome Aristocle era stato mutato in Platone, che significa “dotato di spalle robuste”. Per Platone la ginnastica in palestra, non diversamente dalle ricerche all’interno dell’Accademia, era un allenamento in vista dell’armonia di mente e corpo, per mettere alla prova e potenziare il proprio Io: una vera e propria cura di sé, come aveva insegnato Socrate e che costituisce il tratto peculiare della filosofia antica, come ha documentato Pierre Hadot.
D’altro canto, tutta la scena che introduce il discorso del medico-filosofo Erissimaco è gustosa per i particolari rimedi respiratori che contiene. Infatti, prima del medico sarebbe dovuto intervenire nel dialogo Aristofane, il commediografo, ma aveva il singhiozzo. «Perciò non era in grado di parlare. Ma, dal momento che il medico Erissimaco gli stava sdraiato accanto, Aristofane disse: «O Erissimaco, è giusto che tu mi faccia passare il mio singhiozzo oppure che parli tu al mio posto, fino a che mi sia passato». Ed Erissimaco disse: «Farò l’una e l’altra cosa. Io parlerò al tuo posto e, poi, quando ti sarà passato il singhiozzo, parlerai tu al mio posto. Intanto, mentre io parlo, vedi se, trattenendo il respiro per molto tempo, il singhiozzo voglia passarti. Se no, fa’ dei gargarismi con l'acqua. Se poi è molto forte, prendi qualcosa di adatto a solleticarti il naso e starnutisci. Se farai questo una o due volte, anche se è molto forte, il singhiozzo ti passerà» (ivi, 185 c-e).
Come può esserci di aiuto la cura filosofica?
In questi mesi di pandemia, ciascuno di noi prova un dolore che è sia fisico, per le vittime e le privazioni imposte dalla necessità, sia psichico sia spirituale. Un sentimento di paura invade il nostro cuore e i nostri pensieri. Come può esserci di aiuto la cura filosofica? Non certo disprezzando la paura, esibendo un coraggio che spesso è solo apparente. La paura è un sentimento naturale che, se ascoltato in modo appropriato, ci mette al riparo dai pericoli. Dobbiamo saper convivere con la paura, senza però farci condizionare o sopraffare, perché allora cadremmo nel panico, che ci acceca e toglie il respiro. Essendo potenziali portatore del virus, siamo diventati una minaccia gli uni per gli altri e tutti oggi abbiamo paura di tutti. Ci teniamo a distanza di sicurezza dagli altri corpi, ma guai se a tale misura corrispondesse anche un “distanziamento sociale”, come si usa tuttavia dire oggi con un brutto ribaltamento terminologico.
Ancora una volta, se saremo onesti con le parole, potremo sperare altresì di evitare un male peggiore del rimedio, avere il coraggio di comprendere ciò che ci capita ed essere solidali con gli altri. Come dicevano gli stoici, ci sono cose che vengono a noi, ci accadono, ma non dipendono dalla nostra volontà, e cose che possiamo fare noi, perché sono in nostro potere. E dunque pensiamo a ciò che dipende da noi, dedichiamo un po’ del nostro tempo alla contemplazione della bellezza della natura (come suggerivano gli epicurei), all’arte e alla musica, se possibile. Magari rispolveriamo un buon libro della nostra biblioteca (un rimedio contro la tristezza secondo Montaigne).
Distendiamo la nostra anima, pensiamo positivo, in compagnia anche dei filosofi. Può darsi che l’ansia si sciolga e il respiro si allarghi in una visione meravigliata dell’universo e dell’intera umanità. Una pretesa eccessiva? Può darsi, ma nel dubbio è bello pensare che “Platone è meglio del prozac”.
Referenze iconografiche: Kemedo/Shutterstock
Per approfondire
- Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino, 2005.
- Walter Bernardi e Domenico Massaro, La filosofia, una cura per la vita, Marinotti edizioni, Milano, 2007.
- Vladimir Jankélévitch, Filosofia prima, a cura e con un saggio introduttivo di Lucio Saviani, Moretti e Vitale, Bergamo, 2020.