Hamilton e quaternioni: una rivoluzione in algebra
Numeri che descrivono i movimenti nello spazio tridimensionale
Una chance insospettata
Immagina una lavagna nera e tu in piedi lì davanti; immagina un’interrogazione di matematica e un’odiosissima espressione algebrica piena di parentesi e segni meno. Da una riga all’altra, a un certo punto un termine +ab diventa –ba. “Attento al segno!” suggerisce l’insegnante, benevolmente. L’incubo di molti, questi segni. Ma stavolta potresti anche avere una chance insospettata…
La storia che raccontiamo qui narra di un matematico irlandese, uno dei pochi che l’Irlanda abbia avuto, che nel XIX secolo, per seguire un suo chiodo fisso, ha contribuito a rivoluzionare le regole dell’algebra. Dopo di lui, sarà lecito affermare che il prodotto di due numeri in un certo ordine può non essere uguale al prodotto degli stessi numeri nell’ordine inverso. Dopo di lui, gli studenti potranno sostenere, in certi contesti, di non aver fatto errori di segno, ma di aver applicato regole particolari dal nome misterioso, le regole dei quaternioni. Insomma, l’algebra dalla metà dell’Ottocento guadagna una libertà che di primo acchito può sembrare simile all’anarchia: diventa possibile operare secondo regole che prima erano proibitissime (e che tutto sommato, in condizioni usuali, ancora oggi lo sono per uno studente di scuola superiore). Ma procediamo per ordine.
La grande passione di un astronomo precoce
William Rowan Hamilton è stato sin da bambino un personaggio fuori dal comune: nato a Dublino nel 1805, a tre anni viene mandato a studiare da uno zio che aveva un grande talento per le lingue. A otto anni il ragazzo aveva già imparato il greco, il latino, l’ebraico, il francese e l’italiano. Qualche anno più tardi, conobbe un giovane americano che era prodigioso nel fare i calcoli e con il quale ingaggiò competizioni aritmetiche, risultando quasi sempre vincitore. Sembra che sia stata questa frequentazione ad accendere in Hamilton l’amore per la matematica.
Da completo autodidatta, Hamilton arrivò primo nella selezione per il Trinity College di Dublino, dove nel 1824 iniziò a studiare astronomia. Tre anni dopo, la sua fama era già così vasta che, nonostante non fosse ancora laureato, venne nominato direttore dell’Osservatorio Reale di Astronomia. In questi anni della sua attività scientifica si occupò di astronomia e di ottica, con risultati estremamente rilevanti, ma era soprattutto un problema di natura matematica quello per il quale sembrava coltivare da sempre una vera e propria passione.
Il problema dei numeri complessi
Per la precisione, Hamilton era ossessionato dai numeri complessi. Questi numeri erano stati introdotti nel XVI secolo nel tentativo di trovare soluzioni generali alle equazioni di terzo grado. I matematici rinascimentali alle prese con questo problema si trovavano spesso di fronte alla radice di un numero negativo. Che fare? All’inizio, timidamente, introdussero il simbolo √ (–1), che venne impiegato per molto tempo come semplice artificio algebrico. I numeri complessi sono “numeri che dovrebbero non esistere”, disse Cartesio, che li chiamò “numeri immaginari”. Abraham de Moivre e Eulero nel XVIII secolo fornirono ai numeri complessi una base teorica, finché questi assunsero piena cittadinanza nel mondo matematico con i lavori di Gauss. Al Princeps Mathematicorum, come spesso Gauss veniva chiamato, dobbiamo anche l’interpretazione dei numeri complessi come punti del piano: essi sono numeri della forma a+ib ai quali si associa il punto del piano (a, b) e con i quali si opera con le regole algebriche ordinarie a condizione di prestare attenzione al fatto che i2 = –1.
Qual era dunque il problema di Hamilton un secolo dopo? Poiché i numeri complessi permettono di descrivere in termini di somme e prodotti i movimenti rigidi del piano come le traslazioni o le rotazioni, Hamilton voleva a tutti i costi costruirne un analogo tridimensionale. Voleva, cioè, costruire un insieme di numeri “ipercomplessi” che potessero descrivere, attraverso le loro operazioni, i movimenti nello spazio tridimensionale.
L’invenzione dei quaternioni
Cercò a lungo, fino a che non ebbe un’illuminazione. Si narra che il 16 ottobre 1843 passeggiasse con la moglie sul Broom Bridge a Dublino, ascoltandola come sempre distrattamente. In quel momento ebbe una folgorazione, si fermò, tirò fuori dalla tasca un coltellino e incise sulla balaustra del ponte alcune formule. Oggi non c’è traccia di quell’incisione, ma se andate a Dublino potrete trovare sul ponte una targa che commemora questa famosa illuminazione matematica.
