L’uomo è ciò che mangia
(L. Feuerbach)
Unico fra gli animali, l’uomo vuole che il suo cibo non sia solo “buono da mangiare”, ma vuole anche, citando Lévi-Strauss, che sia “buono da pensare”, perché fra tutte le cose di cui ci nutriamo vi sono anche le idee
(M. Pollan, Cotto)
Un rapporto vivo dalle origini di ogni letteratura
Il rapporto che la letteratura intesse con il cibo e le sue varie declinazioni (ossia l’alimentazione, il nutrimento fino alla gola e alla ghiottoneria; ma anche la sua assenza: la fame, la sete) è senza luogo e senza tempo. Senza luogo, perché tutte le letterature e tutte le culture hanno sentito il bisogno di portare nelle proprie pagine la relazione intima che esiste fra il cibo e l’uomo. Potremmo interrogarci sul motivo di tale persistenza. La risposta è, con tutta probabilità, che nutrirsi è esperienza essenziale all’essere umano, come quella di nascere e di morire e così come lo sono il dolore, la felicità, l’amore, i rapporti sociali ecc. Ma la relazione letteratura-cibo è anche senza tempo, poiché è documentata si può dire da sempre. Bastino questi due esempi antichi: il primo è uno degli episodi cruciali della Genesi, quello relativo al peccato originale e alla cacciata dal Paradiso terrestre, che si fonda sull’immagine del frutto dell’albero (e sempre nella Genesi è celebre il passo nel quale Esaù svende la primogenitura al fratello Giacobbe in cambio di un piatto di lenticchie). Il secondo è tratto dall’Odissea, che dedica al cibo uno spazio sorprendente: pensiamo all’orto dei Feaci dove fioriscono e fruttificano «peri e granati e meli con splendidi frutti, fichi dolcissimi e piante rigogliose d’ulivo» (trad. di G. Aurelio Privitera); oppure all’antro di Polifemo, dove «erano carichi di formaggi i graticci, eran stipati i recinti di agnelli e di capretti […] traboccavano tutti di siero i vasi ben lavorati, secchi e mastelli». Per accedere all’Ade, per entrare nell’oltretomba, Ulisse dovrà offrire una libagione di latte e miele a tutti i morti e poi sacrificare loro un montone e una pecora nera. Ma oltre al cibo dei mortali esiste anche il cibo degli dei (l’ambrosia), come possiamo leggere nell’episodio di Ulisse e la ninfa Calipso: la differenza tra uomini e divinità passa anche per la diversità del cibo di cui essi si nutrono.
Abbiamo detto che il tema del cibo esiste in tutte le culture, ed è vero. Ma, a ben guardare, c’è un motivo per il quale nella cultura occidentale e cristiana esso assume un valore ancora più significativo, addirittura unico se paragonato alle altre culture mediterranee. Nella cultura cristiana il cibo ha un posto di rilievo nell’immaginario simbolico e letterario perché con l’Eucaristia Dio si fa cibo per l’uomo. Questa sovrapposizione fra valore alimentare e spirituale del cibo è ben presente nella letteratura medievale dai Padri della Chiesa al Dante della Divina Commedia (e oltre).
Una rassegna nella letteratura novecentesca
Vorrei proporre un breve percorso sul Novecento letterario (a cui allego una scheda didattica), che non sarà naturalmente esaustivo, ma che può aiutare a comprendere quanto, anche nelle letterature più alte, sia presente un ingrediente così fondamentale come il cibo e quanto esso conti e abbia contato nella letteratura come forza immaginaria e propulsiva della narrazione. Se dovessimo mettere in rassegna tutte le opere letterarie, anche del solo Novecento, che in vari modi hanno a che fare con il cibo, l’elenco che ne risulterebbe sarebbe vasto quasi quanto l’intera produzione letteraria.
