Dalla cucina alla classe: le patate come strumento didattico
La patata, Solanum tuberosum L. della famiglia delle Solanaceae, è originaria del Sud America dove probabilmente era già coltivata dai nativi 8000 anni fa. Il primo contatto documentato con gli europei pare risalga al 1537 da parte di Gonzalo Jiménez de Quesada, un conquistatores Spagnolo. In Europa venne accolta con sospetto e fino al Settecento non venne praticamente consumata. Ora la patata è diffusa in tutto il mondo ed è diventata parte integrale della dieta e della tradizione gastronomica di miliardi di persone. E come se non bastasse, è anche un ottimo strumento didattico. Con questo umile tubero, infatti, è possibile effettuare numerosi esperimenti di chimica, di fisica e di biologia anche senza bisogno di un laboratorio didattico attrezzato. Oltre a questo vantaggio, proporre agli studenti semplici esperimenti che utilizzino oggetti familiari, e in particolar modo alimenti, permette sia di veicolare più facilmente concetti scientifici astratti sia di rinforzare l’idea che la chimica, la fisica e la biologia siano ben presenti nella vita di tutti i giorni, anche se molti ne sono inconsapevoli.
Patate e osmosi: primo esperimento
Il fenomeno dell’osmosi, con la relativa trattazione teorica, è importante sia dal punto di vista tecnologico (per esempio negli apparecchi a osmosi inversa per il trattamento dell’acqua) sia dal punto di vista della fisiologia umana. Anche in cucina questo fenomeno è largamente sfruttato, per esempio nella preparazione di macedonie di frutta, per estrarre i succhi o nella salatura delle fette melanzana prima del loro uso. È possibile mostrarne il funzionamento con un piccolo esperimento a base di... patate.
Prendete una patata di grandezza media. Tagliatela a metà dividendo in due l’asse maggiore e con uno scavino, armati di pazienza, scavate una delle due metà in modo da formare una piccola ciotola (vedi Figura 1). Fate attenzione a non bucare le pareti della patata. Mettete ora un cucchiaino o due di sale fino da cucina, cloruro di sodio, nell’incavo. Dopo qualche decina di minuti il sale comincia a inumidirsi e dopo qualche ora si sarà coperto d’acqua.
Questo esperimento può essere presentato agli studenti anche prima di aver introdotto il fenomeno dell’osmosi, e stimolarli chiedendo loro da dove arrivi l’acqua, per poi dare loro la spiegazione scientifica del fenomeno che hanno appena osservato.
La patata che avete tagliato contiene cellule vive ricoperte da membrane semipermeabili, esternamente protette dalla parete cellulare di cellulosa. Queste membrane permettono il passaggio di piccole molecole, come l’acqua, dall’interno all’esterno dalle cellule e viceversa, ma impediscono a molecole più voluminose, come gli zuccheri o gli ioni di cui è composto il sale da cucina, di entrare o uscire a loro piacimento. Nel caso alla cellula serva farli entrare o uscire, vi sono meccanismi biochimici specifici. In presenza delle membrane cellulari, la concentrazione delle sostanze disciolte in acqua dentro alla cellula cerca di mantenersi uguale alla concentrazione delle sostanze disciolte fuori dalla cellula: la differenza di concentrazione ai due lati di questo divisorio crea una pressione, chiamata pressione osmotica, che induce le molecole d’acqua a spostarsi dalla zona a più bassa concentrazione verso la zona a più alta concentrazione per cercare di ristabilire l’equilibrio. Questo fenomeno è chiamato osmosi. Ecco quindi perché il sale si è ricoperto di acqua: la pressione osmotica ha forzato l’acqua ad uscire dalle cellule per cercare di ristabilire l’equilibrio dato che la concentrazione di sale all’esterno è enormemente più grande di quella interna alle cellule.
È possibile notare che la patata è anche diventata più molle: le cellule prive di acqua perdono di turgore, come un pallone mezzo sgonfio.
Patate e osmosi: secondo esperimento
Sempre sfruttando la pressione osmotica si può anche invertire la direzione dell’acqua e farla entrare nelle cellule . Tagliate da una patata dei cubetti di circa due cm di lato, usando un coltello, oppure dei cilindretti, usando un cavatorsolo per le mele. Pesateli con una bilancia digitale e annotate il peso.
Immergete poi un pezzo in un bicchiere riempito di acqua distillata o deionizzata, come quella che si usa per i ferri da stiro. Il secondo pezzo lo immergerete in un bicchiere riempito con acqua del rubinetto mentre il terzo in un bicchiere con 10 grammi di sale da cucina sciolti per ogni 100 ml di acqua (vedi Figura 2). È possibile che la patata immersa in acqua salata inizialmente galleggi perché ha una densità minore, ma questo eventuale effetto dipende dal tipo di patata e da quanto è stata conservata.
L’acqua deionizzata non contiene sostante disciolte in quantità apprezzabile quindi la pressione osmotica spinge, con il passar del tempo, l’acqua all’interno delle cellule della patata immersa. Dalla patata immersa in acqua salata invece l’acqua fuoriesce dalle cellule, riducendo la densità dell’acqua salata e aumentando quella della patata, che quindi va a fondo.
Dopo qualche ora estraete i pezzi e pesateli (vedi Figura). Potrete constatare anche a occhio nudo la differenza tra i vari pezzi. Il pezzo immerso in acqua distillata è aumentato di peso e di volume mentre quello immerso in acqua salata ha avuto l’effetto opposto. L’acqua del rubinetto solitamente è poco salina e ha un effetto simile all’acqua deionizzata o distillata.
