Donne e rivoluzione
Il problema del ruolo politico delle donne, di cui ancora oggi si discute, si pone per la prima volta in Europa con la rivoluzione francese. La rivoluzione, d’altro canto, si limita a mettere il tema all’ordine del giorno dando visibilità alle voci a favore dell’ingresso delle donne nelle istituzioni e della loro emancipazione dall’autorità maschile, senza peraltro portare sostanziali modifiche al diritto e al loro ruolo nella società. Se i “nemici della rivoluzione” accusano i rivoluzionari di aver stravolto l’ordine sociale, dando potere alle donne e liberandole dai ruoli tradizionali, in realtà molti rivoluzionari, circa questo tema, sono moderati o addirittura reazionari. L’idea che le donne assumano pari potere decisionale degli uomini è insopportabile e la rivoluzione ha il compito esclusivo di far leggi che migliorino la loro condizione, senza sovvertire la loro natura di madri e mogli, come sostengono i giacobini. La Dichiarazione del 1789, del resto, riconosce il diritto degli individui alla libertà (di opinione, di scelta, di integrità della persona e dei beni), senza fare riferimento alle donne. Un passo avanti lo fanno la Costituzione del 1791 e le leggi del 1792, subito disattese, che stabiliscono che i coniugi sono parimenti responsabili in caso di divorzio, presentando così la donna come cittadina libera di gestire se stessa.
In quegli anni, oltre al testo di Condorcet Sur l’admission des femmes au droit de cité (luglio 1790), in cui si sostiene che le donne sono il simbolo dell’ineguaglianza all’interno della razza umana per una “dimenticanza” da parte degli uomini illuminati, vengono pubblicati due testi fondamentali scritti da donne.
Il primo è Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne (Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina) del settembre 1791, scritta da Olympe de Gouges in cui si afferma che la tirannide esercitata sulle donne sia all’origine di ogni inuguaglianza e la rivoluzione non abbia fatto altro che cambiare loro padrone: la Dichiarazione del 1789, fingendo di parlare a tutta la comunità, coniuga i diritti al maschile. La donna, seppur biologicamente ed emotivamente diversa, «nasce libera e ha gli stessi diritti dell’uomo» (teoria della differenza).
Il secondo è Vindication of the Rights of Woman (1792), di Mary Wollstonecraft, che pone il problema della libertà femminile nel poter svolgere nella società ogni tipo di attività e carriera, di possedere diritti di cittadinanza, di poter decidere del proprio destino esattamente come gli uomini (teoria dell’eguaglianza).
Ottocento e presa di coscienza
La rivoluzione innesca in Europa il germe di molti cambiamenti sociali, che si radicano, nonostante la volontà dei monarchi restaurati di riportare le cose all’Antico regime. Già Napoleone blocca i tentativi di liberazione delle donne con il Codice Civile (1804), restituendo grande valore alla figura del pater familias.
La storia del pensiero però ha oramai fatto il suo corso e le rivendicazioni delle donne cominciano a prendere forma poco alla volta.
Con il nome di emancipazioniste (L’emancipazione femminile) vengono definite le donne che nell’Ottocento hanno militato per ottenere diritti e libertà: uguale accesso allo studio, alle professioni, all’amministrazione dei beni, ai diritti politici, sia attivi che passivi, concessi fino a quel momento ai soli cittadini maschi.
Due sono gli indirizzi del femminismo del XIX secolo: il dualista e l’egualitario.
La concezione dualista fa leva sulle differenze fra uomini e donne, tra cui la questione dell’istinto materno, che rendono le donne addirittura migliori degli uomini e degne di essere cittadine almeno alla pari degli uomini. La concezione egualitaria, che riprende il pensiero della Wollstonecraft e che avrà un ampio seguito in Europa, propone invece l’uguaglianza politica in nome della comune appartenenza al genere umano.
