Il concetto di “bene comune”
L’espressione “bene comune” indica un valore che già i filosofi antichi ponevano come obiettivo della politica, la quale doveva promuovere l’interesse generale dei cittadini e favorire il benessere della comunità. Quando a tale fine fosse stato anteposto dai governanti il loro interesse privato, ne sarebbe conseguita la corruzione del governo.
Questo concetto è ancora attuale, sebbene non sia esente da aspetti problematici. Innanzitutto il perseguimento del bene comune può talvolta comportare un sacrificio per i singoli (ad esempio si devono imporre tasse ai cittadini per garantire i servizi pubblici): spetta proprio alla politica conciliare le due prospettive e identificare gli obiettivi tenendo conto delle esigenze e dei diritti imprescindibili degli individui e di tutte le componenti della società civile.
Inoltre, quello di “bene comune” è un concetto relativo, che muta in riferimento alla comunità, alla sua storia e ai valori che essa individua a fondamento della propria esistenza. In termini generali, oggi si tende a cogliere il bene comune in quell’insieme di condizioni – materiali e spirituali – che possano garantire la migliore qualità di vita possibile alle persone, sulla base dei princìpi tutelati dalle Carte costituzionali.
Il punto di vista di Platone
Il bene comune, fine della politica, è per Platone quel Bene supremo che il governante/filosofo ha potuto individuare dopo una lunga e impegnativa formazione. Esso coincide con la giustizia, che soltanto il filosofo è in grado di trasferire nella società dopo averla realizzata nella propria anima. Purtroppo, come lo stesso Platone rileva nella Lettera VII in cui ammette la propria delusione per la politica del tempo, il buon governo del filosofo è una situazione ideale, che difficilmente è dato trovare nella realtà.
Nella repubblica teorizzata da Platone ciascun membro deve svolgere le mansioni che gli competono, secondo le proprie inclinazioni naturali, e ognuno deve agire nell’interesse della collettività. Le regole imposte alle varie classi sociali, che appaiono rigide e autoritarie ai nostri occhi, nella prospettiva platonica sono funzionali a evitare il prevalere degli istinti egoistici e individualistici. Per questo motivo, in particolare, ai governanti sono interdetti i vincoli familiari e il possesso di beni materiali: essi devono operare le proprie scelte senza che gli affetti o gli interessi privati possano interferire con la responsabilità e la lealtà verso lo Stato. Platone è convinto, infatti, che le principali cause di degenerazione dei regimi politici risiedano nell’ambizione, nell’avidità e nell’arbitrio, ossia nella tendenza dei governanti a porre al primo posto il proprio tornaconto rispetto al benessere dei cittadini.
La prospettiva di Aristotele
Un orientamento analogo, sebbene nel contesto di una visione più concreta e realistica, è seguito anche da Aristotele, per il quale la politica deve mirare alla felicità dei cittadini.
Per Aristotele, lo Stato deve tendere ad assicurare alla maggior parte dei cittadini una vita degna di essere vissuta, e questo significa soddisfare senza eccessi le necessità pratiche primarie delle persone, rendendole libere di dedicarsi alle attività più nobili come l’arte, la scienza, la filosofia, adeguate alla natura razionale dell’essere umano.
Un tale obiettivo è perseguibile soltanto all’interno di una società guidata da un buon governo, che a prescindere dalla sua forma particolare abbia di mira l’interesse generale. Anche per Aristotele, infatti, ogni regime politico – monarchia, aristocrazia o politéia – degenera nel momento in cui i vertici della comunità mirano a ottenere vantaggi personali dal proprio potere, cercando la felicità individuale, la ricchezza smodata o condizioni di privilegio per sé e per la propria famiglia.
Gli interrogativi attuali della politica
Ancora oggi il fine della politica è individuato nel perseguimento del bene comune, ossia del massimo benessere possibile per i cittadini di uno Stato e, in una prospettiva globale, del miglioramento delle condizioni di vita sul pianeta. Come scrive il filosofo Salvatore Natoli:
«gli uomini non cessano di perseguire fini e quello della politica resta invariato: provvedere al bene comune che è poi la ragione che ne garantisce la legittimità ad esistere. Ma per quale futuro? Certo, non più quello troppo lontano e astratto dell’utopia, né quello troppo ambizioso e prevaricante delle rivoluzioni, ma quello modellato sulle generazioni. Lasciare a coloro che verranno un mondo migliore da com’era quando ci siamo entrati».
