L’Italia verso il “premierato”?

Le proposte di riforma della forma di governo italiano

Che cos’è il premeriato, qual è la differenza rispetto al presidenzialismo e perché se ne parla nel dibattito politico italiano.

In Italia è da tempo avviato un dibattito politico sulla possibilità di riforma della forma di governo che, mediante la revisione di alcuni articoli costituzionali, potrebbe portare al cosiddetto “premierato”. Ma che cos’è il premierato e qual è la sua differenza rispetto al presidenzialismo?

Cerchiamo di chiarire la differenza tra i due termini, ricordando che attualmente l’Italia è una repubblica parlamentare, in cui il potere legislativo è affidato al Parlamento e quello esecutivo al Governo, che è espressione della maggioranza parlamentare e che deve operare in un rapporto di fiducia con il Parlamento.

Il presidenzialismo

 Questa forma di governo è applicata nelle repubbliche presidenziali e semipresidenziali.
Nella repubblica presidenziale il Presidente rappresenta l’unità dello Stato e detiene in via esclusiva il potere esecutivo. La repubblica presidenziale è la forma di governo esistente fin dal 1787 negli Stati Uniti d’America: in essa il potere legislativo e quello esecutivo sono affidati a due organi distinti e autonomi, rispettivamente il Parlamento (Congresso), eletto dal popolo e composto da due Camere (Camera dei rappresentanti e Senato), e il Presidente, che è anche Capo dello Stato.
Il Presidente degli Stati Uniti viene eletto direttamente dal popolo e non è responsabile di fronte al Parlamento, nel senso che non può essere sfiduciato da questo; è responsabile, però, davanti al popolo, che decide se rieleggerlo o no alla scadenza del mandato.
Come il Presidente non può essere sfiduciato dalle Camere, così il Parlamento, a sua volta, non può essere sciolto anticipatamente dal Presidente. I due poteri fondamentali dello Stato, legislativo ed esecutivo, risultano pertanto molto forti grazie all’indipendenza degli organi che ne sono titolari, i quali hanno in pratica la garanzia di poter rispettivamente governare e legiferare liberamente per un determinato periodo (corrispondente a quattro anni). Ciò si traduce, di fatto, in una forte stabilità governativa.

La repubblica semipresidenziale, che trova applicazione ad esempio in Francia, si basa come quella presidenziale su un sistema dualistico, per cui il potere legislativo è affidato al Parlamento e quello esecutivo fa capo al Presidente della Repubblica, che, eletto direttamente dal popolo, rappresenta l’unità dello Stato e opera in un rapporto di fiducia con il Parlamento.
A differenza del modello americano, tuttavia, il Presidente della Repubblica ha il potere di sciogliere anticipatamente le Camere. È inoltre contitolare della funzione di indirizzo politico insieme al Capo del Governo, da lui/lei nominato. I ministri sono nominati e revocati dal Presidente della Repubblica su proposta del Capo del Governo. La maggioranza parlamentare può approvare una mozione di sfiducia (in Francia, motion de censure) nei confronti del Capo del Governo, costringendolo a dimettersi. 

Il premierato

Con il termine premierato si fa riferimento a un sistema rispettoso della realtà della repubblica parlamentare, in cui però risultano rafforzati i poteri del Capo del Governo, generalmente definito “premier” (in Italia corrisponde al ruolo del Presidente del Consiglio).
Questa figura può essere diretta espressione del partito che detiene la maggioranza parlamentare (come nel Regno Unito), oppure può essere eletta direttamente dai cittadini (come accadde in Israele tra il 1996 e il 2001).
Il premier è generalmente dotato di poteri che lo rendono maggiormente autonomo nelle proprie iniziative e decisioni, compresa la facoltà di nominare e di revocare i ministri, pur permanendo la necessità di un rapporto di fiducia con il Parlamento. 

Un modello particolare di premierato è il cancellierato applicato in Germania. Il Governo federale tedesco è composto dal Cancelliere e dai ministri, da lui/lei nominati e che da lui/lei possono essere revocati. Il Cancelliere viene eletto dal Bundestag (uno dei due rami del Parlamento, equiparabile alla nostra Camera dei deputati), che gli riconosce personale fiducia (nel nostro sistema, invece, la fiducia deve essere data da entrambe le Camere a tutto il Governo). Nel caso in cui il rapporto fiduciario venga meno, il Bundestag può esprimere la sfiducia al Cancelliere e ai suoi ministri, a condizione però che elegga a maggioranza un successore e abbia in tal senso l’approvazione del Presidente federale (“sfiducia costruttiva”).