Cominciamo il nostro percorso con l’inizio del secolo. Nel 1901 esce il romanzo I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia di Thomas Mann, che narra le vicende di una famiglia della ricca borghesia commerciale di Lubecca nel corso del XIX secolo: nel susseguirsi di quattro generazioni assistiamo alla progressiva caduta delle certezze del Positivismo ottocentesco e alla nascita di un’interiorità complessa e inquieta. Già nelle prime pagine dell’opera l’autore dispone il lettore alla conoscenza dei vari componenti della famiglia attraverso un’ottima cena.
Tutti i miei complimenti, ripeto, Buddenbrook!» la voce poderosa del signor Köppen soverchiò la conversazione generale, quando la cameriera con le nude braccia rosse, il pesante abito a righe, la cuffietta bianca sulla nuca, aiutata dalla signora Jungmann e dalla cameriera della moglie del console, ebbe servito la bollente zuppa di erbaggi con il pane abbrustolito e cautamente si cominciarono a usare i cucchiai. […] I piatti furono cambiati di nuovo. Comparve un enorme prosciutto dalla crosta impanata, rosso mattone, affumicato e cotto, con salsa di scalogno bruna e aspretta e con una tale quantità di legumi che da un solo piatto tutti si sarebbero potuti saziare. Lebrecht Kröger si assunse la funzione dello scalco. I gomiti leggermente rialzati, i lunghi indici distesi sul dorso del coltello e della forchetta, tagliò con precauzione le fette sugose. Fu servito anche il capolavoro della moglie del console, la “terrina russa”, una composta di varia frutta conservata sotto spirito e piccante.
(Th. Mann, I Buddenbrook, trad. it. F. Jesi e S. Speciale Scalia, Garzanti, Milano 2003)
Il nostro percorso può continuare con Le golose, un componimento scritto nel 1907 da Guido Gozzano che descrive le signore che si concedono una dolce pausa in una pasticceria, suggerendo con l’amara ironia che caratterizza la sua poesia i desideri della media borghesia che si atteggia alle buone maniere tipiche della classe nobiliare ma che mostra vizi e debolezze tutt’altro che signorili. Il cibo diventa così uno strumento per rivelare il carattere reale delle persone al di là delle apparenze.
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Signore e signorine –
le dita senza guanto –
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine! […]
C’è quella che s’informa
pensosa della scelta;
quella che toglie svelta,
né cura tinta e forma.
L’una, pur mentre inghiotte,
già pensa al dopo, al poi;
e domina i vassoi
con le pupille ghiotte.
un’altra – il dolce crebbe –
muove le disperate
bianchissime al giulebbe
dita confetturate!
Un’altra, con bell’arte,
sugge la punta estrema:
invano! ché la crema
esce dall’altra parte!
(G. Gozzano, Le golose, in Poesie sparse, Einaudi, Torino 1977)
Proseguiamo con Grazia Deledda, la cui narrativa è ricca di descrizioni di pietanze e di interni domestici, in piena coerenza con il senso di appartenenza alla propria terra che caratterizza la sua narrativa.
Per la festa di Sant’Anastasio le famiglie anche le meno abbienti del villaggio, anche quelle che eran cariche di debiti o che avevano i figli agli studi, apparecchiavano la tavola, vi mettevan su mucchi di focacce, taglieri colmi di carne arrostita allo spiedo, formaggio, giuncata, vino e miele e aprivan la porta a chi voleva entrare a banchettare. Gli ospiti venuti dai paesi vicini, i poveri e i monelli del villaggio accorrevan come mosche: più ne venivan più i padroni erano contenti, non solo, ma nel pomeriggio, mentre le campane suonavano a distesa e pareva annunziassero che nel mondo triste era finalmente cominciato il regno di Dio, intere giovenche e colonne di focacce venivano distribuite a porzioni eguali […] agli ospiti e ai poveri che così portavano a casa, ai vecchi invalidi, agli infermi, alle donne vergognose, la cena e anche il pranzo per l’indomani.
