La stagione calda, si sa, è sinonimo di vacanze, vita all’aria aperta, bagni di mare e tanta, tanta esposizione al Sole, vero protagonista dell’estate. Questione interessante e delicata, quella del Sole. Perché se è vero che l’astro principale del nostro firmamento è fondamentale per il nostro benessere psicofisico e per la nostra salute, non si può negare che, allo stesso tempo, rappresenti un potenziale pericolo da cui guardarsi attentamente, per non incorrere in conseguenze anche piuttosto gravi. Per eccesso o per difetto, in positivo o in negativo, la nostra stella, infatti, è in grado di influire direttamente sul nostro organismo, con conseguenze a carico dello scheletro e della pelle, ma anche sulla mente, con meccanismi complessi e, talvolta, non del tutto chiariti. Succede mentre siamo stesi in spiaggia, camminiamo per strada o stiamo seduti in giardino. Accade, semplicemente, mentre assistiamo giorno dopo giorno ai cambiamenti di luce che accompagnano il mutare delle stagioni.
Bambini di città, bambini di campagna
Per capirne un po’ di più di questa complicata questione, cominciamo a occuparci degli effetti della luce solare sul nostro fisico. Facciamo, per questo, un balzo nel tempo e nello spazio per spostarci nella Polonia del 1822. Fu in quell’anno, infatti, che Jędrzej Śniadecki, medico, chimico e biologo, portò all’attenzione della comunità scientifica le sue osservazioni sul confronto tra i bambini che crescevano nel centro di Varsavia e quelli che vivevano nelle campagne fuori città. Tra i primi, notava Śniadecki, moltissimi soffrivano di rachitismo, una malattia dell’età pediatrica che consiste in un difetto nel processo di costruzione delle ossa e che porta a diversi problemi a livello scheletrico, con ossa fragili e deformi, e nella crescita. Tra i secondi, l’incidenza della malattia era decisamente inferiore. Perché questa differenza? L’ipotesi di Śniadecki fu che dipendesse dalla scarsa esposizione dei bambini di città ai raggi solari. Gli agglomerati urbani, a quel tempo, erano un ammasso di vie strette e buie segnate da case umide e scure, addossate l’una all’altra e sovrastate da un cielo nero per i fumi di camini e ciminiere. La possibilità di godere della luce naturale, in paesi non certo noti per i numerosi giorni di insolazione annui, non era un fatto scontato e lo scienziato polacco, in effetti, ci aveva visto giusto. I bambini di Varsavia, o quelli di Leida, in Olanda, dove ai primi del Novecento più del 90% dei piccoli soffriva di rachitismo, o di Boston nello stesso periodo, con più dell’80% di bambini colpiti, si erano ammalati a causa di una loro scarsa esposizione alla luce solare. Scarsa esposizione che – come è stato poi dimostrato – porta a sua volta a una carenza di vitamina D3, una molecola che ha un ruolo importantissimo nel metabolismo dell’osso, in particolare durante lo sviluppo.
Una vitamina per l’osso
La produzione di questa vitamina comincia quando i raggi ultravioletti, in particolare quelli di tipo B (radiazione tra 280 e 315 nm), colpiscono la nostra pelle, trasformando una molecola chiamata 7-deidrocolesterolo, presente nelle cellule della cute, in una nuova molecola chiamata provitamina D3. Questa a sua volta si trasforma presto in un’altra molecola termodinamicamente più stabile sebbene ancora inattiva: è la vitamina D3 detta anche colecalciferolo. Siamo all’inizio di un lungo percorso: una volta lasciata la pelle ed entrata nel circolo sanguigno, la vitamina D3 va incontro, infatti, a una serie di modificazioni chimiche prima nel fegato e poi nel rene, per diventare finalmente attiva sotto il nome di calcitriolo. Questo svolge un ruolo importantissimo nei processi di assorbimento di calcio nel rene e di fosforo e calcio nell’intestino, e nel favorire così la mineralizzazione dell’osso. Il calcio, sotto forma di sale fosfato, carbonato o fluoruro, è uno degli elementi fondamentali della componente minerale della cosiddetta matrice extracellulare dell’osso. La componente minerale è quella che conferisce durezza e compattezza all’osso, indispensabile quindi per le sue funzioni di sostegno, protezione o locomozione. Una deficienza nella mineralizzazione, come avviene nel rachitismo, porterà a una crescita difettosa di ossa e scheletro e ad una loro elevata fragilità.
