L’evoluzione dell’occupazione femminile

L’analisi di serie storiche per spiegare un problema di grande attualità

L’economista e premio Nobel Claudia Goldin ha indagato la storia e le ragioni del divario occupazionale di genere.

In questi ultimi decenni le differenze di genere sono state oggetto privilegiato di studi interdisciplinari che hanno visto la collaborazione di antropologi, sociologi, psicologi ed economisti.
Secondo diversi antropologi, per esempio, la distinzione di genere non sarebbe tanto la conseguenza di una natura biologica distinta, quanto il risultato di determinate costruzioni culturali. Attraverso esperimenti di laboratorio, gli economisti comportamentali hanno, in principio, motivato il divario di genere attribuendo alle donne una minore propensione al rischio rispetto agli uomini; ma si sono poi in parte ricreduti.
Impiegando serie storiche di dati, Claudia Goldin ha individuato una spiegazione più soddisfacente al problema delle differenze di genere nel mercato del lavoro, che gli è valsa il Premio Nobel per l’economia nel 2023.

Claudia Goldin è sempre stata attratta dalle diseguaglianze.
Per il suo dottorato di ricerca all’università di Chicago scelse una tesi sulla schiavitù nelle città del sud degli Stati Uniti prima dello scoppio della Guerra Civile. Una volta divenuta professoressa a Harvard, incominciò a dedicarsi alle disparità di genere, e in particolar modo alle diseguaglianze occupazionali e retributive tra donne e uomini.
Attraverso complesse ricerche di archivio su serie storiche risalenti a più di duecento anni fa, diversamente da quanto tradizionalmente concluso dai suoi colleghi, che individuavano una correlazione positiva tra sviluppo economico e partecipazione delle donne al mercato del lavoro, Goldin ha mostrato che l’origine del divario occupazionale tra uomini e donne risale proprio all’epoca della Rivoluzione industriale.
Se, di fatti, il progresso tecnologico ha comportato un miglioramento del benessere materiale della popolazione in generale, il processo di transizione da una società di tipo agricolo ad uno di carattere industriale ha anche lasciato a casa un’elevata percentuale di donne. 

Solo a partire dai primi decenni del Novecento, con all’affermarsi del settore terziario dell’economia e l’aumento della scolarizzazione, osserva Goldin, le donne hanno ritrovato nuove opportunità lavorative, grazie alle possibilità di impiego in ufficio, e i relativi tassi di occupazione sono tornati a crescere. Per questo motivo, riferisce l’economista in Understanding the gender gap: An economic history of American women (1990), a differenza degli uomini, il cui tasso di occupazione mostra un incremento costante, il tasso di partecipazione delle donne al mondo del lavoro segue un percorso a U rovesciata, al cui valore più basso dei primi anni dell’Ottocento segue una ripresa nel secolo successivo. 

In primo luogo, osserva Goldin, la legge federale degli Stati Uniti d’America, nota come Civil Rights Act, del 1964 ha reso illegale per le imprese non assumere o licenziare le donne sposate.
In secondo luogo, sempre negli anni ’60 del Novecento, la diffusione della pillola contraccettiva ha permesso alle donne di meglio pianificare la propria carriera, contribuendo notevolmente all’incremento delle prospettive di lavoro femminile. Se, riferisce Goldin, nel 1967 solo il 35% di un campione di donne americane di età tra i 20 e i 21 anni si aspettava di avere un lavoro stabile a 35 anni, la percentuale stimata dallo stesso campione di donne saliva ad un ben più consistente 80% nel 1979.
Il ruolo di madri influisce anche sui salari. Quanto al divario retributivo tra uomini e donne, Goldin osserva che questo compare con la maternità, per il maggior coinvolgimento della donna nella cura dei figli e il ricorso più frequente al part-time. Secondo l’economista, tale disuguaglianza stenta a scomparire in quanto le aspettative delle giovani donne sono impostate sulle esperienze delle generazioni precedenti, per esempio su quelle delle proprie madri, che non sono tornate a lavorare finché i figli non sono cresciuti.

Nel corso degli anni, Goldin ha continuato a studiare le discriminazioni di genere anche in settori di mercato specifici. Nell’articolo Orchestrare l’imparzialità: effetto delle audizioni “cieche” sulle donne musiciste (2000), mostra che se le audizioni per i posti in orchestra si svolgono con uno schermo che nasconde il candidato, le donne hanno una maggiore probabilità di essere selezionate. Nel 2014, in qualità di presidente della American Economic Association, Goldin ha tenuto un discorso (Una grande convergenza di genere: l’ultimo capitolo) in cui ha rilevato che, nel contesto odierno, nonostante l’elevato livello di istruzione delle donne, il gender gap si è ridotto, ma non è scomparso.