(G. Deledda, Un po’ a tutti, in Chiaroscuro, Treves, Milano 1912)
L’esempio più celebre di cibo nella letteratura novecentesca è forse quello che possiamo leggere nella Ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, che descrive come il sapore di un piccolo dolce, la madeleine inzuppata in un infuso, sia in grado di risvegliare nell’autore una serie di ricordi legati al passato. Questa sensazione e la necessità di trasformarla in scrittura ci avverte del potere “rigeneratore” del cibo come impulso in grado di rinnovare la memoria e di dare vita all’atto stesso della scrittura.
E appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di madeleine, inzuppato nel tiglio, che mi dava la zia (benché non sapessi ancora, e dovessi rimandare a molto più tardi la scoperta del motivo per cui quel ricordo mi rendesse tanto felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, dove era la sua camera, si adattò, come uno scenario di teatro, al piccolo padiglione che dava sul giardino, costruito sul retro per i miei genitori (quel lato tronco che solo avevo rivisto fin allora); e con la casa, la città, da mattina a sera, e con qualsiasi tempo, la piazza dove mi mandavano prima di pranzo, le vie dove andavo a far delle compere, i sentieri in cui ci si inoltrava se il tempo era bello. E come in quel gioco, che piace ai Giapponesi, che consiste nell’immergere in una ciotola di porcellana piena d’acqua dei pezzetti di carta fino allora indistinti che, appena bagnati si distendono, si rigirano, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili; così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole case e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto questo che sta prendendo forma e solidità, è emerso, città e giardini, dalla mia tazza di tè.
(M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol. I: Dalla parte di Swann, trad. it. P. Pinto, Newton Compton, Roma 1990)
Il Novecento è anche il secolo delle avanguardie e della loro forza dirompente, rappresentata nella cultura italiana ed europea dal Futurismo (fondato nel 1909 con il celeberrimo Manifesto del Futurismo) che, con la sua carica dissacrante e antipassatista, predicò addirittura l’abolizione di uno dei piatti forti della nostra tradizione, la pastasciutta. Questo è quanto scrive Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del movimento, nel Manifesto della cucina futurista pubblicato nel 1931 sulla rivista «Comoedia».
Crediamo anzitutto necessaria: a) L’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana. Forse gioveranno agli inglesi lo stoccafisso, il roast-beef e il budino, agli olandesi la carne cotta col formaggio, ai tedeschi il sauer-kraut, il lardone affumicato e il cotechino; ma agli italiani la pastasciutta non giova. Per esempio, contrasta collo spirito vivace e coll’anima appassionata generosa intuitiva dei napoletani. Questi sono stati combattenti eroici, artisti ispirati, oratori travolgenti, avvocati arguti, agricoltori tenaci a dispetto della voluminosa pastasciutta quotidiana. Nel mangiarla essi sviluppano il tipico scetticismo ironico e sentimentale che tronca spesso il loro entusiasmo.
(F.T. Marinetti, Manifesto della cucina futurista, «Comoedia», 20 gennaio 1931)
La pastasciutta, bene nazionale, viene accusata di essere la causa dell’indolenza del popolo italiano in generale, e napoletano in particolare. Proseguendo nel manifesto, ecco apparire una serie di ricette considerate adatte a uno spirito originale e combattivo, come quello propugnato dai futuristi.
Esempio: per preparare il Salmone dell’Alaska ai raggi del sole con salsa Marte, si prende un bel salmone dell’Alaska, lo si trancia e passa alla griglia con pepe e sale e olio buono finché è bene dorato. Si aggiungono pomodori tagliati a metà preventivamente cotti sulla griglia con prezzemolo e aglio. Al momento di servirlo si posano sopra alle trancie dei filetti di acciuga intrecciati a dama. Su ogni trancia una rotellina di limone con capperi. La salsa sarà composta di acciughe, tuorli d’uova sode, basilico, olio d’oliva, un bicchierino di liquore italiano Aurum, e passati al setaccio.