(S. Natoli, Il fine della politica nella fine della politica, in “Avvenire”, 15 dicembre 2019)
Resta da definire, però, quali siano gli strumenti da impiegare in vista di tale vasto e generale obiettivo, e soprattutto le priorità che la politica deve darsi in questa prospettiva.
Il bene comune come benessere economico
Innanzitutto chiediamoci quale sia quel “bene comune” che, già secondo i filosofi greci, i governi devono porsi come traguardo da raggiungere con la propria azione politica. Da questo punto di vista, nelle nostre società prevalgono generalmente gli interessi legati alla dimensione economica e pertanto le priorità dei governi sono identificate tendenzialmente in tale ambito, anche per offrire soluzioni alle crisi e per garantire la soddisfazione dei bisogni primari e materiali delle persone.
Uno dei parametri privilegiati con cui si misura la “salute” di un Paese – e che risulta pertanto al centro dell’agenda politica – è il PIL (Prodotto interno lordo), che rileva l’insieme dei beni e dei servizi prodotti sul territorio di un Paese in un dato periodo di tempo, e la cui crescita è considerata rappresentativa del grado di sviluppo o progresso della collettività.
In realtà, sono molti gli economisti e gli intellettuali secondo i quali la misura economica del Prodotto interno lordo presenta forti limiti nel rilevamento della dimensione effettiva del benessere di una società. Si è osservato come esso, ad esempio, includa le transazioni in denaro ma non quelle a titolo gratuito: ne sono pertanto escluse le prestazioni nell’ambito familiare, tutte le attività no profit e di volontariato, fondamentali invece nella valutazione del benessere sociale degli individui. Il PIL, inoltre, non tiene conto dell’impatto sociale e ambientale delle attività produttive, è una misura indifferente alle disuguaglianze e alla qualità dei beni e servizi prodotti.
In linea di principio un Paese può regredire dal punto di vista sociale, civile, culturale, ambientale, familiare, psicologico, mentre il suo PIL cresce. Tale divergenza era stata già tematizzata negli anni Settanta del Novecento da Richard Easterlin, professore di economia nell’Università della California meridionale, il quale, su base statistica, aveva osservato come all’aumentare del reddito disponibile il soddisfacimento personale aumentasse fino a un certo punto, per poi appiattirsi e cominciare a regredire in una parabola discendente. Questo paradosso metteva in discussione l’impostazione mondiale della politica volta principalmente alla crescita economica, e problematizzava ciò che le persone intendono per “felicità”: se raggiungere il benessere economico non garantisce una vita felice, occorre interrogarsi su quale sia lo stile di vita da perseguire e verso quali prospettive di benessere debba muoversi una società che ponga la persona e i suoi bisogni al centro della decisione pubblica.
Verso un più ampio concetto di benessere
Proprio sulla base di riflessioni di questo genere, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso si è affermato un orientamento di pensiero secondo cui le azioni della politica devono porsi obiettivi più vasti, partendo da un concetto più articolato di “benessere” e individuando indicatori di sviluppo alternativi o, almeno, complementari a quelli strettamente economici racchiusi nel PIL.
Uno dei teorici più influenti in questo senso è il filosofo ed economista indiano Amartya Sen (nato nel 1933 e premio Nobel per l’economia nel 1998). Per Sen, il concetto di “sviluppo” si differenzia da quello di “crescita”: esso non coincide con l’aumento del reddito ma con un incremento della qualità della vita, alla cui definizione non concorrono soltanto i beni materiali e le loro caratteristiche, ma anche l’uso che l’individuo può farne e le scelte che ha la possibilità di effettuare. In quest’ottica, risulta fondamentale ad esempio la garanzia dei diritti alla salute, all’istruzione, alla libertà, visti come condizioni imprescindibili del benessere dei cittadini e dunque da porre quali obiettivi prioritari della politica, accanto, o addirittura al di sopra, delle scelte di ordine economico.