Riviste e associazioni sono gli strumenti con cui si divulgano le nuove idee. A partire dagli anni cinquanta dell’Ottocento si diffonde la stampa femminista in Inghilterra (“The Lily”, “The Una”, “The Liberator”, “The Englishwoman’s Journal”); in Francia (“La Voix des Femmes”, “L’Opinion des Femmes”, “La Fronde”); In Germania, (“Gleichheit”, organo delle socialiste tedesche); in Italia (“La donna”). Prima negli Stati Uniti e in Francia, poi anche negli altri stati europei (soprattutto a seguito delle sollevazioni del 1848, che vedono partecipi un alto numero di donne), sorgono centinaia di associazioni femministe, con programmi diversi. Molte sono legate alle nuove idee politiche, socialista e liberale. I socialisti sono i primi a inserire in un pensiero più articolato – quello della lotta di classe – l’idea di emancipazione femminile e si dichiarano per l’uguaglianza dei sessi: liberazione della donna e degli oppressi sono diverse facce di un’unica medaglia. La diffusione di tali idee è però osteggiata ovunque dalle leggi, come in Germania, dove la legislazione antisocialista decade nel 1890.
In Inghilterra nascono le principali associazioni liberali: la National Society for Women’s Suffrage, in cui militano le suffragiste, note con il dispregiativo “suffragette”, sotto la presidenza di Lydia Becker, che si batte per il diritto di voto, e la Ladies’ National Assotiation di Josephine Butler, contro lo sfruttamento sessuale delle donne. Queste associazioni si propongono di modificare le leggi contro gli abusi e l’arbitrarietà del diritto, pur senza mettere in discussione l’intero assetto sociale.
Risorgimento ed emancipazione
In Francia il diritto delle donne alla cittadinanza fu, come si è detto, uno dei temi centrali della Rivoluzione. Protagoniste sono quelle donne in grado, grazie alla loro cultura, di riflettere sul tema e di esprimere opinioni in proposito. Nel triennio giacobino (1797-1799) la loro attenzione si focalizza sulla messa in discussione del diritto di famiglia, fondato sull’autorità maschile, che impone di sposarsi secondo calcoli materiali e accordi fra famiglie, senza tenere conto di sentimenti e inclinazioni, e che vede i fratelli maschi eredi dei beni di famiglia.
In Italia, a causa delle sorti alterne delle Repubbliche giacobine e dello sparuto numero di donne intellettuali, gli interventi di chi, pur aderendo agli ideali rivoluzionari, critica la lentezza dei provvedimenti repubblicani in favore delle donne non sono molti. Spesso vengono pubblicati anonimi, per sottolineare come le donne siano soggetto plurale. Il testo più noto è La causa delle Donne, che sottolinea la superiorità delle donne, motivo stesso dell’oppressione perpetrata dagli uomini, che temono l’intelligenza femminile. Il pamphlet si chiude sottolineando il nesso fra partecipazione femminile e democrazia, senza il quale non si può uscire da una situazione reazionaria e oppressiva per tutti.
Questi temi sono ripresi ed elaborati nel periodo risorgimentale, quando alcune donne altolocate, tra cui Clara Maffei e Cristina Trivulzio Belgiojoso, cominciano a far valere la loro influenza politica, battendosi per la causa unitaria e ospitando nei loro salotti intellettuali e patrioti. Esse, oltre a sostenere le lotte risorgimentali, si impegnano per un cambiamento culturale e si circondano di reti di solidarietà femminili. Legami parentali, affettivi e politici uniscono per esempio Matilde Viscontini Dembowski, attiva nei moti del 1821 con le cugine Bianca e Francesca Milesi, e con le patriote Teresa Casati, Costanza Arconati, Maria Frecavalli.
Le patriote reclamano per sé nuove condizioni di vita, maggiore libertà, diritti civili e politici e la possibilità di essere parte attiva dello stato che si sta creando e del quale contribuiscono alla formazione. A tal proposito, ha scritto Annarita Buttafuoco: «La storia del processo politico-sociale attraverso il quale [...] si giunse all’unità d'Italia, è costantemente segnata dal problema di definire il ruolo delle donne nel nuovo Stato, nella società, nella famiglia». Soprattutto le mazziniane, come Giuditta Sidoli, Sarah Nathan, Laura Solera Mantegazza e Maria Drago, sono incarnazione di ciò: non si limitano ad asserire la causa nazionale, ma partecipano all’attività cospirativa, elaborano infine, in pamphlet e carteggi, un pensiero articolato sulla propria condizione, e forniscono assistenza economica alle famiglie dei patrioti, alle donne bisognose e alle giovani lavoratrici. Laura Solera Mantegazza fonda a Milano, con Giuseppe Sacchi, gli asili infantili per lattanti e figli di operaie e, subito dopo l’Unità, l’Associazione Generale delle Operaie (1862), una società di mutuo soccorso, per l’istruzione e l’assistenza. Sarah Nathan avvia a Roma, in Trastevere, una scuola laica per figli delle operaie. Il filantropismo emancipazionista non si basa sulla carità, vuole bensì dare alle donne gli strumenti – come l’educazione – per farle proseguire da sole nella loro strada e farle divenire cittadine consapevoli.