(Formula di Bulgheroni, primo cuoco della Penna d’Oca [all’epoca, un noto ristorante di Milano]).
Il pranzo di Babette è un racconto scritto nel 1950 da Karen Blixen (autrice anche di La mia Africa), nel quale un’ex cuoca francese fuggita dalla sua patria perché accusata di essere una rivoluzionaria, trova ospitalità presso due sorelle non sposate che vivono in un piccolissimo paese norvegese. Le due donne, figlie di un pastore seguace di una confessione particolarmente rigida del protestantesimo, conducono una vita molto sobria e accolgono Babette con loro come governante. Dopo alcuni anni, Babette vince il premio di una lotteria francese, 10.000 franchi, una somma ragguardevole che le avrebbe permesso di ritornare in Francia a condurre una vita agiata. La donna, invece, decide di preparare un pranzo in ricordo del padre delle sue anziane ospiti, di cui ricorre il centesimo anniversario della nascita, invitando i dodici abitanti del villaggio. Il pranzo è sontuosissimo, a dispetto della sobrietà nella quale sono vissute le sorelle e i loro compaesani, e richiede giorni di preparazione e ingredienti selezionatissimi che Babette si fa mandare dalla Francia (foie gras, tartufi ecc.). Il risultato è fenomenale, degno di quella grandissima cuoca che si rivela essere Babette, che viene a spendere interamente la cifra vinta alla lotteria per la gratitudine che prova verso le persone che l’hanno accolta e le hanno dato un tetto in tutti questi anni.
Il generale Loewenhielm, che sospettava un poco di quel vino, ne bevve un sorsetto, sussultò, sollevò il bicchiere prima all’altezza del naso e poi degli occhi, e lo posò poi, sbalordito. “Che strano!” pensò. “Amontillado! E del miglior Amontillado che abbia mai assaggiato”. Dopo un attimo, per mettere alla prova le reazioni del suo gusto, prese una mezza cucchiaiata di minestra, poi una cucchiaiata piena, e posò il cucchiaio. “È veramente strano!” disse a se stesso, “perché sto certamente bevendo brodo di tartaruga... e che brodo di tartaruga!” [...] Quando fu servita una nuova pietanza rimase in silenzio. “Inaudito!” disse a se stesso, “questo è Blinis Demidoff!” Si guardò intorno, osservò i suoi compagni di tavola. Mangiavano tutti calmi calmi il loro Blinis Demidoff, senza dar mai segno di stupore o di approvazione, come se lo avessero mangiato ogni giorno per trent’anni di fila [...] Il generale Loewenhielm posò di nuovo il bicchiere, si rivolse al suo vicino di destra e gli disse: “Ma questo è certamente un Veuve Cliquot 1860!” Il vicino lo guardò cortesemente, gli sorrise e fece un’osservazione sul tempo.
(K. Blixen, Il pranzo di Babette, in Capricci del destino, trad. it. P. Ojetti, Feltrinelli, Milano 1989)
Proprio come Il pranzo di Babette, anche un altro celebre romanzo del Novecento ha goduto di una fortunata trasposizione cinematografica: si tratta del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che, scritto nella metà degli anni cinquanta e pubblicato postumo nel 1958, ci riconduce nell’Ottocento siciliano nel bel mezzo di gustose descrizioni di banchetti nobiliari, nei quali non solo il sapore dei cibi ha la sua importanza, ma anche il loro aspetto e la loro presentazione. È proprio durante la sontuosa cena organizzata nell’occasione della riapertura annuale del palazzo di Donnafugata che appare la figura di Angelica, di cui il principe fatalmente si innamora. È così che gusto del cibo e gusto (immaginato) dei piaceri amorosi si fondono in un abbraccio di sapori.