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Figura 1: Tasso di occupazione per la popolazione in età da lavoro, 2018
(Tasso di occupazione delle/degli donne/uomini dai 15 ai 64 anni, totale)

Fonte: © ISTAT 2024, © Eurostat 2024

I ricercatori che hanno esplorato l’applicabilità delle conclusioni di Goldin in ambito europeo, dove il mercato del lavoro, tradizionalmente, è più regolamentato, hanno confermato l’esistenza di differenze di genere anche al di fuori dell’ambito americano. Per scelta o necessità, le donne svolgono più ore di lavoro non retribuito, prendendosi cura della casa o dei figli: il 30% delle donne lavora part-time, a fronte del solo 8% degli uomini.
I dati mostrano tendenze non omogenee nei Paesi UE (Figura 1; dati 2018): la Svezia si colloca al primo posto, con un tasso occupazionale femminile pari al 76%. Seguono diversi Paesi nordici. Romania (52%), Ungheria (51%), Italia (49%) e Grecia (45%) presentano i tassi percentuali più contenuti.

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Figura 2: Carriera lavorativa. Uomini e donne a confronto. Paesi UE, 2019
(Tasso di occupazione delle/degli donne/uomini dai 15 ai 64 anni, totale)

Fonte: © Eurostat 2024

Quanto alle disparità salariali, nell’ultimo decennio si sono assottigliate in alcuni Paesi europei (si veda ad esempio Spagna, Germania, Austria e Repubblica Ceca); mentre in altri, come nel Regno Unito e in Austria, sono rimaste pressoché invariate.

I dati Eurostat confermano che le donne lavoratrici guadagnano, in media, il 12,7% all’ora in meno rispetto agli uomini. Il gap più consistente si riscontra per i ruoli manageriali: come mostra il grafico (Figura 2), solo il 33% delle donne (media UE, 2019) ricopre ruoli dirigenziali.
In Italia, solo il 28% delle donne si colloca in posizioni lavorative apicali, benché il tasso delle laureate sia del 33,8% a fronte di un 29,8% di uomini in possesso di titolo di studio universitario. Per di più, il loro stipendio è del 24% inferiore rispetto a quello degli uomini.

Ridurre il gender gap è importante anche perché la disparità retributiva tra uomini e donne ha conseguenze che vanno ben oltre la dimensione lavorativa.

Essa crea un divario pensionistico di genere che, nel 2020, era pari al 28%. Essa, inoltre, risulta lesiva per l’economia di un intero Paese, in quanto le disuguaglianze di genere accrescono gli oneri gravanti sul sistema previdenziale. Al contrario, secondo i dati, la riduzione di un punto percentuale del divario retributivo di genere comporterebbe un aumento del PIL pari allo 0,1%.

Claudia Goldin conclude la sua ricerca affermando che l’uguaglianza di genere sul mercato del lavoro dipende non solo dal contesto istituzionale e dalle politiche educative di un Paese, ma anche, e più incisivamente, da politiche che riequilibrino i carichi genitoriali all’interno del nucleo familiare. Ad ogni modo, gli avanzamenti di carriera delle donne sembrano essere frenati dalla presenza di ostacoli di carattere culturale più che istituzionale, apparentemente invisibili (ad esempio il fenomeno del cosiddetto glass ceiling, “soffitto di cristallo”), che necessitano di tempi di aggiustamento più lunghi in quanto inerenti a tradizioni e abitudini di vita.

Non si può, tuttavia, negare che il successo di Goldin sia molteplice: il riconoscimento dei suoi lavori è una conferma dell’interesse del pubblico verso le disparità di genere e, al contempo, un segnale che tale divario si sta riducendo. Esso, inoltre riporta all’attenzione l’utilità dell’approfondimento interdisciplinare e, in particolare, storico-socio-culturale, per la soluzione di problemi economici attuali.

Referenze iconografiche: melitas/Shutterstock

Viviana Di Giovinazzo

Dottore di ricerca presso l'Università degli Studi di Macerata e presso l'Université Paris I Panthéon-Sorbonne, è collaboratore didattico presso l’Università di Milano Bicocca. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia del pensiero economico e il rapporto tra economia e psicologia. È autrice di diverse pubblicazioni scientifiche nel campo dell’economia comportamentale e dell’economia del benessere.