Il patrimonio di conoscenze indigeno, una risorsa da scoprire per la scienza climatica

La conoscenza indigena e la scienza occidentale sono domini di conoscenza percepiti come distanti e incompatibili. La scienza del clima, come è tradizionalmente intesa, è dominata dai contributi accademici occidentali. Il patrimonio indigeno (e in particolare la lingua) contiene conoscenze uniche, anche sul rapporto tra uomo e ambiente, che rischiano di scomparire per sempre. Rendere la scienza del clima più inclusiva non è solo un dovere etico, ma anche un possibile modo per cercare soluzioni nei sistemi di conoscenza che fino a oggi non sono stati adeguatamente valorizzati e sfruttati.

Il valore del patrimonio indigeno per le scienze del clima

shutterstock_1882953322_moracaSiku significa ghiaccio nell’accezione più generale del termine, mentre qinu ne indica quella particolare tipologia fangosa, che spesso si trova in riva al mare. Maujaq è la neve in cui ci si inabissa, mentre qautsaulittuq descrive il ghiaccio che è stato frantumato con un arpione, dopo che qualcuno ha voluto testarne la consistenza.

La lingua inuit vanta un lessico ricco e descrittivo per il ghiaccio marino e la neve, che ben si adatta alle esigenze di una regione dove le temperature vanno da meno 40 °C in inverno a 30 °C in estate e dove la perfetta conoscenza dei sistemi climatici è essenziale per la sopravvivenza. Pur comprendendo solo il 4% della popolazione mondiale (tra 250 e 300 milioni di persone), dalle comunità indigene dipende l’80% della biodiversità del pianeta o, in altri termini, l’85% delle aree protette del mondo.

 

shutterstock_1497926867_moracaLa comunità scientifica internazionale si sta sempre più interessando ai sistemi di conoscenza indigena: alcuni ricercatori hanno lavorato fianco a fianco con le comunità di Samoa, un’isola della Polinesia Francese, per comprendere in che modo le tribù riescano a utilizzare alcuni indicatori per prevedere modificazioni del clima su scala locale. Qui l’osservazione del comportamento degli animali, la profonda conoscenza del sistema di formazione delle nubi e il monitoraggio di alcune specie botaniche chiave hanno aiutato la comunità a prevedere e ad adattarsi a cambiamenti metereologici improvvisi e modificazioni climatiche su base stagionale.

 

Nel distretto del Laramate, in Perù, l’attività delle donne indigene ha permesso di migliorare la resilienza agricola: ruotare i raccolti, far riposare la terra e selezionare semi di qualità superiore hanno consentito di ottenere un rendimento più elevato e diversificato del raccolto, con maggiore resistenza alle intemperie.

ancient-mayan-beekeeping-tools-found-mexico_MoracaNel 2005, lo Smithsonian Tropical Research Institute riportò di aver censito nello Yucatan solo 90 alveari di Melipona beecheii, una specie di ape fondamentale per mantenere l’integrità della foresta in una regione sempre più vulnerabile ai cambiamenti climatici. Anselma Chale Euan e altre 19 donne indigene originarie della penisola messicana fondarono allora un collettivo chiamato Co'oleel Caab Collective, che sta lavorando con successo per la ripopolazione dell’ape, laddove approcci più tradizionali hanno fallito.

Eppure, nonostante anche l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC ) abbia riconosciuto che la conoscenza indigena o tradizionale possa rivelarsi utile per comprendere il potenziale di certe strategie di adattamento economicamente efficaci, partecipative e sostenibili, essa rimane ancora solo parzialmente valorizzata. “Possiamo fidarci della conoscenza indigena? Non è forse aneddotica? Sono domande che mi vengono poste spesso dai miei colleghi”, spiega James Ford, professore in Climate Adaptation all’Università di Leeds, che da anni si occupa del tema.

“Il sistema di conoscenze indigene è costituito da un corpus di conoscenze complesse e dettagliate acquisite attraverso ripetute osservazioni, esperienze e riflessioni accumulate nel corso di generazioni”. Lo scambio tra due mondi apparentemente opposti, tribale e accademico, sta migliorando, molti nella comunità scientifica iniziano a realizzare sempre più la portata teorica che la conoscenza indigena è in grado di fornire. “Anche l’IPCC, un bastione del conservatorismo scientifico, sta cercando di capire in che modo le diverse fonti di conoscenza tribale possano rafforzare i suoi rapporti di valutazione”.

Gli sforzi per colmare il divario tra scienza e cultura indigena, tuttavia, tendono a essere diretti dai termini della scienza, concentrandosi sulla documentazione di fatti e osservazioni per colmare le lacune nella comprensione scientifica laddove vi è scarsità di dati. “Gli aspetti più complessi della conoscenza indigena radicata nelle visioni del mondo e nei sistemi di credenze sono spesso trascurati e, dove la scienza e la conoscenza indigena si contraddicono a vicenda, si presume spesso che sia la scienza a essere corretta. La ricerca nell'Artico incarna queste sfide e, sebbene l’importanza della conoscenza indigena sia probabilmente riconosciuta qui più di ogni altra regione a livello globale, il conflitto è ancora abbondante”, spiega Ford.