L’oro brunito dell'involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroni corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio. L’inizio del pasto fu, come avviene in provincia, raccolto. L’arciprete si fece il segno della croce, e si lanciò a capofitto senza dir parola. L’organista assorbiva la succolenza del cibo ad occhi chiusi: era grato al Creatore che la propria abilità nel fulminare lepri e beccacce gli procurasse talvolta simili estasi, e pensava che col solo valore di uno di quei timballi lui e Teresina avrebbero campato un mese; Angelica, la bella Angelica, dimenticò i migliaccini toscani e parte delle proprie buone maniere e divorò con l’appetito dei suoi diciassette anni e col vigore che la forchetta tenuta a metà dell’impugnatura le conferiva. Tancredi, tentando di unire la galanteria alla gola, si provava a vagheggiare il sapore dei baci di Angelica, sua vicina, nel gusto delle forchettate aromatiche, ma si accorse subito che l’esperimento era disgustoso e lo sospese, riservandosi di risuscitare queste fantasie al momento del dolce; il Principe, benché rapito nella contemplazione di Angelica che gli stava di fronte, ebbe modo di notare, unico a tavola, che la démi-glace era troppo carica, e si ripromise di dirlo al cuoco l’indomani; gli altri mangiavano senza pensare a nulla, e non sapevano che il cibo sembrava a loro tanto squisito perché un’aura sensuale era penetrata in casa.
(G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 2010)
Giovannino Guareschi pubblicò nel 1954 il Corrierino delle famiglie riunendo in volume le storielle che andava scrivendo per una rubrica da lui curata sul settimanale umoristico «Candido». Le storie che hanno per protagonisti lo scrittore e la sua famiglia (la moglie Margherita, i figli Carlotta, detta la Pasionaria, e Alberto) narrano vicende della vita quotidiana, come questa della Torta Purgatorio – che andrebbe letta integralmente per essere gustata nella sua pienezza – nella quale la famiglia Guareschi si trova alle prese con la preparazione di una Torta Paradiso alquanto anomala.
“Fai la torta ‘Paradiso’?” domandò Albertino.
“No“ rispose Margherita.
“Magari fa la torta ‘Purgatorio’” borbottò la Pasionaria.
“Cerca di stare zitta, tu” esclamò minacciosa Margherita. “E vergognati di ricambiare con tanta villania il mio gentile pensiero!” […]
“Ho la ricetta per una torta speciale” spiegò. “Una torta soffice come la bambagia e senza quei dannati grassi che rendono indigeribili le torte in genere. Solo uova, zucchero, fecola e un po’ di lievito” […].
Uova, fecola, zucchero: Margherita accetta la formula e parte, per esempio, con le uova e lo zucchero incominciando a sbattere il tutto dentro un tegame. Poi, ritenendo di dover diluire l’impasto, aggiunge marsala. E, ottenuto un impasto troppo fluido, lo condensa aggiungendo biscotti savoiardi. Per amalgamare la poltiglia la passa con lo spremiverdura e via discorrendo. […]
Si trattava di ammorbidire la torta e io, staccatone un pezzetto, provai a intingerlo nel latte. Non assorbiva per niente. Allora col batticarne tritammo tutta la torta a pezzettini e macinammo i pezzettini nel tritacarne. Raccolsi la polvere così ottenuta in un tegame e la stemperai con vino Moscato. Ne saltò fuori una pappetta languida che non prometteva niente di buono. Aggiunsi farina, uova e zucchero e impastai ottenendo un blocco di roba molto rugosa. […] Spolverammo con zucchero velato. Estraemmo con delicatezza la neo-torta dalla teglia. Non aveva la morbidezza desiderata ma ormai niente poteva fermarci. Albertino andò a prendere sul mio tavolo da disegno lo spruzzatore e io feci cadere sopra la torta una rugiada leggerissima di vino bianco. Passammo alla decorazione: crema, nocciole, confetti macinati, uva passa, frutti canditi. Tre uomini in gamba quali siamo Albertino, la Pasionaria ed io, ci mettono poco a cavar fuori un capolavoretto ornamentale. […] Quando, alla fine del pranzo, la torta venne in tavola, fu un successo.
