In astratto, una scelta del genere potrebbe anche avere un suo fondamento.
Riflettere sulla lingua: perché?
Il parlante madrelingua sa già maneggiare perfettamente lo strumento linguistico e può essere più produttivo farlo riflettere sulle strutture e sul funzionamento della lingua, portandolo a riconoscere quali sono i limiti di grammaticalità fino a cui ciascun parlante può spingersi. Qual è il trapassato prossimo di correre? Che cos’è il soggetto e come si riconosce? O magari: che cosa sono i verbi inaccusativi? E i verbi telici? Per una prima riflessione converrà isolare due aspetti essenziali del nostro discorso.
- È vero che il parlante madrelingua non ha bisogno di maestri. Ma questo vale, appunto, per la lingua parlata, ridotta nella gittata sintattica del periodo e con un appannaggio lessicale molto limitato (6000 parole bastano per dire quasi tutto di quel che ci serve di esprimere nella vita sociale). Il passaggio alla lingua scritta richiede strategie di appropriazione ben altrimenti sofisticate, che riguardano sia il livello lessicale e semantico, sia quello ideativo e figurale (avete mai provato a contare le immagini di origine mitologica che si leggono nelle pagine di un comune quotidiano?) sia, e soprattutto, la struttura dell’argomentazione, a partire dai momenti topici, l’esordio e la conclusione.
- Se riconosciamo che la riflessione teorica sulla lingua è formativamente utile, occorre però chiedersi: quale riflessione? Ho seri dubbi che l’armamentario ereditato dalla tradizione grammaticale serva davvero allo scopo, anche perché è solitamente presentato in modo apodittico, deprimendo la naturale variabilità di qualsiasi lingua naturale, in cui molte volte l’alternativa non è sì/no, ma si-ma (il pronome personale soggetto di 1ª persona è io, d’accordo; quello di 2ª persona è tu, ma nel registro colloquiale degli italiani centro-settentrionali può anche essere te: «Vacci te in tintoria!»; quello di 3ª persona non è quasi mai egli o ella, forme libresche: se dobbiamo veramente esprimere un pronome soggetto oggi useremmo tutti lui e lei).
I quesiti dei testi Invalsi
Il requisito postulato dal punto 1, irrinunciabile, va soddisfatto potenziando la comprensione del testo e l’arricchimento lessicale. In proposito sono eccellenti i test INVALSI somministrati nel 2013. Esemplificando dalla batteria di prove previste per la prima classe della scuola secondaria di primo grado, si apprezza prima di tutto lo spazio assegnato all'effettiva comprensione di un testo reale e alla capacità di trarre le necessarie inferenze, con meritoria apertura al rapporto tra punteggiatura e testualità; per esempio, partendo da un brano di Erri De Luca («[...] la presa era meno sicura di quello che mi ero immaginato. Mi ero impegnato, ormai»), si chiede:
Se tu volessi collegare le due frasi togliendo il punto, quale tra le seguenti parole useresti?
- Perciò
- Ma
- Infatti
- Quando
Nella sezione “Grammatica”, i dieci quesiti valorizzano lessico e semantica, che occupano opportunamente metà del campo (tre riguardano la formazione delle parole, per esempio: «In quale dei seguenti aggettivi l’a iniziale ha valore di prefisso negativo?»; uno riguarda la tipizzazione da compiere per ricondurre una parola al lemma registrato dal dizionario; uno chiede il riconoscimento di contrari); gli altri esercizi sono relativi all'ortografia (uso di accenti e apostrofi), alla morfologia (trasformazione di una frase da attiva in passiva), alla sintassi (individuazione dell’antecedente del pronome relativo del quale), all'analisi logica (individuazione di soggetto e complemento oggetto).
Quale analisi logica?
Già, l’analisi logica. È forse questo il settore su cui si dovrebbe più robustamente intervenire, sfrondando il troppo e il vano che aduggia le nostre grammatiche. Qual è l’utilità di distinguere per l’italiano tra complemento di compagnia e di unione, di specificazione e denominazione, di agente e di causa efficiente? Bisognerebbe puntare in un primo tempo sui concetti cardini (frase, soggetto, oggetto, complemento indiretto), introducendo, nel biennio delle superiori, un’adeguata problematizzazione. In un aureo volumetto, La frase: l’analisi logica (Carocci, Roma 2012), Giorgio Graffi passa in rassegna le definizioni tradizionali di “frase”, mostrandone l’insufficienza: è l’unità minima di comunicazione che esprime un senso compiuto? Ma in Mario ha detto che Gianni è arrivato, la dipendente è certamente una “frase”, priva però di autonomia semantica. È espressione di un giudizio? Ma non sono giudizi né che Gianni è arrivato né le frasi interrogative. Deve contenere sempre un modo finito? Ma sono ben diffuse, già in latino, le frasi nominali. Non è preferibile, allora, invece di insistere su tassonomie inerti, spingere a ragionare sulla lingua e sulla difficoltà di definirne anche i presupposti di analisi?
