Matematica e Musica
Pitagora e Brian May cosa avranno mai in comune?
Per iniziare: Pitagora come Brian May
Crotone, 500 a. C. Un distinto signore barbuto è intento a giocare con uno strano strumento, che consiste in una tavoletta di legno sulla quale è tesa una corda, appoggiata agli estremi su due ponticelli fissi; al di sotto della corda può scorrere un ponticello mobile, in grado di dividere la corda in due parti di lunghezza variabile. Qualcosa di molto simile a una chitarra, se ci pensate bene. E proprio come avviene quando Brian May si produce nell’assolo di Bohemian Rhapsody, quando il barbuto pizzica la corda del suo strumento, questa produce un suono; facendo scorrere il ponticello, la corda si accorcia e il suono che produce varia.
Oddio, non che se ne possa estrarre chissà che melodia, altro che Bohemian Rhapsody: disponendo di una sola corda, da cui il suo nome monocordo, lo strumento non può far altro che suonare una nota per volta, con un risultato quantomeno monotono. Infatti il barbuto dà cenni di irrequietezza: strimpella ormai da qualche minuto, senza particolare costrutto. Fa quindi un cenno imperioso verso due ragazzi, che gli si avvicinano deferenti, con le loro lunghe tuniche bianche, reggendo ciascuno uno strumento analogo a quello del barbuto.
«Filolao» dice costui «passami il tuo monocordo!»
«Certo, Pitagora!» scatta sull’attenti il più giovane dei due.
Pitagora – perché il barbuto è proprio lui, il matematico a cui più spesso fischiano le orecchie per colpa del teorema omonimo [che poi mica l’ha inventato Pitagora, visto che lo conoscevano anche egizi e babilonesi, ndr] – affiancati i due monocordi, inizia a pizzicarne le corde contemporaneamente.
Ai discepoli in religioso silenzio Pitagora spiega quanto sta facendo: «conveniamo di chiamare A il suono ottenuto pizzicando il mio monocordo, la cui corda è lunga l. Se accorciamo la corda inserendo un ponticello, quando la pizzichiamo non otteniamo più il suono A, ma un altro suono, che distingueremo dal primo dandogli un altro nome, B. Supponiamo adesso di pizzicare contemporaneamente la corda lunga e quella corta, una per monocordo, producendo così la coppia di suoni A-B: alcune volte l’accordo ottenuto sarà piacevole, altre invece sarà sgradevole».
E passa all’azione, sdeing sdoing, armeggiando coi due ponticelli e pizzicando le rispettive corde.
«Se ad esempio le due corde sono entrambe di lunghezza l, cioè stanno in un rapporto 1:1» continua Pitagora «l’accordo è perfetto, perché i suoni prodotti sono identici: le corde vibrano, cioè, all’unisono. Si ottiene un risultato molto piacevole anche se la corda più corta misura la metà della più lunga, cioè se il rapporto è 2:1: è il diapason [che Brian May chiama ottava, ndr]. Ancora molto gradevole, anche se meno del precedente, è l’accordo prodotto quando la corda corta è 2/3 di quella lunga, ovvero se il rapporto è 3:2: chiamiamolo diapente [o accordo di quinta, interviene dal futuro il solito Brian, ndr]. Infine, non è malaccio anche l’accordo in cui la corda corta misura 3/4 della lunga, corrispondente quindi al rapporto 4:3, che chiameremo diatesseron [indovinate chi lo chiamerebbe accordo di quarta?]. C'è geometria nel mormorio delle corde».
Filolao prende diligentemente appunti, scalpellando sul suo stonebook la figura a fianco.
«Vediamo se ho capito, maestro», interviene Filolao: «la maggiore o minore piacevolezza [che oggi chiameremmo consonanza, ndr] dell’accordo prodotto dipende dalla lunghezza relativa delle due corde. Precisamente, la consonanza tra due suoni simultanei è massima in corrispondenza di rapporti particolarmente semplici tra le lunghezze delle corde che li producono».