Tutto il sole che serve
Solo il 10% della vitamina D3 viene assorbita dai cibi, e sono pochi quelli che la contengono: salmoni, sardine, olio di fegato di merluzzo e l’albume dell’uovo. Il resto viene prodotto proprio grazie alla luce solare. Se la vitamina D3 è carente, nel bambino si registrano patologie come il rachitismo, una minore altezza, una ridotta quantità di tessuto osseo e problemi muscolari. Nell’adulto, le manifestazioni sono meno evidenti, ma da non sottovalutare: osteoporosi e debolezza muscolare causati da una deficienza di questa vitamina sono più comuni di quanto si pensi anche ai giorni nostri. Ma quanta insolazione serve alla nostra pelle per produrre vitamina D3 a sufficienza? Dipende dalla latitudine, dalla stagione, dall’ora in cui ci si espone e anche dal tipo di pelle o, come si dice tecnicamente, dal fototipo. Più la vostra pelle è chiara, tanto meno tempo sarà necessario per produrre vitamina D3. E viceversa. In ogni caso un MED (Minimal Erythemal Dose), definito scientificamente come la quantità di luce solare che produce un eritema o arrossamento sulla pelle entro le 24 ore dall’esposizione, produce da 10 a 50 volte il reale fabbisogno di vitamina D3. Questo che è stabilito negli adulti dai 15 ai 25 microgrammi al giorno, dove il limite superiore è consigliato, in particolare, per gli anziani. Quindi esposizione ai raggi solari, sì – anche perché la vitamina D3 prodotta in estate ci servirà per l’inverno – ma senza esagerare. L’equilibrio, in questo ambito, è infatti più che raccomandato.
I rischi del troppo sole
Insomma, non vi si chiederà di rinunciare per sempre all’abbronzatura. Ma, questo sì, di fare molta attenzione nell’evitare le scottature, di esporvi alla luce solare per periodi prolungati e, in generale, di essere consapevoli che la nostra pelle è un organo delicato, che va salvaguardato. I raggi solari che raggiungono la pelle ci aiutano a tenere in salute il nostro apparato muscoloscheletrico, ma possono anche avere effetti severi sulla pelle stessa, causando mutazioni genetiche all’origine di tumori cutanei anche molto gravi, come il melanoma. I raggi UVA e B, infatti, possono avere un effetto nefasto sul DNA, causando la formazione di molecole chiamate dimeri di pirimidina, formate dall’unione di due basi pirimidiniche (timina e/o citosina) adiacenti sulla molecola di DNA. Più in particolare, i raggi UV, legando insieme due basi pirimidiniche vicine, possono dare origine a nuove molecole chiamate dimeri di pirimidina ciclobutano (CPD) e di 6,4 fotoprodotti. Solitamente, a porre rimedio al danno, intervengono i meccanismi di controllo dell’integrità del genoma che attivano meccanismi di riparazione del DNA in grado di eliminare i nucleotidi modificati e di sostituirli con quelli corretti. A volte, però, le cose non vanno per il verso giusto. I dimeri, infatti, interferiscono con l’appaiamento delle basi durante la replicazione del DNA, portando alla creazione di mutazioni. Se il processo non viene arrestato in tempo, insomma, le conseguenze possono essere molto serie. La letteratura scientifica testimonia come sia proprio la formazione di questi dimeri alla base dello sviluppo del melanoma. Studi scientifici hanno inoltre dimostrato che gli ultravioletti danneggiano anche l’attività del sistema immunitario nelle cellule dell’epidermide, compromettendo così un’altra fondamentale linea di difesa contro lo sviluppo del tumore. Dal punto di vista estetico, infine, gli ultravioletti alterano l’elastina e il collagene presenti nel derma, lo strato delle cute che sta sotto l’epidermide, riducendo l’elasticità della pelle e favorendo l’insorgenza delle rughe...