Qui si apre una questione delicata. Ferma restando l’opportunità di rinnovare l’impostazione vetero-grammaticale, riservando più tempo alla dimensione socio-linguistica (l’abbiamo sfiorata al punto 1) e a quella lessicale-semantica, è necessario chiedersi: fino a che punto ci si deve aprire alla linguistica moderna?
La risposta deve essere soprattutto ispirata al buon senso, fugando un rischio evidente: quello di introdurre una nuova tassonomia, certamente più impervia di quella tradizionale, e non necessariamente più proficua, di là dall'obiettivo di una descrizione più analitica delle forme linguistiche. Ho molti dubbi sull'utilità di parlare, a scuola, di verbi durativi e non durativi, distinguendo questi ultimi in puntuali (incontrare) o trasformativi (partire), i quali trasformativi a loro volta possono essere reversibili (partire) e irreversibili (morire)... Diverso è invece il caso dei verbi inaccusativi, termine quanto mai infelice che però definisce una categoria interessante, perché sfuma la tradizionale opposizione transitivi/intransitivi, e quindi si presta a guardare più in profondità una distinzione tradizionale fin dalla scuola primaria. Gli inaccusativi, lo ricordiamo, sono verbi intransitivi il cui soggetto presenta caratteristiche sintattiche proprie dell’oggetto dei verbi transitivi. Confrontando
- arrivare (inaccusativo)
- camminare
- vedere
ci accorgiamo che a. ammette la pronominalizzazione del soggetto con ne («Di ragazzi ne arrivano molti», a differenza di b.: *di ragazzi ne camminano molti, e a somiglianza di c.: «Di ragazzi ne vediamo molti»). Ancora: a., come c., ammette il participio, sia quando costituisce una frase implicita autonoma («Arrivato a casa, andò a dormire» = «Vista la situazione, preferì tacere» ≠ b.: *Camminato a lungo, si fermò a riposare), sia in funzione aggettivale (a.: «il treno arrivato nel secondo binario», b.: *La vecchina camminata lentamente, c.: «Le cose viste in quella casa»).
Alcune prospettive interessanti
Alcune prospettive linguistiche affermatesi nel XX secolo sono utilmente assumibili entro l’orizzonte scolastico. In primo luogo la linguistica testuale, già ampiamente entrata nella prassi didattica, che ha reso familiari agli alunni, fin dalla scuola secondaria di primo grado, nozioni basilari come “coerenza” e “coesione”. Poi la grammatica valenziale, che merita particolare attenzione. La classificazione di un verbo in base alla valenza, ossia in base agli argomenti che saturano la sua carica semantica (piovere sarà zerovalente, vivere monovalente, dare trivalente, ecc.), si fonda sul principio che si può distinguere tra complementi indispensabili perché il verbo abbia un senso ed espansioni secondarie: tradurre presuppone un soggetto, un oggetto e due complementi indiretti che indichino la lingua di partenza e quella d’arrivo («Anna ha tradotto un romanzo dal russo all'italiano»; eventuali espansioni – in tre mesi, con passione ecc. – sono marginali e non modificano la natura del verbo, che è tetravalente). Tutto bene: purché non si dimentichi che spesso il contesto fa sì che l’esplicitazione degli argomenti sia superflua («Ha tradotto Moravia in russo»: diamo per scontato che la lingua di partenza sia l’italiano) o la rende addirittura non esplicitabile («C’è stata una lotteria di beneficenza per i senza casa; Maria ha dato 100 euro, Gianni un tablet»; dato agli organizzatori, al rappresentante del comune, al parroco? Non lo sappiamo e non importa per il senso della frase). E molte volte il contesto è decisivo: viaggiare è un verbo monovalente, ma in certi casi è indispensabile il complemento indiretto che indica il mezzo di trasporto. Immaginiamo che, in un inverno piovoso, Anna dica a Paolo: «Non metterti in viaggio con questo tempo!» e Paolo risponda: «Ma io viaggio in treno!». Qui il complemento è obbligatorio (→ viaggio in treno, quindi non corro i rischi di chi usa l’auto) e rispondere semplicemente «Io viaggio» non darebbe senso o ne darebbe uno diverso (→ viaggio lo stesso, non m’importa niente del maltempo).
Insomma: la teoria è importante, ma ancora più importante è la riflessione sui testi concreti, e non solo su quelli letterari. La lingua si studia e si impara partendo dalle concrete situazioni d’uso e osservando, quando è il caso, il suo svolgimento nel tempo.
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