La sesta estinzione di massa
Gli studi sulla biodiversità ci dicono che una nuova estinzione di massa è in corso
L’estinzione fa parte della vita e della storia dell’evoluzione. Gli studi sulla biodiversità ci dicono che una nuova estinzione di massa è in corso. La vita sulla Terra non finirà, ma a pagarne le conseguenze saremo noi esseri umani. Si può invertire la rotta? Si può (e si deve).
È già successo
Circa 66 milioni di anni fa, l’impatto di un asteroide caduto nell’attuale golfo del Messico, cancellò i dinosauri dalla faccia della Terra. E con loro spazzò via il 75% delle forme di vita allora esistenti. Eventi del genere si chiamano estinzioni di massa: eventi catastrofici, che in tempi geologici brevissimi, determinano la scomparsa nell’intero pianeta di un’altissima percentuale di specie viventi. È qualcosa che nella storia della Terra, in 4 miliardi e mezzo di anni, è successa solo cinque volte.
E oggi, gli studi sulla biodiversità, ci dicono che stiamo vivendo una nuova estinzione di massa: la sesta. Sia chiaro: le estinzioni fanno parte della vita. Ogni specie vive all’incirca 1 milione di anni, se è fortunata. Qualcuna un po’ di più, qualcun'altra meno. Persino da ogni estinzione di massa la vita ha sempre ripreso vigore, magari cambiando strada con nuove e ‘infinite forme bellissime’, come le chiamava Darwin. Noi mammiferi per esempio ci siamo diversificati proprio dopo l’estinzione dei dinosauri. O ancora, circa due miliardi e mezzo di anni fa, a innescare una delle più catastrofiche estinzioni di massa furono i cianobatteri: i primi organismi in grado di produrre ossigeno. Il loro respiro cancellò per sempre dalla Terra moltissime specie anaerobiche, per le quali l’ossigeno era tossico.
Una questione di responsabilità
Secondo le più recenti stime, dal 1500 d.C a oggi, su scala globale, sarebbero scomparse fino al 13% delle specie viventi conosciute: circa 200.000 specie in media, tra vertebrati e invertebrati. E il tasso di estinzione sta accelerando: dal 1970 a oggi, abbiamo perso in media il 69% della fauna selvatica in tutto il mondo.
Il dodo dell’isola di Mauritius, l’alca impenne o il tilacino (la tigre della Tasmania) sono solo alcune delle specie più note ormai perdute. Molte altre - tigri, elefanti, rinoceronti, panda, orsi polari, balene - sono invece in serio pericolo per il bracconaggio o la distruzione del loro habitat. Loro sono le specie più conosciute, ma sul baratro dell’estinzione se ne affacciano moltissime altre meno conosciute, come la vaquita, un piccolo cetaceo endemico del golfo della California; o gli anfibi, da quelli italiani alle coloratissime e tossiche rane freccia del Centro e Sud America, decimate dall’aumento delle temperature e dalla chitridiomicosi, una malattia provocata dai funghi.
Anche gli insetti - ingiustamente bistrattati da tutti - stanno vivendo la loro apocalisse: per esempio, dal 1989 al 2016, in 27 anni, la Germania ha perso il 76% della biomassa di insetti volanti nelle sue aree protette. E più in generale in Europa e Nord America, negli ultimi 30 anni, la biomassa totale di questi animali è calata del 2,5% ogni anno a causa dell’inquinamento, dell’utilizzo di pesticidi e del cambiamento climatico.
Fortunatamente non è così dovunque, ma secondo il celebre entomologo dell’Università del Sussex, Dave Goulson, il futuro che ci aspetta potrebbe essere addirittura senza api, farfalle e scarabei colorati. Mentre a farla da padrone saranno mosche e scarafaggi: più adattabili e resistenti delle delicate api, molto prolifiche, e soprattutto poco ‘esigenti’. In pratica il prototipo perfetto di quelle che i biologi chiamano specie euriecie.