Nella figura a lato: campione a sinistra (in acqua distillata): peso iniziale 18 g, finale 20 g; campione al centro (in acqua del rubinetto): peso iniziale 19 g, finale 21 g; campione a destra: peso iniziale 18 g, finale 14 g.
Patate e clorofilla
È buona norma conservare le patate al fresco e al buio. Se esposte alla luce, infatti, la loro superficie può assumere una colorazione verdognola dovuta alla produzione di clorofilla. Con un po’ di pazienza è possibile riprodurre il fenomeno. Al supermercato le patate sfuse sono spesso esposte alla luce per molti giorni, e con un po’ di fortuna è possibile trovare qualche tubero con una parte già parzialmente verde per abbreviare i tempi dell’esperimento (Vedi Figura 4).
Esponente per qualche tempo la patata alla luce diretta, sia solare oppure in un interno vicino a una sorgente luminosa. Conservate anche qualche patata al buio da usare come confronto visivo. La colorazione verde, prima presente solo in una piccola zona, dopo una settimana dovrebbe essere molto più estesa (vedi Figura 5).
La clorofilla, che dona il colore verde, è totalmente innocua per l’uomo. Tuttavia si consiglia spesso di non consumare le parti verdi delle patate. Questi tuberi contengono alcune sostanze tossiche naturali della famiglia dei glicoalcaloidi. In particolare nelle patate commerciali sono presenti la α-solanina e la α-caconina, spesso collettivamente chiamate solanine. L’esposizione alla luce, oltre a stimolare la produzione di clorofilla, ha come effetto secondario di aumentare la concentrazione di queste sostanze. In piccole quantità queste contribuiscono a costruire il sapore, blando, della patata. In quantità superiori rendono la patata amara mentre in quantità elevate possono causare problemi di salute ai consumatori. Nella letteratura medica sono riportati alcuni casi di avvelenamento da patate verdi.
Per questi motivi, in molti paesi per le patate in commercio si adotta il livello di sicurezza cautelativo consigliato dall’Organizzazione mondiale della sanità e dalla FAO di 200mg di solanine per kg di patate crude. In alcuni paesi, come quelli nordici dove il consumo di patate è molto elevato, il limite cautelativo è di 100mg/kg.
Il contenuto di glicoalcaloidi varia moltissimo e dipende da fattori genetici, come il tipo di varietà coltivata, e da fattori ambientali durante la crescita, dalla temperatura, da come viene conservata, dall’età, dai fattori di stress e così via.
La zona del tubero dove normalmente la concentrazione di solanine è più alta è la buccia (periderma) e la zona di pochi millimetri immediatamente sotto. Le solanine si sviluppano anche nei germogli, che infatti non vengono consumati.
Se togliamo delicatamente la buccia alla patata verde possiamo vedere chiaramente come la colorazione sia solo superficiale. Più è grande la patata e minore solitamente la concentrazione di solanine (vedi Figura 6).
Ma le patate verdi sono davvero tossiche?
La sintesi della clorofilla e dei glicoalcaloidi avviene con l’esposizione alla luce, ma sono due processi chimici indipendenti. Il consumo di patate verdi però viene sconsigliato perché potrebbe essere indice di una elevata concentrazione di glicoalcaloidi. Sono stati effettuati studi per verificare la possibilità di stimare il contenuto di sostanze tossiche in base al colore della buccia. I livelli di glicoalcaloidi presenti dipendono dalla varietà di patate, e anche se ad una colorazione più verdognola corrisponde una concentrazione più elevata di sostanze tossiche, la relazione non sempre è lineare. Con lunghe esposizioni alla luce, fino a 10 giorni, il livello di glicoalcaloidi contenuti nella buccia e nella zona immediatamente sotto ha spesso raggiunto e superato i livelli di sicurezza raccomandati dall’OMS/FAO (cosa probabilmente successa anche a vostre patate). Nella polpa invece, nonostante l’esposizione, i livelli di sicurezza non sono mai stati superati e sono sempre rimasti a valori molto più bassi di quelli consigliati dalle istituzioni sanitarie.
Le patate si consumano sempre cotte, quindi è legittimo chiedersi se queste sostanze tossiche vengano degradate in cottura. Purtroppo non è così. Bollite, arrosto o al microonde, il contenuto di solanine non viene granché ridotto e diminuisce, ma solo parzialmente, alle temperature più alte raggiunte da una frittura. E questo perché le solanine si decompongono solo a temperature vicine a 260 °C, quindi molto superiori alla temperatura di una normale frittura, circa 170-180 °C. I livelli di solanine vengono comunque tenuti sotto controllo nei prodotti commerciali, e solo in rari casi si sono trovati dei prodotti dove il contenuto di solanine era superiore a quello raccomandato tranne che nelle bucce fritte, che possono superare i limiti di sicurezza consigliati.
Referenze iconografiche: Olga Bondas/Shutterstock, Dario Bressanini
Orologi e indicatori di pH
Le patate possono essere utilizzate per molti altri esperimenti, che lasciamo come suggerimento. È possibile, per esempio, costruire un orologio alimentato con patate, una variante del classico orologio alimentato con limoni (basta un giro sul web per trovare tutte le indicazioni).
Negli ultimi tempi sono diventate più diffuse anche le patate con la pasta blu o violacea. La colorazione blu è dovuta a una famiglia di molecole chiamate antocianine. Queste, presenti anche nei mirtilli, nel cavolo rosso, nell’uva e in molti altri vegetali dalla colorazione rosso/blu, cambiano colore al variare del pH. Si comportano cioè da indicatori. È possibile quindi usare le patate viola per verificare l’acidità o l’alcalinità di sostanze di uso comune, come l’aceto o il bicarbonato, e persino preparare un purè dagli effetti cromatici cangianti.