I tentativi di riforma costituzionale nell’esperienza italiana

Già nel 1996 fu avanzata una proposta di modifica della forma di governo italiana dall’Ulivo, coalizione di centro-sinistra guidata da Romano Prodi, che nel proprio programma auspicava «l’adozione di una forma di governo centrata sulla figura del Primo Ministro investito in seguito al voto di fiducia parlamentare in coerenza con gli orientamenti dell’elettorato».
Il primo progetto concreto di premierato fu avanzato dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali istituita nel 1997. Esso prevedeva l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, cui si riconosceva il potere di nominare e di revocare i ministri. Il progetto naufragò per la mancata intesa tra i partiti politici di allora.
Se ne tornò a discutere nel corso del 2005 e del 2006, quando venne approvata dalle Camere una legge di revisione costituzionale che prevedeva significative modifiche alla Seconda parte della Costituzione. In particolare, con riferimento al Presidente del Consiglio, questa legge disponeva un significativo aumento dei suoi poteri, riconoscendogli la facoltà di nomina e di revoca dei ministri, la direzione (e non il semplice coordinamento) delle loro politiche, la possibilità di sciogliere direttamente la Camera dei deputati. Il progetto fu bocciato dagli elettori in occasione del referendum costituzionale che fu indetto dopo l’approvazione della legge.
Il tema fu ripreso nel 2020, con la proposta, avanzata dall’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi, di istituire una figura di premier paragonabile a un “sindaco d’Italia”, eletto direttamente dai cittadini con il sistema elettorale previsto per i sindaci nei Comuni con oltre 15.000 abitanti (sistema maggioritario a doppio turno). 

La proposta più recente

Con il governo guidato da Giorgia Meloni, formatosi in seguito alle elezioni politiche del 2022, il dibattito sulla riforma della forma di governo italiana è ripreso con intensità: tutti i partiti della coalizione di governo, infatti, si sono dimostrati favorevoli al superamento dell’attuale sistema.
Il 3 novembre 2023 il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge costituzionale, denominato Introduzione dell’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri e razionalizzazione del rapporto di fiducia, in cui si prevede che il Presidente del Consiglio sia eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni contestualmente al voto per le Camere; lo stesso premier deve anche essere un parlamentare.

Le principali modifiche costituzionali

La proposta prevede innanzi tutto una sostanziale modifica di alcuni articoli della Costituzione, a cominciare dall’articolo 92.

Esso attualmente dispone:
«Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri.
Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri».

L’articolo verrebbe modificato in:

«Il Governo della Repubblica è composto dal Presidente del Consiglio e dai Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri.
Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni.
Le votazioni per l’elezione del Presidente del Consiglio e delle Camere avvengono tramite un’unica scheda elettorale.
La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei Ministri.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura.
Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio dei Ministri eletto l’incarico di formare il Governo e nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, i Ministri».

Legge elettorale e governabilità

La modifica dell’articolo 92 Cost. prevede dunque il principio per cui la legge elettorale debba assicurare la “governabilità” nell’ambito della forma di governo ad elezione diretta del Presidente del Consiglio.
Questo obiettivo viene conseguito mediante la previsione, nella legge elettorale, di un premio di maggioranza che assicuri alla coalizione vincente un numero di seggi in Parlamento adeguato ad assicurare stabilità al governo. In relazione alla misura del premio di maggioranza, la Corte Costituzionale si è già espressa in precedenza al fine di evitare che esso risulti sproporzionato rispetto alle percentuali di voti ricevuti.

Anche l’articolo 94 viene modificato in modo sostanziale.

Esso prevede attualmente:
«Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere.
Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale.
Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia.
Il voto contrario di una o d’entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni.
La mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione».

Con la riforma il terzo comma verrebbe sostituito con:
«Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Nel caso in cui non venga approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche quest’ultimo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere».

Verrebbe poi aggiunto un ultimo comma:
«In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia. Qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere».