Hamilton aveva compreso che, per descrivere le rotazioni nello spazio, non gli sarebbero bastate tre dimensioni. Immaginò quindi di poter disporre di ben tre numeri con la proprietà di avere quadrato uguale a –1. Il primo di questi numeri è la vecchia unità immaginaria, ossia il numero complesso i. Gli altri due Hamilton li chiamò j e k. Usando i, j e k si può dar vita a un intero mondo di nuovi oggetti del tipo q = a + bi + cj + dk, dove a, b, c e d sono ordinari numeri reali. Hamilton chiamò numeri di questo tipo quaternioni, perché sono formati in generale da quattro tipi di addendi (un numero, un multiplo di i, un multiplo di j e un multiplo di k). I quaternioni costituiscono un insieme di oggetti matematici astratti per il quale sono definite delle regole di composizione (ossia di somma, di prodotto e di moltiplicazione per un numero reale). La regola principale – quella che Hamilton incise sul ponte di Berlino – descrive come si moltiplicano fra di loro i “costituenti di base”, cioè i, j e k:
i2 = j2 = k2 = –1 e ij = –ji = k, ik = –ki = –j, jk = –kj = i.
Operazioni “speciali”
Come si fanno le operazioni con i quaternioni?
Dati due quaternioni q1 = a1i + b1j + c1k + d1 e q2 = a2i + b2j + c2k + d2, la loro somma è semplicemente
q1 + q2 = (a1i + b1j + c1k + d1) + (a2i + b2j + c2k + d2) = (a1 + a2) i + (b1 + b2) j + (c1 + c2) k + (d1 + d2)
Per ciò che riguarda il prodotto ci vuole invece un po’ di pazienza. Tenendo presenti le regole che Hamilton scrisse sul Broom Bridge, si ottiene
q1 ∙ q2 = (a1i + b1j + c1k + d1) ∙ (a2i + b2j + c2k + d2) =
= a1i ∙ (a2i + b2j + c2k +d2) + b1j ∙ (a2i + b2j + c2k + d2) + c1k ∙ (a2i + b2j + c2k + d2) + d1 (a2i + b2j + c2k + d2) =
= - a1a2 + a1b2k + a1c2(-j) + a1d2i + b1a2(-k) + b1b2(-1) + b1c2(i) + b1d2j + c1a2(j) + c1b2(-i) + c1c2(-1) + c1d2k + d1a2i + d1b2j + d1c2k + d1d2 =
= - (a1a2 + b1b2 + c1c2 - d1d2) + (a1d2 + b1c2 - c1b2 + d1a2) i + (-a1c2 + b1d2 + c1a2 + d1b2) j + (a1b2 - b1a2 + c1d2 + d1c2) k
Da questi calcoli con i quaternioni scaturiranno, nei decenni successivi all’opera di Hamilton, i concetti e le definizioni di prodotto scalare e prodotto vettoriale che usiamo normalmente per i vettori dello spazio. Per illustrarlo attraverso un esempio semplice, possiamo considerare i due quaternioni presi sopra e porre d1 = d2 = 0. In questo caso, si vede che il calcolo precedente conduce a:
q1 ∙ q2= - (a1a2 + b1b2 + c1c2) + (b1c2 - c1b2) i + (-a1c2 + c1a2) j + (a1b2 - b1a2) k
Se q1 e q2 fossero due vettori rappresentati come al solito in R3, questo prodotto non sarebbe altro che la differenza fra il loro prodotto vettoriale e il loro prodotto scalare.
Regole che non valgono più
Ora, da quando eravamo in seconda elementare ci hanno assicurato che la moltiplicazione è un’operazione commutativa. Ebbene, in questo nuovo insieme di numeri non è così: anzi, se si cambia l’ordine con cui si esegue una moltiplicazione tra due unità, questa darà come risultato il valore opposto a quello iniziale. L’idea di staccarsi dalle regole tradizionali venne a Hamilton riflettendo proprio sulle rotazioni nello spazio: se si considera, per esempio, un segmento sull’asse x dello spazio tridimensionale e lo si ruota di 90 gradi prima rispetto all’asse y e poi a quello z, il risultato è l’opposto di quello che si otterrebbe invertendo l’ordine delle rotazioni. Infatti, la composizione tra rotazioni nello spazio non è, in generale, commutativa. Pertanto, se i quaternioni dovevano descrivere (anche) le rotazioni nello spazio, bisognava lasciar loro la libertà di comporsi in modo non commutativo.
Dalla pura fantasia alla vita quotidiana
L’algebra che ne viene fuori, ossia l’insieme di regole con cui si fanno operazioni tra i nuovi oggetti, taglia definitivamente il cordone ombelicale che legava i numeri al loro significato “concreto” e alle proprietà date per acquisite una volta per tutte. Osserviamo per esempio che, nell’ambito dei quaternioni, il “numero” –1 ha ben 6 radici quadrate, ovvero esistono sei quaternioni (±i, ±j e ±k) il cui quadrato fa –1. Anche in aritmetica (così come stava succedendo per la geometria, con la nascita delle cosiddette geometrie non euclidee), i matematici avocavano a sé il diritto di inventare oggetti la cui essenza è definita solo in base al loro comportamento. Tale comportamento viene stabilito convenzionalmente, seguendo solo fantasia e ispirazione.