E no, non c’è da essere contenti se gli insetti diminuiscono. È vero che molti sono fastidiosi o portano malattie, pensiamo alle zanzare, ma la biodiversità funziona un po’ come la torre di Jenga: ogni volta che si sfila un mattone, la torre diventa sempre più instabile, fino a crollare. E così ogni volta che si estingue una specie, l’intero ecosistema diventa sempre più debole. E gli insetti sono un pilastro portante della biodiversità: la loro scomparsa, per un effetto a cascata, come in un domino, sta travolgendo anche piante e uccelli. L’80% delle piante conosciute dipendono da specifici insetti per l’impollinazione e, se questi diminuiscono o scompaiono, anche le piante hanno difficoltà a riprodursi e a sopravvivere. Lo stesso vale per gli uccelli: il 60% delle oltre 10.000 specie conosciute al mondo si nutre di insetti.
Ma perché si stanno estinguendo tutte queste specie? Stavolta, l’asteroide siamo noi: Homo sapiens. La sesta estinzione di massa ha infatti una chiara matrice antropica: caccia, sovrapesca e bracconaggio hanno segnato la fine di molti mammiferi, dai mammut ai rinoceronti bianchi, e stanno mettendo a dura prova anche gli squali. La deforestazione ha già cancellato alcune specie di ara, i coloratissimi pappagalli dell’Amazzonia, e minaccia gli oranghi e moltissime specie di piante. Il bracconaggio e il traffico illegale di specie mettono a dura prova non solo tigri ed elefanti in Africa, ma anche piccoli mammiferi come i fennec (le volpi del deserto), sempre più desiderati come animali da compagnia, e piante come orchidee e cactus. Anche il Mediterraneo è teatro di bracconaggio, non serve andare lontano: da noi ogni anno vengono uccisi in media 25 milioni di uccelli migratori protetti. E la nostra civilissima Italia è al secondo posto in questo massacro illegale.
C’è poi il problema delle specie aliene: sono secoli che trasportiamo specie in giro per il mondo introducendole, volontariamente o involontariamente, in ecosistemi dove non sarebbero mai arrivate senza il nostro aiuto. Così, abbiamo importato in Europa lo scoiattolo grigio nordamericano, che ha messo in crisi lo scoiattolo rosso in tutt’Europa. Anche i pappagalli verdi, che girano ormai in molte grandi città, e il granchio blu, che ha messo in ginocchio la produzione di vongole in Veneto, sono specie aliene. Abbiamo trasportato in tutto il mondo cani, gatti, conigli e ratti (trasportati casualmente nelle stive delle navi), diffondendo così predatori e malattie che hanno fatto piazza pulita della biodiversità locale. Un caso esemplare è quello delle Hawaii: qui un secolo fa vivevano 113 specie di uccelli e 750 chiocciole dal guscio coloratissimo. Erano tutte specie endemiche, che vivevano cioè solo lì e da nessun’altra parte del mondo. Oggi di quel tesoro biodiverso restano solo 42 specie di uccelli, quasi tutte a rischio di estinzione, e qualche decina di specie di chiocciole il cui destino è ormai segnato. Tutto per l’introduzione di specie aliene: queste infatti sarebbero responsabili del 33,4% delle estinzioni della fauna e del 25,5% della flora. Un record, che le ha consacrate come “la seconda causa di perdita di biodiversità su scala globale”.
A tutto questo si aggiungono i cambiamenti climatici che mettono a dura prova la biodiversità: dagli oceani alle vette più alte del mondo, dai poli all’equatore. La fusione del ghiaccio artico e lo sbiancamento delle barriere coralline sono infatti solo i sintomi più evidenti dell’impatto sulla biodiversità del cambiamento climatico innescato dall’uomo.
Le buone notizie
La prima buona notizia è che non siamo asteroidi, né cianobatteri. Quindi siamo perfettamente consci dell’impatto che hanno le nostre azioni, misurato e calcolato da tantissimi studi scientifici. La seconda buona notizia, perciò, è che possiamo - anzi dobbiamo - agire.