Meno luce, più depressione
Ma non è tutto. Perché se il nostro fisico, come abbiamo raccontato, ha un rapporto complicato con la luce solare e con l’ombra, lo stesso si può dire per la nostra mente. La luce, infatti, influisce sulla nostra psiche e, almeno in alcuni casi, un’insufficiente illuminazione solare può rallentare i nostri processi cognitivi – è stato anche verificato che studiare con la luce naturale è più proficuo che studiare si notte alla luce di una lampadina – e, anche, dare origine a disturbi depressivi. Le popolazioni del Nord Europa, che vivono lunghi inverni senza luce, conoscono bene il problema. E non è un caso che la fototerapia, ossia la somministrazione di luce naturale o artificiale a lunghezze d’onda specifiche e per periodi definiti, sia considerata oggi come una vera e propria terapia antidepressiva, utilizzata anche per potenziare l’effetto dei farmaci.
Se gli effetti sono noti, però, le cause non lo sono altrettanto. Vi sono diverse teorie che cercano di spiegare il perché la scarsa illuminazione, o le sue variazioni stagionali, abbia un effetto tanto importante sulla nostra salute psichica. Alla base, sembrerebbe vi sia uno squilibrio a carico di diverse sostanze attive nel nostro cervello, come la melatonina, prodotta dalla ghiandola pineale e implicata nella regolazione del ciclo sonno-veglia, e la serotonina, un neurotrasmettitore che, nel sistema nervoso centrale, regola tra le altre cose l’umore, il sonno e l’appetito. Gli esperimenti in corso, in realtà, continuano a far emergere nuovi interessanti elementi che rimarcano da un lato l’estrema complessità del fenomeno, dall’altro la difficoltà di rintracciare la sua origine fisiologica. Ricerche che hanno verificato gli effetti sul sistema nervoso di periodi prolungati di buio, hanno dimostrato per esempio che la mancanza di esposizione alla luce porterebbe a una degenerazione delle fibre nervose, dei neuroni e anche delle connessioni sinaptiche in particolari aree del cervello quali il locus ceruleus, area del tronco encefalico che produce l’ormone noradrenalina e che gioca un ruolo importante nella risposta ad ansia, stress e panico, con un effetto depressivo sui soggetti coinvolti.
Gli effetti della luce sul cervello
Un importante studio apparso sulla rivista Nature ha individuato i circuiti neuronali che, partendo dai nostri occhi, sembrerebbero influenzare la funzione di specifiche aree del cervello in base alle condizioni di luminosità. Nei mammiferi, infatti, tutte le informazioni legate alla luce, quindi la visualizzazione delle immagini ma anche i nostri comportamenti, arrivano dalla retina alle cellule gangliari che le inviano al sistema nervoso centrale. La maggior parte delle cellule gangliari della retina afferisce alla corteccia visiva. Una parte di queste, invece, non è coinvolta nella visione ma comunica i propri segnali a diverse zone del cervello, come l’amigdala, area deputata a regolare le emozioni e la paura, o a specifiche aree dell’ipotalamo implicate nella regolazione del ritmo sonno-veglia o dell’umore. Come hanno dimostrato i ricercatori, soggetti sottoposti a cicli di luce e buio modificati per tempi prolungati vanno incontro a sintomi depressivi e difficoltà di apprendimento. Ma se le cellule dei gangli retinici – quelle che non comunicano con la corteccia visiva ma con altre aree del cervello – non sono funzionali, i ritmi luce-buio anomali non hanno alcun effetto depressivo o cognitivo sui soggetti coinvolti. Un esperimento, questo, che come riportato nell’articolo scientifico, porterebbe a stabilire “che la percezione inconscia della luce mediata da queste specifiche cellule potrebbe essere responsabile dei sintomi depressivi e dei deficit di apprendimento osservati in condizioni luminose perturbate”. Insomma, per il vostro equilibrio psicofisico e per la vostra salute, è proprio il caso di dirlo, occhio alla luce.
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