Fotosintesi, prima e dopo

Non tutti gli autotrofi hanno bisogno di luce per vivere e molto probabilmente i primi procarioti sulla Terra erano proprio chemioautotrofi. Ma con la fotosintesi e la produzione massiccia di ossigeno è cambiato tutto. Una storia appassionante, per introdurre in classe il tema delle ossidoriduzioni.

È possibile vivere senza luce? Ebbene sì, pare proprio che sia possibile e che per riuscirci ad alcuni organismi basti l’idrogeno. Non solo: una ricerca pubblicata sulla rivista Nature nel dicembre 2014 mostra che la vita senza luce potrebbe essere più diffusa di quanto si pensi. Analizzando le rocce più antiche presenti sulla Terra – quelle che si sono originate durante il Precambriano, tra 550 milioni e 4,6 miliardi di anni fa e che rappresentano il 70% delle rocce dei continenti – un team di scienziati canadesi, statunitensi e britannici ha stimato che la concentrazione di idrogeno molecolare (H2) presente nel sottosuolo è 100 volte maggiore rispetto a quanto stimato in precedenza.
Ma perché ci interessa l’idrogeno? Cosa c’entra con la vita? Il punto è che esistono microbi che si procurano l’energia per vivere “mangiando” molecole inorganiche come quella dell’idrogeno gassoso. Questi organismi sono stati individuati in prossimità delle sorgenti idrotermali profonde dei fondali oceanici e, più di recente, nel sottosuolo, come mostra una ricerca effettuata in una miniera d’oro del Sudafrica a 4 km di profondità. Quindi l’idrogeno molecolare può indicare la presenza della vita. Ma come si forma l’H2 in profondità? Si conoscono due modi: attraverso la radioattività naturale della roccia oppure con un processo geochimico chiamato serpentinizzazione. In entrambi i casi l’idrogeno deriva dall’acqua intrappolata tra le rocce. Si pensava che questi fenomeni avvenissero soprattutto nei fondali oceanici e, invece, da dicembre, sappiamo che riguarderebbero in modo significativo anche il sottosuolo delle terre emerse. Nelle acque sotterranee ci può essere molta vita, lontano dall’atmosfera, dalle sostanze organiche e dalla luce solare. E la stessa cosa può accadere in altri pianeti, come Marte.

Al mercato degli elettroni

Gli organismi che sintetizzano le sostanze organiche del proprio corpo senza cibarsi di altri organismi vengono definiti autotrofi. Di solito pensiamo alle piante che, grazie alla fotosintesi, utilizzano l’energia solare per produrre zuccheri complessi a partire dal diossido di carbonio (CO2). Ma oltre ai fotoautotrofi esistono i chemioautotrofi: organismi che non utilizzano l’energia del Sole ma quella di alcune molecole inorganiche. Le prime forme di vita apparse sulla Terra, quasi 4 miliardi di anni fa, sono state cellule procariotiche che probabilmente vivevano così. La fotosintesi non si era ancora evoluta e l’unico modo per procurarsi energia era prenderla dalle sostanze che si avevano a disposizione. L’idrogeno gassoso è una di queste. Ma come fa un microbo a prendere energia da questa molecola? Grosso modo, facendosi attraversare da alcuni dei suoi elettroni. L’idrogeno infatti tende a cedere elettroni che vengono “passati” da una serie di molecole specifiche della cellula fino a quando vengono consegnati a un accettore finale, il diossido di carbonio. Quest’ultimo passaggio permette la sintesi di composti organici complessi, i passaggi precedenti forniscono energia alla cellula. Come in un circuito elettrico, gli elettroni partono da un polo e ne raggiungono un altro, spinti da una certa forza. Nel percorso può esserci un sistema che sfrutta questo flusso per compiere un lavoro, come succede per esempio in una lampadina. Nelle cellule ci sono sistemi molecolari che recuperano l’energia del flusso di elettroni sintetizzando molecole come l’ATP.

Con il linguaggio dei chimici, l’H2 cede elettroni e quindi si “ossida”, mentre il CO2 li ha acquistati e si “riduce”. Il metabolismo del microbo che vive nelle profondità della crosta terrestre può essere visto come una complessa reazione di ossidoriduzione. E non solo il suo. La stessa cosa vale per tutti gli organismi viventi. La vita è sempre associata a uno scambio di elettroni tra una molecola che li fornisce e un’altra che li acquista. È come se fosse un mercato in cui la merce di scambio è l’elettrone. E, come al mercato, non è detto che i fornitori e gli acquirenti siano sempre gli stessi.

La nascita delle fotosintesi

Quando si è evoluto un procariote con un pigmento in grado di intrappolare l’energia solare e di trasformarla in energia chimica, gli elettroni hanno cominciato a percorrere nuove “rotte commerciali”. Probabilmente la prima forma di fotosintesi apparsa sul pianeta è stata di tipo anossigenico, cioè che non produce ossigeno molecolare. Ancora oggi, per esempio, i solfobatteri verdi utilizzano il solfuro di idrogeno (H2S), al quale, grazie all’energia del sole, “strappano” elettroni che vanno a ridurre il CO2. Come risultato si ottengono molecole organiche ricche di elettroni (e quindi di energia) e zolfo (S). Anche la fotosintesi è dunque un processo di ossidoriduzione. Quando poi sono apparsi i cianobatteri, in grado di accoppiare due sistemi fotosintetici rendendo il processo più efficiente, è stato possibile “rubare” gli elettroni a una molecola che se li teneva più stretti, l’acqua. Uno dei prodotti di questa nuova ossidoriduzione è l’ossigeno molecolare (O2). Questo si è diffuso nei mari dove vivevano i cianobatteri. E quando i mari sono diventati saturi, circa 2,7 miliardi di anni fa, ha cominciato a passare anche nell’atmosfera, accumulandosi sempre di più.