Rivendicazioni post-unitarie
Dopo l’Unità, un gruppo di lombarde promuove una petizione con cui chiede che siano riconosciuti alle donne i diritti previsti dal Codice austriaco, più avanzato per quel che concerne l’amministrazione dei beni. Il Codice pisanelli, introdotto nel 1865, si configura infatti come arretrato rispetto ai precedenti della Toscana e del Lombardo-Veneto: ribadisce l’autorità maritale (nella gestione del patrimonio, in caso di separazione e nelle scelte familiari) ed esclude le donne dal voto amministrativo (presente in Toscana e nel Lombardo-Veneto per le benestanti).
Le femministe chiedono da subito l’emancipazione dalla tutela del marito, in nome della funzione educatrice che le donne svolgono con i figli. Il tema della maternità e dell’educazione sono centrali: la donna, in quanto madre (o potenzialmente tale), ha una superiorità morale rispetto all’uomo. Nasce la battaglia a favore delle madri nubili, sia per la ricerca della paternità sia contro i pregiudizi nei confronti delle donne che partoriscono al di fuori del matrimonio. Il motivo della maternità come elemento caratterizzante il femminile non è però condiviso da tutte. Una delle più note attiviste per i diritti, Anna Maria Mozzoni, denuncia l’arretratezza della legislazione piemontese estesa all’Italia unita, asserendo che i diritti delle donne devono essere identici a quelli maschili. Le cittadine del nuovo Stato devono dunque richiedere parità giuridica, riforma del diritto di famiglia, pene severe contro lo stupro e diritto di lavoro in ogni settore, produttivo e culturale.
Nel 1877 la Mozzoni scrive la Petizione per il voto politico delle donne, con cui si apre il dibattito sul tema. Nonostante tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento la mobilitazione in questo senso si faccia più ampia, il diritto di voto non viene concesso né nella legislazione del 1882, né in quella del 1912 (bisognerà infatti attendere il 1945).
In questi anni le reti femminili sono ancora alla base del proliferare delle idee e dello scambio intergenerazionale. Nel 1868 Gualberta Beccari fonda a Venezia la rivista “La Donna”, una delle principali voci del dibattito emancipazionista. La Beccari è affettivamente legata ad Adelaide Cairoli, la “madre cittadina”, che ha offerto quattro figli alla patria durante le lotte risorgimentali. Le emancipazioniste Ada e Beatrice Sacchi sono nipoti della patriota Luisa Riva e figlie di Elena Casati Sacchi, amica di Mazzini. Alessandrina Ravizza e Rina Faccio, divenuta una famosa scrittrice con lo pseudonimo Sibilla Aleramo, hanno per anni una stretta corrispondenza epistolare.
Queste reti spesso approdano a progetti concreti: nel 1881, la Mozzoni e Paolina Schiff fondano a Milano la Lega promotrice degli Interessi Femminili (aperta anche agli uomini), in cui i nomi delle socie restano segreti, per evitare che la loro lotta per l’emancipazione possa in qualche modo penalizzarle. La Lega si occupa principalmente di tutela sul lavoro: infatti in Italia nel 1881 le operaie sono oltre un milione e 600 mila e mancano le leggi a difesa delle lavoratrici.