Ma quando ognuno di noi ebbe la sua fetta di torta sul piatto ci guardammo perplessi: chi l’avrebbe assaggiata per primo? La Pasionaria, forte e generosa, si immolò e mandò giù un grosso boccone di torta.
“È straordinaria!” esclamò.
(G. Guareschi, La torta purgatorio, in Corrierino delle famiglie [1954], Rizzoli, Milano 2013)
Un altro passaggio significativo del nostro percorso è nel romanzo Palomar di Italo Calvino, pubblicato nel 1983. Un racconto è dedicato al Museo del formaggio e ci mostra il protagonista Palomar in un negozio parigino di formaggi. Mentre si trova in coda egli riflette su quale sia il formaggio migliore per lui, ma rimane affascinato dalla varietà degli esemplari caseari presenti nel negozio, che per lui rappresenta un museo, un dizionario di forme e possibilità di cui vorrebbe catalogare e apprendere le qualità. Egli si perde immaginando ciò che c’è dietro ogni formaggio: il pascolo verde che lo ha prodotto, i prati profumati della Provenza, i segreti della sua lavorazione.
Questo negozio è un museo: il signor Palomar visitandolo sente, come al Louvre, dietro ogni oggetto esposto la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da esso prende forma. Questo negozio è un dizionario; la lingua è il sistema dei formaggi nel suo insieme: una lingua la cui morfologia registra declinazioni e coniugazioni in innumerevoli varianti, e il cui lessico presenta una ricchezza inesauribile di sinonimi, usi idiomatici, connotazioni e sfumature di significato, come tutte le lingue nutrite dall'apporto di cento dialetti. È una lingua fatta di cose; la nomenclatura ne è solo un aspetto esteriore, strumentale; ma per il signor Palomar impararsi un po’ di nomenclatura resta sempre la prima misura da prendere se vuole fermare un momento le cose che scorrono davanti ai suoi occhi.
Estrae di tasca un taccuino, una penna, comincia a scriversi dei nomi, a segnare accanto a ogni nome qualche qualifica che permetta di richiamare l’immagine alla memoria; prova anche a disegnare uno schizzo sintetico della forma. Scrive pavé d’Airvault annota «muffe verdi», disegna un parallelepipedo piatto e su un lato annota «4 cm circa»; scrive St. Maure, annota «cilindro grigio granuloso con un bastoncino dentro» e lo disegna, misurandolo a occhio «20 cm»; poi scrive Chabicholi e disegna un piccolo cilindro.
- Monsieur! Houhou! Monsieur! - Una giovane formaggiaia vestita di rosa è davanti a lui, assorto nel suo taccuino. È il suo turno, tocca a lui, nella fila dietro di lui tutti stanno osservando il suo incongruo comportamento e scuotono il capo con l’aria tra ironica e spazientita con cui gli abitanti delle grandi città considerano il numero sempre crescente dei deboli di mente in giro per le strade. L’ordinazione elaborata e ghiotta che aveva intenzione di fare gli sfugge dalla memoria; balbetta; ripiega sul più ovvio, sul più banale, sul più pubblicizzato, come se gli automatismi della civiltà di massa non aspettassero che quel suo momento d'incertezza per riafferrarlo in loro balìa.
(I. Calvino, Palomar, Mondadori, Milano 1994)
All’incapacità di scegliere di Palomar fanno da contraltare i robusti pranzi e le cene succulente del commissario Montalbano, personaggio ideato da Andrea Camilleri che gode della simpatia di numerosi lettori e di una grande fetta di pubblico televisivo. Nelle pietanze preparate dalla fedele cameriera Adelina o dal suo ristoratore di fiducia Enzo, seguite dalla celebre “passiata a ripa di mare” (passeggiata sulla spiaggia), per il commissario il cibo è un momento di pausa e di decongestione dall’impegno investigativo, da consumare in raccolto e quasi religioso silenzio.