Problemi e opportunità

La maggior parte dei procarioti presenti all’epoca, però, non ha apprezzato la novità. L’ossigeno, per il suo potere ossidante, è un veleno. Molti organismi si sono estinti oppure sono andati a rifugiarsi in ambienti rimasti ancora anaerobici, come i fondali marini o le acque sotterranee.

Una vera e propria rivoluzione della vita sul pianeta, uno stravolgimento del “mercato globale di elettroni”. Le reti metaboliche si erano evolute fino a quel momento con determinati fornitori ed acquirenti. Il nuovo arrivato aveva un “potere di acquisto” superiore a tutti gli altri e le reazioni di ossidoriduzione che garantivano l’energia agli organismi sono state compromesse. La capacità di un batterio di intrappolare l’energia della luce ha provocato un vero e proprio cataclisma per gli esseri viventi. Certo, non per tutti! Oltre ai procarioti rifugiati, altri hanno avuto il tempo di evolvere per poter vivere all’aria aperta e sotto la luce del sole. In che modo? Acquisendo meccanismi molecolari in grado di trasformare in opportunità ciò che per tutti gli altri era un problema. L’elevata tendenza dell’ossigeno ad acquistare elettroni è stata sfruttata per ottenere, con una resa maggiore, energia dalle molecole organiche. Nasce così la respirazione cellulare, processo biochimico grazie al quale viviamo anche noi oggi.

Verso una nuova rivoluzione?

scheda-didattica-03_fotosintesi_guarnieriL’impiego della luce del Sole attraverso la fotosintesi ossigenica ha segnato un passaggio cruciale per l’evoluzione della vita sul nostro pianeta. Da una parte è stato drammatico, dall’altra ha permesso l’evoluzione di gran parte del mondo vivente attuale, ancora oggi dipendente dalla capacità di catturare i fotoni con la clorofilla o gli altri pigmenti. La conoscenza delle proprietà della La respirazione cel lulare è stata determinante per lo svi luppo del la vi ta sul la Ter ra luce da parte dell’uomo ha permesso in epoca più recente di compiere altre rivoluzioni, anche queste di portata planetaria. Internet ne è un esempio. Grazie all’impiego delle onde elettromagnetiche, cioè la luce, esiste la possibilità di mandare e ricevere informazioni ovunque nel mondo. E grazie alla capacità di mimare il comportamento delle foglie, forse si riuscirà a ottenere una fotosintesi artificiale in grado di risolvere la crisi energetica globale. Ci saranno altri sconvolgimenti in seguito a questo nuovo impiego della luce? Saranno paragonabili a quelli provocati dall’ossigeno più di 2 miliardi di anni fa? Qualunque cosa accada, i microbi che vivono a chilometri di profondità probabilmente ne resteranno all’oscuro e continueranno a vivere tranquillamente. Si può vivere senza luce, ma se sappiamo utilizzarla saggiamente è meglio… per quasi tutti.

SCHIARITE SULLA FOTOSINTESI

Prima del Settecento non esisteva ancora il concetto di gas e sarebbe stato impossibile individuare la fotosintesi. In un esperimento del 1772 Joseph Priestley, lo scopritore dell’ossigeno, mostra che una pianta, posta in un recipiente in cui era stata fatta bruciare una candela, è in grado dopo qualche giorno di rendere l’aria di nuovo respirabile. Da allora, poco per volta, viene fatta luce sul fenomeno e sull’origine dell’O2. Fino al 1931 si credeva che derivasse dal CO2 assorbito. Invece Cornelis Bernard Van Niel si accorge che il CO2 viene fissato anche dai solfobatteri. Ma questi non producono O2. Come mai? La risposta è nella molecola che accetta gli elettroni messi in moto dal fotone di luce. Nelle piante è l’H2O ed è da essa che si forma l’O2. Nei solfobatteri è l’H2S, per cui si forma zolfo (S).

BIBLIOGRAFIA

  • B. Sherwood Lollar, T.C. Onstott et al., The contribution of the Precambrian continental
    lithosphere to global H2 production, in Nature, 2014, vol. 516, pp. 379-382.
  • L.H. Lin et al., Long-Term Sustainability of a High-Energy, Low-Diversity Crustal Biome,
    in Science, 2006, vol. 314, pp. 479-482.
  • V. Balzani, Verso la fotosintesi artificiale, in Science magazine n.04, febbraio 2015.
Scheda didattica: Fotosintesi, prima e dopo di Vincenzo Guarnieri Download

Referenze iconografiche: phadventure / Shutterstock

Vincenzo Guarnieri

È chimico e ha un dottorato di ricerca in biochimica e biotecnologia cellulare. Si occupa di comunicazione della scienza. Ha pubblicato Maghi e reazioni misteriose (Lapis edizioni, 2007), una storia della chimica per ragazzi.