Nella sua riflessione Sen riprende il punto di vista di Aristotele, il quale aveva riconosciuto alle risorse materiali un valore soltanto strumentale in vista della felicità e della realizzazione di sé. Secondo l’economista, centrale per la politica attuale sembra dunque diventare non tanto l’aumento della quantità di beni pro capite, quanto la garanzia delle pari opportunità per tutti i cittadini in relazione alla possibilità di realizzare le proprie aspirazioni più profonde e autentiche.
Gli indicatori alternativi dello sviluppo sociale
La consapevolezza dell’irriducibilità del benessere a parametri puramente economici è stata recepita dagli organismi nazionali e internazionali. Risale ad esempio al 1993 la proposta da parte dell’undp – il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite – di utilizzare nel suo rapporto annuale un nuovo indicatore: l’Indice di sviluppo umano (isu o hdi, Human Development Index), costituito dalla combinazione di 4 indici: la speranza di vita, l’indice di alfabetizzazione, l’indice di scolarizzazione, il PIL per abitante.
Un ulteriore passo è stato fatto nel 2011 dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (ocse), la quale ha introdotto un indice composito: il Better Life Index (bli). Esso prende in considerazione 11 diverse dimensioni del benessere, che si basano sia sul benessere materiale – abitazione, reddito, lavoro – sia sulla qualità della vita – relazioni interpersonali, istruzione, ambiente, impegno civile, salute, soddisfazione personale, sicurezza, equilibrio tra vita privata e lavoro. La novità del bli è la modalità interattiva con cui è stato progettato, che ne fa una sorta di sondaggio permanente tra i vari utenti, i quali possono essere rappresentati da istituzioni, associazioni o singoli cittadini. Ciascuno può comporre il proprio indice, classificando i temi a seconda dell’importanza che attribuisce loro: in questo modo, ogni persona sul pianeta può offrire informazioni utili sulle variabili culturali, ambientali e sociali delle preferenze.
La frattura tra morale e politica
Gli impegni presi dalle istituzioni – a livello nazionale e internazionale – sono un passo importante e individuano spazi di progettazione politica inediti e necessari. Tuttavia, rischiano di rimanere lettera morta se non si accompagnano a una significativa assunzione di responsabilità da parte dei cittadini e della classe politica che li rappresenta. Le nuove sfide della politica nell’epoca globale, in altre parole, pongono in modo ancora più netto che in passato l’esigenza di ricomporre quella frattura che si è venuta a creare tra morale e politica, e che pare quasi insormontabile.
Riflettendo sui rapporti tra etica e politica, il filosofo Norberto Bobbio (1909-2004) osserva:
«Il dibattito sulla questione morale riguarda spesso, e in Italia prevalentemente, il tema della corruzione, in tutte le sue forme […]. Basta una breve riflessione per rendersi conto che ciò che rende moralmente illecita ogni forma di corruzione politica è la fondatissima presunzione che l’uomo politico che si lascia corrompere abbia anteposto l’interesse individuale all’interesse collettivo, il bene proprio al bene comune, la salute del proprio io e della propria famiglia a quella della patria. E ciò facendo sia venuto meno al dovere di chi si dedica all’esercizio dell’attività politica, e abbia compiuto un’azione politicamente immorale».
(N. Bobbio, Etica e politica, in “Micromega”, aprile 1986)
In linea con quanto affermavano gli antichi filosofi, anche per Bobbio il politico deve lavorare per il bene del Paese e non ambire a sfruttare la propria posizione per ottenere vantaggi personali o per accrescere il proprio potere. Come rileva lo stesso Bobbio, però, non si tratta tanto del profilo morale dell’individuo impegnato in politica – benché questo possa risultare fondamentale – quanto della capacità di saldare due piani che sembrerebbero contrapposti: quello dei princìpi, delle convinzioni e dei valori, e quello, più concreto e realistico, dei risultati, dipendente dal calcolo delle circostanze e delle situazioni contingenti. Un dualismo che si è esasperato nell’età moderna.
È stato il sociologo tedesco Max Weber (1864-1920) a distinguere due diverse forme di etica, un’etica delle convinzioni e un’etica della responsabilità (o dei risultati), attribuendo la prima alla morale comune – nella cui prospettiva un’azione è buona o cattiva in sé stessa – e la seconda alla politica – nel cui ambito le azioni risultano strumentali al fine, cioè sono valutate soltanto sulla base dei risultati ottenuti. Weber stesso, tuttavia, era personalmente convinto che nell’azione del “grande politico” etica della convinzione ed etica del risultato non potessero andare disgiunte: la fiducia in una causa e in determinati valori, da un lato, e l’efficacia operativa, dall’altro, dal suo punto di vista potevano e dovevano integrarsi, per non scadere nel fanatismo (di chi si trincera in convinzioni assolute) e nel cinismo (di chi mira unicamente al successo).