«Certo, Filolao – annuisce Pitagora – vanno d’accordo tutte le coppie di suoni producibili usando due corde le cui lunghezze stanno tra loro secondo rapporti costruibili coi primi 4 numeri interi, la nostra tetràktys. Per produrre melodie piacevoli basta disporre di quattro suoni…»
«Come del resto dimostra la mitica arpa di Orfeo» lo interrompe Filolao «che ha in effetti quattro corde e dunque quattro note, corrispondenti al suono di base e alle sue tre consonanze».
Scolastico ma corretto, sette più, pensa Pitagora tra sé. «Sì, comunque non interrompermi mentre parlo. Impara a tacere. Lascia che la tua mente, quieta, ascolti e impari» tuona per ribadire chi comanda, nella costernazione del povero Filolao, a cui «o chetati!» ancora non gliel’aveva detto nessuno.
L’altro discepolo, finora rimasto in disparte, sembra poco convinto. Si chiama Ippaso, viene da Metaponto e porta sulla tunica, ben in vista, la stella a cinque punte che testimonia la sua appartenenza alla congrega dei pitagorici.
«Scusa Pitagora, ma non sono un po’ pochine, quattro note?»
Uimmene, pensa Pitagora, quanto è duro questo ragazzo, bisogna spiegargli anche le cose ovvie. E, sbuffando, chiarisce: «mio caro Ippaso, il ragionamento naturalmente si può iterare: è chiaro, infatti, che possiamo ottenere ulteriori accordi consonanti pizzicando insieme la quinta con la quinta della quinta, o la quinta con la quarta della quinta, o la quinta con l’ottava della quinta, o la quarta con la quinta della quarta, o la quarta con la quarta della quarta, o la quinta con la quinta della quinta della quinta, e così via».
Eccoci, ci mancava lo scioglilingua, pensa Ippaso in un subitaneo accesso di malumore. Passare per duro non gli è mai piaciuto, davanti a Filolao poi non parliamone. Mumble mumble, medita come rifarsi, proponendo al suo maestro un’osservazione un po’ più originale di quelle in cui Filolao, quel leccapile, si produce immancabilmente non appena il maestro apre bocca. Sdeing sdoing, si mette a fare qualche prova fino a che, per caso (o per esplicita perversa volontà, chi può dirlo), non arriva a pizzicare contemporaneamente le due corde disposte come in figura a lato.
Pitagora, fino a quel momento distratto, si volta di scatto, con sguardo fulminante. Filolao abbassa gli occhi, prevedendo tempesta. Ops!, pensa Ippaso.
In effetti, il suono risultante non è esattamente gradevole. C’è qualcosa, in questo accordo, di … dissonante, direbbe Brian. Pitagora è talmente indignato che, inizialmente, rimane addirittura senza parole. Ѐ dunque Filolao che, la voce ridotta a un sussurro, calcola il rapporto tra le lunghezze delle due corde pizzicate da quel cretino del suo collega: 2/3:3/4=8/9, numeri GRANDI, che ORRORE!!!!!
C’è poco da fare, Ippaso l’ha fatta davvero grossa. Non gli resta che rassegnarsi: stasera, per cena, un intero piatto di fave, con conseguente esposizione al pubblico ludibrio. Be’, pubblico si fa per dire: solo gli iniziati sono ammessi al desco (e agli incontri) dei Pitagorici. Mentre i suoi colleghi si nutriranno di broccoli e ravanelli crudi – che delizia! – a Ippaso non resterà che rassegnarsi alla punizione più grave che in ambito gastro-pitagorico si possa ipotizzare. Vediamo se impara una volta buona, pensa tra sé Pitagora, scuotendo la testa…
Uno spunto di riflessione
Non sappiamo se la scena si svolse davvero, in quel 500 a. C. di cui abbiamo pochi documenti diretti. E neppure sappiamo se i due allievi fossero proprio Ippaso e Filolao – viste le (presunte) date di nascita, rispettivamente un generico VI secolo e un circa 470, in entrambi i casi a.C., pare difficile. Quel che è certo è che entrambi furono discepoli di Pitagora, Filolao ligio alla fede razionale del maestro, Ippaso parecchio più eretico.
Una leggenda, infatti, racconta come venne buttato in mare dai suoi colleghi, per aver scoperto (e raccontato, che sciocco!) l’esistenza di due segmenti il cui rapporto non potesse essere espresso per mezzo di due numeri interi (la quintessenza del diabolico, per chi pensava che “tutto è numero” – intero, positivo e possibilmente piccolo…).
