Intelligenza artificiale e intelligenza naturale
La svolta tecnologica della scrittura
Permettetemi di prenderla alla lontana. Ai tempi di Platone (V-IV secolo a.C.), la scrittura, che era di uso corrente ma specialistico - era appannaggio di una casta di scribi, di persone educate e addestrate, e la lettura avveniva di solito in comunità e ad alta voce -, incominciò a essere insegnata nelle scuole elementari dell’Attica. Questo generò molta preoccupazione soprattutto perché c’era chi sosteneva che non c’era più bisogno della educazione “vivente”: bastava imparare l’alfabeto e avere dei libri a disposizione, e il sapere era a portata di mano. Quanto dire che a essere minacciati da questa svolta tecnologica non erano i “colletti blu” (all’epoca del resto inesistenti), ma i “colletti bianchi”, anzi, nella fattispecie, i chitoni dei filosofi.
Platone presenta la situazione attraverso una favola egiziana che Socrate racconta a Fedro[1]. Nel mito si parla di Thot, semidio, che propone al faraone Thamus una serie di invenzioni, tra cui spicca la scrittura, che Thot magnifica come pharmakon, cioè come rimedio, per la memoria, non più gravata dal peso del ricordare, dal momento che basterà ricorrere alle note esterne per riportare alla mente tutto ciò che ci occorre. Il faraone conviene sul fatto che la scrittura è un pharmakon, ma nell’altro senso che questa parola ha in greco: si tratta di un veleno. Convinti di salvare tutto su scritture esterne, gli umani smetteranno di esercitare la memoria vivente, e lo stesso sapere sarà avvelenato, perché sarà affidato a testi che, senza l’assistenza del loro autore, saranno muti o, peggio ancora, esposti a fraintendimenti di ogni sorta.
L’ora della scrittura, così, diviene l’ora del dilettante, dell’autodidatta; a un certo punto Socrate chiede a Fedro se si farebbe curare da un medico che si è formato soltanto sui libri, che è pressappoco come chiedersi se sia opportuno curarsi consultando internet.
Scrittura e intelligenza artificiale
Bene: è della scrittura che stiamo parlando o della intelligenza artificiale? Non è proprio questo ciò che si rimprovera a ChatGPT? E, inversamente, che cosa è ChatGPT se non un nuovo apparato che viene ad aggiungersi ai tanti, tutti basati sulla scrittura, che hanno caratterizzato lo sviluppo della civiltà umana? Dare profondità storica al fenomeno, non lasciarsi sedurre dall’idea, ingannevole, che quello che si fa avanti è un unicum senza precedenti è, secondo me, un elemento essenziale, non soltanto per non cadere vittime delle tante possibili leggende intorno alla Intelligenza artificiale, ma soprattutto per capire i caratteri e il valore della intelligenza naturale, che continua a essere il vero pilota di tutta la trasformazione.
Facciamolo proprio partendo da Platone, che non soltanto enuncia un paradosso - la condanna della scrittura avviene per iscritto, e se non ci fosse la scrittura non ne avremmo memoria -, ma sostiene che la scrittura esterna non è che la copia manchevole della scrittura interna, del logos, del ragionamento dell’anima che apprende. Questo ci dice, attraverso la condanna della intelligenza artificiale, qualcosa di molto importante sulla intelligenza naturale. Un punto di partenza da cui non dobbiamo scostarci per capire un presente che sembra futuristico, imprevedibile e fantascientifico, ma invece ci riconduce a qualcosa di essenziale, che è insieme antico e attuale.
La mente attrezzata
In effetti, sostenendo che la nostra anima assomiglia a un libro, che è come una tavola scrittoria, Platone ci dice qualcosa di importante sulla nostra mente, che è “attrezzata”, ossia composta in larghissima misura di Intelligenza artificiale, cioè proveniente dall’esterno, da detti, pratiche e abilità che sono apprese e non possiedono alcunché di innato o di interno. In fondo, nella concezione di Platone, la nostra mente è sospesa fra due esteriorità, quella del mondo delle idee, a cui attingiamo attraverso la conoscenza, e il mondo delle infinite parti di esperienza, che costituiscono la vita della nostra mente e che, di nuovo, sono come scritture che si depongono nell’anima: un “naturale” che ha molto a che fare con l’artificiale, e un “interno” che proviene dall’esterno.
È importante osservare che qui è l’artificio che rivela la natura: si prende uno strumento, la tavola scrittoria, nella fattispecie, e si adopera l’analogia per spiegare il funzionamento del pensiero. In altri termini, è la tecnica che si manifesta come rivelazione del naturale, e non l’inverso. Questa considerazione capovolge le suggestive ipotesi[2] secondo cui le protesi tecniche deriverebbero da organi corporei: la camera oscura dall’occhio, la tenaglia dalla mandibola ecc. Perché, indubbiamente, si possono trovare analogie tra apparati tecnici e organi corporei, ma questo non significa che questi ultimi siano sorti per una funzione determinata, come degli attrezzi. In altri termini, è la camera oscura che ci permette il paragone retrospettivo con l’occhio, ed è la tenaglia che ci permette il confronto con la mascella. Perché gli strumenti sono nati con una finalità esterna esplicita, che permette di proiettare una sorta di finalità esterna agli organismi e ai loro componenti, che viceversa non hanno che una finalità interna.