Prospettive per una nuova politica: gli obiettivi dell’Agenda 2030
Oggi queste considerazioni sembrano contenere un’importante indicazione: giustificata dal realismo, dalle esigenze del mercato, dalle contingenze, la politica rinuncia troppo spesso ai princìpi e restringe i propri orizzonti, limitandosi a invocarli soltanto a scopo propagandistico. Non di rado però è proprio la contingenza storica a evidenziare come un’azione politica poco lungimirante e illuminata, incapace di porsi “grandi fini”, stretta nei dettami del bilancio, possa portare pochi benefici: pensiamo agli insufficienti investimenti per l’istruzione, la ricerca, la sanità pubblica, la qualificazione del territorio, la tutela dell’ambiente.
Investire in tali ambiti sembra invece costituire una scelta strategica per il futuro. Non a caso, è questa l’indicazione dell’Agenda 2030, il documento adottato dalle Nazioni Unite nel 2015 nel quale vengono individuati 17 obiettivi generali (o goals), ulteriormente articolati in 169 traguardi specifici, da realizzare appunto entro il 2030. Il concetto cardine dell’Agenda 2030 è quello di “sviluppo sostenibile”, in cui convergono aspetti ambientali, economici, sociali e politici. Si tratta di obiettivi fondamentali, soprattutto in vista della tutela delle generazioni future, e che per questo devono essere considerati imprescindibili nella programmazione politica di tutti gli Stati del mondo.
DIBATTITO IN CLASSE
Quale indicatore del Benessere Equo e Sostenibile dovrebbe costituire una priorità per la politica?
FASE 1 Sotto la guida dell’insegnante dividetevi in quattro gruppi. Ogni gruppo si schiera a favore, rispettivamente, della salute, del lavoro, della tutela ambientale, della ricerca e innovazione. Un gruppo di 3 studenti non partecipa attivamente al dibattito perché svolge il ruolo di giuria.
FASE 2 RICERCARE E PIANIFICARE Ciascun gruppo deve sostenere con un argomento la validità del proprio indicatore: a questo scopo è opportuno citare dati effettivi ed esempi concreti, che si possono reperire mediante una ricerca in Internet nei siti dei principali istituti di ricerca
o degli enti pubblici.
FASE 3 COMUNICARE E ARGOMENTARE Parla un portavoce o una portavoce per gruppo (max 5 minuti), seguendo un ordine fissato dall’insegnante. Al termine di ogni intervento la giuria chiede un parere su uno degli altri indicatori; dalla risposta (max 2 minuti) devono emergere le ragioni per le quali tale indicatore, rispetto a quello che si è incaricati di promuovere, sarebbe meno essenziale per il bene comune.
FASE 4 VALUTARE Al termine del dibattito, i membri della giuria si confrontano per stabilire quale gruppo è stato più convincente e poi comunicano la decisione alla classe, motivando la loro scelta.
BIBLIOGRAFIA
- Platone,La Repubblica, trad. it. di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 2007
- Aristotele,Politica, trad. it. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 2007
- S. Natoli,Il fine della politica nella fine della politica, in “Avvenire”, 15 dicembre 2019
- R. A. Easterlin,Does economic growth improve the human lot? Some empirical evidence, in AA.VV., Nations and Households in Economic Growth: Essays in Honor of Moses Abramovitz, Academic Press, New York 1974
- A. Sen,Lo sviluppo è libertà, trad. it. di G. Rigamonti, Mondadori, Milano 2001
- A. Sen,L’idea di giustizia, trad. it. di L. Vanni, Mondadori, Milano 2014
- N. Bobbio,Etica e politica, in “Micromega”, aprile 1986
- M. Weber,La politica come professione, in Scritti politici, Saggi. Storia e scienze sociali, trad. it. di A. Cariolato - E. Fongaro, Donzelli, Roma 1998
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