Una questione di linguaggi e rapporto con l’ambiente

Questa è una sfida più che mai aperta perché i due domini di conoscenza non hanno un linguaggio comune e questo rimane un nodo fondamentale da risolvere per avviare un vero scambio e la vera inclusione di questo dominio di conoscenza nella comunicazione del cambiamento climatico (Fernández-Llamazares et al., 2015).

Sarebbe infatti auspicabile considerare i due sistemi di conoscenza come non distinti (Rudiak-Gould, 2014), anche se a livello concreto e funzionale la loro collaborazione è una sfida aperta. In un esperimento in cui i sistemi di conoscenza indigena e la western science sono stati utilizzati nello stesso contesto, tutti i partecipanti allo studio hanno sottolineato l’importanza della conoscenza indigena per comprendere il cambiamento climatico (Gislason 2021). Uno degli approcci più utilizzati dall'accademia per conciliare l’uso del metodo e della teoria occidentali con la conoscenza indigena è il Marshall’s Two-Eyed Seeing: “Vedere da un occhio con i punti di forza dei modi di conoscere indigeni e vedere dall’altro occhio con i punti di forza dei modi occidentali di conoscere, e usare entrambi questi occhi insieme”. (Wright et al., 2004).

Tra questi aspetti più complessi della lingua indigena, in cui si radicano visioni del mondo e sistemi di credenze, figurano anche le lingue indigene, che contribuiscono a creare un legame profondo tra l’uomo e il suo ambiente. Lingue indigene ed ecosistemi costituiscono circoli virtuosi di conoscenza che si alimentano e che contribuiscono a rafforzare il legame uomo-ambiente.

Ciò è emerso anche in alcuni studi relativi a come il rapido cambiamento ambientale influenzi le pratiche linguistiche del patrimonio indigeno in Alaska, e come i divari generazionali nei livelli di fluidità della lingua del patrimonio indigeno influenzino la sicurezza e l’efficacia delle attività consuete e di uso del suolo tradizionali.

Anche in questo caso, i risultati hanno dimostrato come le scelte e gli atteggiamenti della comunità locale riflettano e costruiscano ecologie dinamiche di lingua, cultura e ambiente (Reo et al., 2019). Le lingue Iñupiaq e Yupik forniscono importanti forme di resilienza socio-culturale perché incorporano il passato, ma sono intrinsecamente dinamiche. Le pratiche sociali guidate dalla comunità che promuovono un maggiore uso della lingua del patrimonio locale possono portare a nuovi domini linguistici creativi, nuove espressioni della cultura indigena e nuove scelte indigene compatibili con un ambiente in cambiamento (Reo et al., 2019).

Un dovere etico

CB4JN0_moracaDa un punto di vista etico, è giusto ricordare che il quadro adottato da 178 azioni alla Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo di Rio de Janeiro, in Brasile, al principio 10, sottolinea l’importanza della consapevolezza, dell’accesso all’informazione, e la partecipazione delle persone alle questioni che le riguardano in relazione all’ambiente. Quindi, il principio 22 sottolinea il ruolo fondamentale delle popolazioni indigene e delle loro comunità, che dovrebbero essere messe nelle condizioni di contribuire efficacemente al raggiungimento dello sviluppo sostenibile.

BIBLIOGRAFIA

  • Fernandez-Llamazares, A., Elena Mendez-Lopez, M., Diaz-Reviriego, I., McBride, M. F., Pyhälä, A., Rosell-Mele, A., & Reyes-Garcia, V. (2015). Links between media communication and local perceptions of climate change in an indigenous society. Climatic Change, 131(2), 307-320. Ford, J.D. et al., (2016a) Including indigenous knowledge and experience in IPCC assessment reports. Nature Clim Change 6:349–353 Ford JD et al., (2016b). Adaptation and indigenous peoples in the United Nations framework convention on climate change. Clim Chang 139:429–443
  • Gislason, M.K., Galway, L., Buse, C. Parkes, M., Rees, E. (2021). Place-based Climate Change Communication and Engagement in Canada’s Provincial North: Lessons Learned from Climate Champions, Environmental Communication, 15:4, 530-545
  • Reo, Nicholas J., et al., (2019). Environmental Change and Sustainability of Indigenous Languages In Northern Alaska. Arctic, vol. 72, no. 3, pp. 215–228.
  • Rudiak-Gould, P. (2014). The Influence of Science Communication on Indigenous Climate Change Perception: Theoretical and Practical Implications. Hum Ecol 42, 75–86.
  • Wright, A.L., Gabel, C., Ballantyne, M., Jack S.M., Wahoush, O. (2014). Using Two-Eyed Seeing in Research WithIndigenous People: An Integrative Review. International Journal of Qualitative Methods. Volume 18: 1–19.

Referenze iconografiche: ©sirtravelalot/Shutterstock; ©Alsu940/Shutterstock;©Alberto Seminario/Shutterstock, ©gailhampshire from Cradley, Malvern, U.K; ©Sue Cunningham Photographic / Alamy Stock Photo

Sara Moraca

È una comunicatrice della scienza e giornalista scientifica. Scrive per Nature, Corriere della Sera, El Pais. Svolge attività di ricerca nell’ambito della comunicazione del cambiamento climatico e della planetary health. È consulente per il Parlamento Europeo per il giornalismo scientifico.