Innanzitutto, per valutare e monitorare lo stato di conservazione delle specie ci sono le Red List dell’IUCN - l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura: un enorme catalogo in cui ogni specie valutata viene inserita in una delle categorie di rischio, da "minima preoccupazione” a “estinto in natura”. Fino a oggi, su circa 2 milioni di specie note alla scienza, l’IUCN ne ha valutate quasi 160.000, scoprendo che oltre 44.000 di queste sono minacciate di estinzione a vario titolo e grado. Il lavoro dell’IUCN è fondamentale per tenere a mente il quadro della situazione, allocare gli sforzi nella direzione giusta e tener traccia dei successi.
Grazie agli sforzi di conservazione messi in campo, infatti, molte specie stanno uscendo o sono uscite dal baratro dell’estinzione. Dal panda gigante al lupo grigio appenninico, dal piccione rosa (Nesoenas mayeri) al condor della California, fino alla mangrovia dell’Asia orientale (Kandelia obovata) e al petrello delle Bermuda: sono tutte storie di successo in cui siamo riusciti a salvare una specie dall’estinzione. Senza contare che ogni tanto qualche specie creduta estinta per secoli riappare, come nel caso delle specie lazzaro raccontato in questo articolo: Chi non si estingue, si rivede.
Oggi in tutto il mondo ci sono progetti di eradicazione delle specie aliene e di sensibilizzazione sul tema: si controllano le frontiere, porti, aeroporti e bagagli. Per richiedere il visto per alcuni paesi come Seychelles, Maldive, Australia e molti altri, è ormai di rito rispondere a domande come: “trasporti con te piante o animali?”, oppure si è obbligati a lavare accuratamente gli scarponi per evitare di diffondere semi o spore di specie aliene indesiderate. Una cosa impensabile solo pochi decenni fa.
Abbiamo moltissime leggi e convenzioni internazionali a tutela della fauna e della flora – a partire dalla Direttiva Habitat alla CITES, la Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione – che tutelano ecosistemi, specie e puntano a mettere un freno alla distruzione degli habitat e al bracconaggio. Ci sono leggi e regolamenti sull’uso dei pesticidi: per esempio da qualche anno l’Europa ha messo al bando i neonicotinoidi, insetticidi tossici per le api. E l’ultima arrivata è la Nature Restoration Law appena approvata dal Parlamento europeo e che punta a restaurare il 20% degli ambienti marini e terrestri europei degradati entro il 2030, per arrivare al 90% entro il 2050. A livello globale, invece, l’anno scorso è arrivato un altro grande traguardo: il Trattato per la protezione dell’Alto mare, siglato a New York dai Paesi dell’ONU, che ha come obiettivo quello di tutelare il 30% dell’oceano globale entro il 2030, così come richiesto anche durante la COP15 sulla biodiversità.
Negli ultimi anni si sono moltiplicati i progetti di riforestazione o di recupero delle barriere coralline: passo dopo passo stiamo provando a ripristinare il patrimonio di biodiversità che abbiamo eroso. Insomma, ci stiamo impegnando. È abbastanza? Staremo a vedere. Di sicuro, la sfida più urgente e importante, l’obiettivo che riunisce tutti quelli citati finora è frenare il cambiamento climatico. Altrimenti a nulla sarà valso riforestare, ripristinare le barriere coralline, salvare elefanti, orsi polari e bucaneve dal baratro dell’estinzione con progetti mirati: il cambiamento climatico stravolgerà gli ecosistemi, spazzando via moltissime specie.
Ricordiamoci sempre che l’estinzione fa parte della vita e della storia dell’evoluzione. La vita sulla Terra non finirà con un’estinzione di massa, ma a pagarne le conseguenze saremo noi esseri umani. Si può invertire la rotta? Si può (e si deve), ce lo dicono anche i recenti accordi della COP15 sulla biodiversità e i report IPCC. Ne abbiamo i mezzi scientifici e tecnologici: l’ultimo passo spetta alla politica e all’impegno di tutti.
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