Progressivamente si affermava l’idea che gli oggetti algebrici potessero anche non descrivere il mondo reale. Sul fatto che, poi, moltissimi degli oggetti nati dalla fantasia dei matematici si siano rivelati a distanza di tempo utilissimi a descrivere situazioni fisiche molto complesse, sarebbe interessante meditare. In ogni caso, questa tendenza della matematica incontrò molte opposizioni, e già da subito fiorirono critiche e ironie sull’opera di Hamilton. Questi, a ogni modo, a partire dal 1843 si dedicò ai soli quaternioni, abbandonando ogni altro studio. Alcuni mesi dopo la morte, avvenuta il 2 settembre 1865 all’età di sessant’anni, fu pubblicato un suo ponderoso volume di 800 pagine, dal titolo Elementi sui quaternioni. E dopo un secolo e mezzo possiamo affermare che Hamilton aveva visto giusto: la prossima volta che andate al cinema a vedere un film di animazione o comprate un videogioco nuovissimo, ricordatevi che oggigiorno né la robotica, né la computer graphics, né l’aeronautica possono fare a meno dei quaternioni di Hamilton, che sono gli strumenti più efficaci per descrivere le rotazioni nello spazio di un corpo tridimensionale.
Curiosità #1: Le difficoltà dei numeri “strani”
Quella dei numeri è una storia molto più lunga e articolata di quanto si potrebbe credere.
Basti pensare al fatto che all’epoca del Rinascimento – quando cioè il teorema di Pitagora aveva già compiuto 2000 anni – gli unici numeri che venivano considerati teoricamente “sicuri” erano i numeri naturali e i numeri razionali (o meglio, le frazioni). Anche i numeri negativi, che pure avevano fatto una prima tempestosa apparizione nella matematica greca, erano snobbati: il matematico italiano Gerolamo Cardano chiamava i numeri positivi “veri” e quelli negativi “finti”. Per non dire dei numeri irrazionali, che da due millenni portavano con sé quell’aura di inaffidabilità che tanti guai aveva creato a Pitagora. Solo nel Seicento, grandi matematici come Galileo e Newton dettero ai numeri negativi la stessa dignità degli altri numeri e Cartesio li utilizzò in modo indispensabile per la rappresentazione dei punti sul piano. Per una teoria rigorosa dei numeri irrazionali bisognerà invece aspettare il XIX secolo.
Curiosità #2: Alice nella terra dei quaternioni
I lavori di Hamilton si diffusero presto in Inghilterra, dove pure arrivavano gli echi delle affermazioni delle geometrie non euclidee. Contrario all’andazzo preso dalla nuova matematica era sicuramente Charles Dogson, docente di matematica ad Oxford, meglio noto sotto lo pseudonimo di Lewis Carroll.
I tentativi di Dogson di confutare le nuove teorie furono fallimentari; così egli si rifugiò nella satira letteraria. Nel suo Alice nel paese delle meraviglie non manca così il riferimento ai quaternioni e l’ironia sul loro bizzarro comportamento non commutativo.
Al tè delle sei, i compagni di Alice sono il Cappellaio Matto, la Lepre Marzolina e il Ghiro. Manca però il Tempo, che ha lasciato un orologio rotto. Questi quattro personaggi rappresentano le quattro dimensioni dei quaternioni di Hamilton: quando ne manca una, i quaternioni non possono ruotare nello spazio ma solo su un piano. E infatti, i tre commensali continuano a ruotare intorno al tavolo in cerca di piattini e tazzine. Ma Carroll è soprattutto contrariato dalla non commutatività del prodotto. Forse avete già letto questo dialogo famoso, ma ora lo farete con occhi (matematicamente) nuovi:
«Ebbene dica quel che intende,» disse la Lepre-marzolina.
«Ecco,» riprese Alice, in fretta; «almeno – almeno intendo quel che dico – e ciò vale lo stesso, capite.»
«Niente affatto lo stesso!» disse il Cappellaio. Sarebbe come dire, «‘Veggo quel che mangio’ è lo stesso di ‘Mangio quel che veggo?’»
«Sarebbe come dire,» soggiunse la Lepre-marzolina. «‘Mi piace ciò che prendo’ è lo stesso che ‘Prendo quel che mi piace?’»
«Sarebbe come dire,» aggiunse il Ghiro che parea parlasse nel sonno, «‘respiro quando dormo’ è lo stesso che ‘dormo quando respiro?’»
«E lo stesso per voi,» disse il Cappellaio, e qui la conversazione cadde, e tutti sedettero muti per poco tempo…
[da Carroll L., Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, (1865), tr. it. Pietrocola-Rossetti T., 1872, Cap.7]
Referenze iconografiche: Shutterstock / vitoktimon, Wikimedia Commons