Il tema del lavoro
Le leghe, che si moltiplicano a fine Ottocento, mettono all’ordine del giorno la discussione sul lavoro delle donne: orari estenuanti e paghe basse in fabbrica, lavoro domestico e cura della famiglia a casa. Le leghe si appoggiano spesso al Partito socialista, l’unico a favore della parità di salario fra uomo e donna, anche se i rapporti con il partito non sono lineari. Gli uomini di partito infatti non sempre sono disposti a mettere in discussione la leadership e spesso assumono un atteggiamento apertamente o velatamente maschilista o semplicemente in linea con la cultura e i valori dominanti. Le leghe vengono sciolte a seguito della stretta reazionaria dopo i moti di Milano del 1898.
Nascono anche le prime controversie fra donne sul tema del lavoro. Nel 1897, il Gruppo Femminile Socialista di Milano, guidato da Anna Kuliscioff, redige un progetto per il miglioramento della condizione lavorativa delle donne, per evitarne lo sfruttamento (settimana lavorativa di 48 ore, divieto di impiego per lavori insalubri, no al lavoro notturno e un mese di congedo prima e dopo il parto). La Mozzoni non è d’accordo: serve una tutela al lavoro delle donne ma, così facendo, il rischio è che queste vengano allontanate dalle fabbriche e relegate nuovamente nelle case. Per la Mozzoni il diritto al lavoro delle donne non deve essere limitato per legge e le lavoratrici devono chiedere condizioni di lavoro pari a quelle maschili e migliori per tutti: “Non accettate protezioni, esigete giustizia!”, è il suo appello.
Il Primo Congresso Nazionale delle Donne
Tra la fine del secolo e i primi del Novecento il panorama associazionistico diventa ancora più articolato. Nel 1899, a Milano, nasce l’Unione femminile e, a Roma, l’Associazione per la Donna, mentre viene indetta la prima manifestazione pacifista internazionale delle donne all’Aia. Nei primi anni del Novecento nasce il movimento cattolico, nelle cui fila le donne rivendicano autonomia, riuscendo a collaborare con le femministe laiche e socialiste su temi come il diritto di voto e la presenza femminile nel sociale. Il Primo Congresso Nazionale delle Donne del 1908 vede partecipi più di 1400 donne, delegate di organizzazioni e associazioni, ma viene criticato da molte per la tenuità con cui vengono trattati i temi. Inoltre il movimento suffragista si divide: le socialiste, che si battono per sconfiggere l’oppressione di classe e di genere, si presentano molto distanti dalle borghesi, che si accontenterebbero del voto su base censitaria. Anche fra i socialisti la situazione è in fermento: sul terreno pratico delle lotte per il suffragio femminile il Partito si è dimostrato ambiguo e nasce un’aspra polemica interna.
Di lì a poco, lo scoppio della Grande guerra pone momentaneamente fine al dibattito sui diritti delle donne ma, visto l’apporto che queste daranno durante il conflitto, dimostrando di poter sostituire gli uomini al fronte in qualsiasi lavoro e incombenza, le lotte per l’emancipazione sono solo sospese.
Olympe de Gouges (1748-1793)
Marie Gouze, nata nel 1748 a Montauban, oggi nel dipartimento di Tarn e Garonna, figlia naturale del marchese Lefranc de Pompignan, viene riconosciuta e allevata da Pierre Gouze, un macellaio. Nel 1765 si sposa e ha un figlio, Pierre, ma rimane vedova poco più tardi. L’esperienza matrimoniale è per lei deludente al punto tale che si ripromette di non sposarsi più. Dopo la morte del marito, si trasferisce a Parigi dalla sorella, dove vuole dare al figlio un’educazione, e cambia il suo nome in Olympe de Gouges. In città conosce e frequenta diversi uomini e comincia a scrivere commedie, tra le quali L’Esclavage des Noirs (1792), contro la schiavitù, che la rende famosa e le costa anche la prigione. Dal 1788 comincia ad occuparsi di politica e scrive opuscoli e pamphlet patriotici, come la Lettera al Popolo e le Osservazioni patriottiche, in cui si dichiara favorevole a una monarchia costituzionale. Nel 1791 pubblica la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne, che fa eco alla Dichiarazione del 1789 e che intende presentare all’Assemblea Nazionale. Olympe si rivolge alla regina e sostiene che la Dichiarzione del 1789 “dimentica” le donne, le quali possono essere giudicate e condannate a morte come gli uomini, ma non godono degli stessi diritti civili e politici. Nel 1792, aderisce alla fazione girondina e si oppone all’uccisione di Luigi XVI; denuncia Marat per le stragi del 2 e 3 settembre 1792, quando migliaia di persone furono massacrate a Parigi e in provincia; accusa Robespierre di aspirare alla dittatura. In seguito si oppone alle leggi giacobine con scritti che vengono censurati. Il 6 agosto 1793 viene accusata per le sue posizioni politiche e condotta in carcere. Il 3 novembre viene ghigliottinata a Parigi.