Si tratta, insomma, quando si ha a che fare con un organismo, umano o non umano, di sottrarsi alla tentazione del finalismo, del pensare che l’organismo e le sue parti siano destinati a una funzione esterna, come avviene con i meccanismi. Definire la mente come una “macchina per la conoscenza”[3], in altri termini, è trascurare la circostanza che essa non è stata “fatta” per conoscere, e che la conoscenza costituisce il risultato secondario di uno sviluppo organico che, in quanto tale, non era minimamente “destinato” alla conoscenza. La mente non è fatta per conoscere più di quanto il naso sia fatto per sorreggere gli occhiali; semplicemente, un organismo si sviluppa in una direzione sotto l’effetto di un contesto sociale e tecnico, e il risultato, nella forma di vita umana, è la mente con la sua capacità conoscitiva.
La mente, dunque, non può essere definita come un attrezzo, ma piuttosto il corpo umano (e la mente come sua parte) si rivela specificamente destinato all’uso e allo sviluppo di attrezzi, che sono fatti per assecondare finalità esterne che corrispondono ai bisogni dell’organismo umano, il quale, peraltro, non ha altra finalità al di fuori di sé.
La mente incarnata
C’è un altro punto, che probabilmente per Platone contava di meno, il fatto cioè che, diversamente dalla memoria scritta nei libri, quella che si depone nelle anime è incarnata, cioè inserita in un corpo, o meglio è parte di esso. Ora, proprio questo aspetto costituisce la vera differenza tra l’intelligenza artificiale e quella naturale. Nel quadro della sua generale squalificazione del sensibile e dell’individuale, questo per Platone, era un limite, ma per noi costituisce il motivo per cui l’intelligenza artificiale non supererà mai quella naturale, non nel senso che la prima non possa essere infinitamente più performante della seconda, ma nel senso che solo l’intelligenza naturale, in quanto dotata di un corpo - che Platone considerava la tomba dell’anima - può effettivamente avere un’anima, ossia disporre di intenzioni, direzioni, paure, attese, volontà e sentimenti. Quello che, in altri termini, fa sì che siamo noi a interrogare ChatGPT e non l’inverso.
La differenza tra l’organismo e il meccanismo risulta qui dirimente. Mentre il meccanismo è progettato per compiere dei movimenti seriali, come per esempio la successione acceso/spento di una lampadina, l’organismo non ha che un’unica fase, che ha inizio con la nascita e ha la conclusione insuperabile nella morte. In questo quadro, si spiega perché un organismo possa avere pulsioni, bisogni e paure che sono completamente assenti nel meccanismo. L’organismo, in effetti, diversamente dal meccanismo, è inserito in un ciclo vitale, cioè in un movimento unico e lineare che dalla nascita conduce alla morte. È in tale ciclo che sorgono sentimenti come l’ansia, il bisogno, la noia, e poi con una crescente sofisticazione l’amore romantico o il senso della distinzione sociale.
In altri termini, nel caso dell’organismo, diversamente che in quello del meccanismo, si apre una dialettica tra natura e seconda natura. I meccanismi non hanno che una natura, lo scopo per cui sono stati fabbricati. Gli organismi possiedono invece una prima natura, che non ha altra finalità che sé stessa - si vive perché si vive, non ci sono altri motivi -, che, tuttavia, nel caso dell’organismo umano, si confronta con una seconda natura, il mondo tecnico-sociale, che potrà conferire all’organismo umano delle finalità esterne e degli scopi.
Tre insegnamenti
Che cosa ci insegna questa storia greco-egizio-americana? Essenzialmente tre cose.
Primo, che l’intelligenza artificiale è vecchia come l’intelligenza naturale e ne condivide la storia e le difficoltà: da che l’umano è umano, ha sempre inventato macchine, di volta in volta più sofisticate, ma che è almeno dal tempo della invenzione della scrittura che disponiamo di una intelligenza artificiale e negoziamo con essa. In questa negoziazione, guardare il passato è il modo migliore per pianificare il futuro.
Secondo, la favola di Platone ci suggerisce che la specificità della intelligenza naturale, non soltanto umana ma di ogni vivente, consiste nell’essere situata in un corpo, ed è proprio questo che definisce la differenza essenziale tra naturale e artificiale nell’intelligenza. Ad esempio, la distopia di una intelligenza artificiale che prende il potere guidata da una cieca volontà di potenza è implausibile perché le macchine non possiedono volontà, paure, desideri, né meno che mai smanie per il potere, che sono invece tutte caratteristiche degli organismi, dai più semplici ai più sofisticati.
Terzo, che la mente umana, essendo situata in un organismo capace di usare sistematicamente apparati tecnici, è una mente attrezzata, ossia si apre a modalità d’uso che, come tali, sono precluse all’intelligenza artificiale, che è un attrezzo essa stessa, mentre la mente umana è capace di usare attrezzi. Sono questi prolungamenti della mente e del corpo umano che fanno la differenza tra gli animali non umani e l’animale umano, che non per caso è l’unico che abbia inventato quello che, con un nome che nel tempo ha indicato cose diversissime, definiamo “intelligenza artificiale”.
Note
[1] Platone, Fedro, in Platone, Opere, a c. di G. Cambiano, Utet, Torino 2000.
[2] Florenskij, P., La proiezione degli organi (1919-1922), in Id., Stratificazioni. Scritti sull’arte e la tecnica, a c. di N. Misler, tr. it. di V. Parisi, Diabasis, Parma 2008.
[3] Clark, A., The Experience Machine. New York, Pantheon Books 2023.
Referenze iconografiche: Science Photo Library / Alamy Stock Photo