L’articolo 88, relativo ai poteri del Presidente della Repubblica, verrebbe infine modificato in coerenza con quanto dispone la nuova formulazione dell’articolo 94, non consentendo più lo scioglimento di una sola Camera.
Dunque, una volta eletto, il premier è tenuto a chiedere la fiducia alle Camere; nel caso fallisca dopo due tentativi, il Presidente della Repubblica è tenuto a disporre lo scioglimento delle Camere e si andrebbe quindi di nuovo al voto.
Nell’ipotesi in cui il premier venisse sfiduciato nel corso del suo mandato, il d.d.l. prevede che si tenti di continuare la legislatura con un nuovo incarico alla stessa persona o a un altro esponente della stessa maggioranza politica scelta dai cittadini con il voto, che dovrà però attenersi al programma del Capo di governo eletto. Se tale tentativo fallisce il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere e si torna al voto. 

La nuova formulazione dell’articolo 94 impedirebbe la formazione di governi sostenuti da maggioranze diverse da quelle espresse dal voto degli elettori, per evitare che le scelte del corpo elettorale vengano superate da cambi di schieramento di singoli parlamentari o interi gruppi politici, come avvenuto più volte nella storia parlamentare recente.

È da rilevare inoltre che, nel caso di incarico affidato a una persona diversa dal premier eletto, questi dovrà essere un parlamentare: si esclude pertanto la possibilità di formare governi cosiddetti “tecnici”, cioè guidati da personalità non strettamente politiche, ma scelte in relazione a competenze personali. Ricordiamo che questa evenienza si è verificata con i governi di Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, Lamberto Dini nel 1995, Mario Monti nel 2012 e Mario Draghi nel 2021.

Contro il premierato

«[Con il premierato] si fa credere che governare il Paese sia come governare un comune, secondo la formula del “Sindaco d’Italia”; in secondo luogo, si afferma che non si toccano i poteri di garanzia del capo dello Stato, senza tenere presente che le forme di governo sono costruite su delicatissimi equilibri tra poteri. Ed è evidente che se ne rafforzi uno, ne indebolisci un altro. Se al capo dello Stato si sottrae il potere di nomina del Presidente del Consiglio, nonché quello di sciogliere le Camere, lo si priva dei due più importanti poteri di interlocuzione col governo e il parlamento».

Gaetano Azzariti, professore di Diritto costituzionale, Università La Sapienza di Roma.

A favore del premierato

«Il presidenzialismo non è nella natura delle nostre istituzioni. È invece essenziale riconoscere un ruolo decisivo e centrale al primo ministro. Il premierato è dunque l’ipotesi più sostenibile anche perché non toglierebbe poteri al Parlamento. L’aspetto più rilevante del premierato sta nel dare più potere agli elettori, che voterebbero così il partito di riferimento ma anche il premier ad esso collegato che a quel punto avrebbe una chiara investitura popolare. Sarebbero insomma i cittadini ad eleggere direttamente il governo e non ci ritroveremmo più con Presidenti del Consiglio usciti dalle manovre di palazzo».

 Paolo Becchi, docente di Filosofia del Diritto, Università di Genova.

I passaggi necessari alla riforma

L’introduzione del premierato, come abbiamo visto, comporterebbe la modifica di alcuni articoli costituzionali, il che richiede il ricorso a una legge di revisione costituzionale.
Le leggi di revisione costituzionale (come possiamo desumere dall’articolo 138 della Costituzione) sono adottate da ciascuna Camera del Parlamento con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi l’una dall’altra, e sono approvate a maggioranza assoluta (la metà più uno) dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Se nella seconda votazione è raggiunta la maggioranza assoluta, ma non quella dei due terzi dei componenti, la legge di revisione può essere sottoposta a referendum costituzionale, che può essere richiesto da un quinto dei membri di una Camera, o da 500.000 elettori, o da cinque consigli regionali. Attraverso il referendum costituzionale si consulta l’elettorato affinché confermi se si debba procedere o no alla revisione deliberata.

La strada per il premierato, pertanto, è ancora molto lunga e, se in Parlamento non si raggiungerà la maggioranza qualificata, è probabile il ricorso al referendum, per cui saranno i cittadini a decidere se nel nostro Paese ci sarà o no una riforma della forma di governo.

Referenze iconografiche: rarrarorro/Shutterstock

Maria Rita Cattani

Laureata in giurisprudenza, ha insegnato per molti anni diritto ed economia presso l’Istituto Fermi di Modena; attualmente è in pensione. È autrice di corsi di diritto ed economia per i marchi Paravia e Paramond.