Anna Maria Mozzoni (1837-1920)
Nasce a Rescaldina, vicino a Milano, il 5 maggio 1837, da una famiglia nobile con scarse risorse economiche e viene educata in un collegio per giovani nobili, in un ambiente reazionario. All’uscita dal collegio, grazie alla biblioteca del padre e alla sua curiosità, studia da autodidatta i classici, gli illuministi e i pensatori politici contemporanei, tra cui Giuseppe Mazzini e George Sand, grazie alla quale si avvicina alla tematica femminista. Ha in giovane età una figlia fuori dal matrimonio, Bice, che porta il suo cognome. Nel 1864 pubblica La donna e i suoi rapporti sociali, in cui afferma che lo stato non può imporre alle cittadine solo doveri, ma deve riconoscerne anche i diritti. Nel 1870 traduce The Subjection of Women di John Stuart Mill. Si impegna per riformare la didattica nelle scuole, collabora con riviste mazziniane e garibaldine, si presta per far nascere organizzazioni femministe in tutta Italia e porta avanti una lotta radicale per abolire la prostituzione, da lei definita “l’indegna schiavitù”. Nel 1868 è tra le fondatrici della rivista “La Donna” e, nel 1881, fonda la Lega promotrice degli interessi femminili, che sostiene la nascita del Partito Socialista, con cui collabora in diverse occasioni pur senza aderirvi e mostrando anche visioni apertamente divergenti. Si esprime più volte sul diritto di voto (nel 1906 assieme a Teresa Labriola e Maria Montessori). Quando la legge del 1912 esclude ancora una volta le donne dal suffragio, Anna Maria è delusa e si ritira a vita privata. Muore a 83 anni, il 14 giugno 1920.
Anna Kuliscioff (1855-1925)
Nata il 9 gennaio 1855 in Crimea da una famiglia di origine ebraica, Anna Razenštejn, studia in Svizzera, dove le donne sono ammesse ai corsi universitari. La sua passione è fin da giovane la politica e, in Russia, si avvicina al movimento nichilista e alle idee anarchiche di Michail Bakunin, che propone di «andare verso il popolo», cioè di sostenere le lotte dei contadini, andando nei villaggi e lottando contro il loro stato di oppressione economica, fisica, morale. Ricercata, lascia il paese nel 1877, torna in Svizzera e si fa chiamare Kuliscioff, in russo “manovale”, per sfuggire alla polizia. Qui conosce l’anarchico Andrea Costa e con lui si trasferisce a Parigi e poi in Italia, dove viene incarcerata, restando per oltre un anno senza processo e contraendo la tubercolosi, che non le darà pace per tutta la vita. Anna e Andrea hanno una figlia, Andreina, ma la loro relazione termina nel 1881 e Anna torna in Svizzera con la bambina, dove si laurea in medicina. Trasferitasi a Milano, diventa la “dottora dei poveri” e si avvicina al marxismo. Nel 1885 conosce Filippo Turati a cui si lega sentimentalmente per oltre quarant’anni. La loro casa a Milano diviene la redazione di “Critica sociale”, la rivista del socialismo italiano. Nel 1892 è tra i fondatori del Partito socialista italiano e diviene un punto di riferimento del socialismo riformista. Viene arrestata e torturata a seguito dei moti del 1898. Muore a Milano nel 1925: il suo funerale è preso di mira dai militanti fascisti, che si scagliano contro il corteo funebre.
Bibliografia
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- F. Pieroni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia (1848-1892), Einaudi, Torino 1975.
Referenze iconografiche: Bridgeman Image