Un’altra leggenda lo vede protagonista, nientepopodimeno, della scoperta (e della divulgazione, che sciocchissimo!) della costruzione del dodecaedro, nonché della sua inscrivibilità nella sfera, che gli valse ovviamente la morte in mare in un naufragio, giusta punizione per la sua empietà. Una relazione esiste, tra i tre episodi: te la senti di provare a capire quale sia?
La prova scientifica dell’affermazione filosofica di Pitagora
Secondo Pitagora, come abbiamo visto, la maggiore o minore gradevolezza di un accordo dipende dai numeri coinvolti: più sono piccoli, migliore è la consonanza. Al giorno d’oggi, però, questa interpretazione meta-matematica è del tutto superata da altre più mature, legate a considerazioni di natura fisica e percettiva, che prendono avvio dall’osservazione del movimento di una corda pizzicata.
Questa, vibrando, produce una nota che è tanto più acuta quanto più è alta la frequenza della vibrazione, che chiamiamo frequenza naturale o fondamentale. L’onda sonora così prodotta percuote il timpano di chi ascolta, causando la deformazione provvisoria che chiamiamo “sentire” quella nota. Dimezzando la lunghezza della corda, raddoppia la frequenza di vibrazione e di conseguenza si modifica la deformazione del timpano dell’ascoltatore.
«Consonanti, e con diletto ricevute, saranno quelle coppie di suoni che verranno a percuotere con qualche ordine sopra ‘l timpano; il qual ordine ricerca, prima, che le percosse fatte dentro all’istesso tempo siano commensurabili di numero, acciò che la cartilagine del timpano non abbia a star in un perpetuo tormento d’inflettersi in due diverse maniere per acconsentire e ubbidire alle sempre discordi battiture», dice in proposito Galileo.
La consonanza musicale, cioè, si realizza quando c’è accordo tra vibrazioni, ovvero quando esiste una relazione semplice, esprimibile come un rapporto tra numeri interi, tra le frequenze che caratterizzano le diverse note. Grazie ai successivi lavori di altri scienziati, prima Mersenne, poi Saveur e infine Helmholtz, si è poi capito che gli stimoli sonori hanno, oltre alla componente fondamentale (frequenza naturale), molteplici altre componenti (le armoniche), che sono multipli interi della frequenza naturale e arricchiscono il suono prodotto. Quando due corde vengono pizzicate simultaneamente, all’orecchio dell’ascoltatore giunge una combinazione delle due frequenze naturali e di tutte le loro armoniche: l’accordo risulta tanto più piacevole quante più sono le armoniche coincidenti. Fate due conti e troverete la prova scientifica dell’affermazione filosofica di Pitagora.
Una curiosità
Le fave erano davvero un piatto aborrito dai pitagorici, non tanto perché, oggettivamente, come tutti i legumi fanno fare le puzzette, ma perché erano considerate connesse al mondo dei morti, della decomposizione e dell'impurità (beh, come le summenzionate puzzette), dalle quali il filosofo si deve tenere lontano.
Un bel problema, perché i pitagorici erano tendenzialmente vegetariani, quindi i legumi, grazie al loro contenuto proteico, avrebbero potuto contribuire in modo sostanziale alla loro corretta alimentazione. Una delle leggende sulla morte di Pitagora narra addirittura che, in fuga dagli scherani di Cilone di Crotone, preferì farsi raggiungere e uccidere piuttosto che mettersi in salvo in un campo di fave.
Bastava meno, diciamocelo. Pare in effetti che il favismo fosse una malattia diffusa nella zona del crotonese, e questo conferirebbe al divieto di mangiarne una motivazione profilattica-sanitaria – bah.
Per concludere
Questo articolo vuole proporre (anche) una serie di metariflessioni per l’insegnante, ovvero:- interdisciplinare vs multidisciplinare: cosa preferire;
- l’importanza dello storytelling;
- i rischi e i vantaggi dell’autofiction;
- l’importanza dell’approccio laboratoriale.
Referenze iconografiche: Momentum studio/Shutterstock, ArTono/Shutterstock, Vasileios Karafillidis/Shutterstock