Raprì il frigo e fece un nitrito di pura felicità. La cammarera Adelina gli aveva fatto trovare due sauri imperiali con la cipollata, cena con la quale avrebbe certamente passato la nottata intera a discuterci, ma ne valeva la pena. Per quartiarsi le spalle, prima di principiare a mangiare volle assicurarsi se in cucina c’era il pacchetto del bicarbonato, mano santa, mano biniditta. Assittato sulla verandina, si sbafò coscienziosamente tutto, nel piatto restarono le resche e le teste dei pesci così puliziate da parere reperti fossili.
(A. Camilleri, La gita a Tindari, Sellerio, Palermo 2000)
Arrivarono al ristorante “Peppucciu ’u piscaturi”, sulla strata per Fiacca, che erano squasi le deci. Il commissario aveva prenotato un tavolo pirchì quel locale era sempre chino di genti. […] Menu: antipasto di mare (anciovi fatte còciri nel suco di limone e condite con oglio, sali, pepe e prezzemolo; anciovi “sciavurusi” al seme di finocchio; ’nsalata di purpi; fragaglia fritta); primo piatto: spaghetti alla salsa corallina; secondo piatto: aragusta alla marinara (cotta sulla braci viva, condita con oglio, sali e tanticchia di prezzemolo). Si scolaro tri buttiglie di un vino bianco tradimintoso: pariva infatti calare come acqua frisca, ma doppo, ’na volta ch’era dintra, partiva ’n quarta e addrumava il foco.
(A. Camilleri, Il campo del vasaio, Sellerio, Palermo 2008)
Nella letteratura il cibo è ricercato, sognato, consumato, divorato. In molti casi al momento del cibo corrisponde un punto focale o uno snodo significativo della narrazione, come nei testi della breve carrellata che qui abbiamo presentato: questo perché il cibo è segno della socialità e della convivialità e conserva ancora, nonostante la nostra cultura sia ormai massificata e globalizzata, quel valore sacrale che gli appartiene fin dall’antichità, e che risulta ben testimoniato da quel grande sedimento della vita e dell’esperienza dell’uomo che è la letteratura.
Bibliografia
Sul rapporto tra letteratura e cibo esistono molte risorse in rete, alcune davvero ben fatte, che consentono di approfondire il tema. Tra le risorse a stampa rimando a:
- I libri della collana “Leggere è un gusto!” dell’editore Il Leone verde, che ha pubblicato una serie di monografie dedicate ognuna a uno scrittore diverso: da Boccaccio a Manzoni, da Thomas Mann a Andrea Camilleri, da Luchino Visconti a Italo Calvino.
- Emily Gowers, La pazza tavola. Il cibo nella letteratura romana, SEI, Torino 1996.
- La sapida eloquenza. Retorica del cibo e cibo retorico, a cura di C. Spila, in «Studi (e testi) italiani» n. 12, 2003 Bulzoni.
- Voce monografica Cibo e letteratura in Le Garzantine. Letteratura, Garzanti, Milano 2007.
- Massimo Gatta, Bibliofilia del gusto. Dieci itinerari tra libri, letteratura e cibo, Biblohaus, Milano 2008.
- Gian Luigi Beccaria, Misticanze. Parole del gusto, linguaggi del cibo, Garzanti, Milano 2009.
- Banchetti letterari. Cibi, pietanze e ricette nella letteratura da Dante a Camilleri, a c. di G. Anselmi, G. Ruozzi, Carocci, Roma 2011.
- Silvana Ghiazza, La funzione del cibo nel testo letterario, Wip edizioni, Bari 2011.
Scheda didattica
Referenze iconografiche: Everett Collection / Bridgeman Images