Il Gattopardo: un cielo senza stelle
Una recensione sulla nuova serie Netflix ispirata al romanzo di Tomasi di Lampedusa

Le scommesse di Netflix sono spesso sorprendenti. Come questa coproduzione internazionale dedicata al romanzo Il Gattopardo. Lanciata dalla piattaforma lo scorso 5 marzo, è stata accolta con grande interesse dal pubblico.
Il romanzo di Tomasi di Lampedusa è rinato per ben due volte: la prima con il film di Luchino Visconti del 1963, la seconda ora, con la serie Netflix. Sono due rinascite completamente diverse tra loro, eppure hanno una cosa in comune.
Chi si occupa di letteratura, quindi anche chi la insegna, sa che sta lavorando sulla «materia prima» di una gran parte dei prodotti audiovisivi che circolano.
Ma qual è la differenza tra ieri e oggi? Il pubblico del film di Visconti era un pubblico abituato al rapporto con i libri e che, molto probabilmente, già conosceva Il Gattopardo. Il cinema non sostituiva la letteratura, ma in qualche modo la ricodificava, la divulgava, la portava all’attenzione del grande pubblico attraverso un linguaggio diverso.
Il pubblico di oggi, invece, ha perso il legame abituale con la letteratura, dunque un adattamento, oggi, può rinunciare alla coerenza rispetto alla fonte (ammesso che tale coerenza sia mai stata possibile), può sostituirla, raccontarla per la prima volta a chi, a quella fonte, non ha mai avuto accesso.
Questo è proprio il caso della serie Netflix. Che non a caso è scritta e diretta da autori non italiani: Tom Shankland alla regia, Richard Wallow e Benji Walters alla sceneggiatura. Il campanilismo non ha niente a che vedere con questo, ovviamente, ma mi sembra interessante segnalare il fatto che la miniserie Il Gattopardo prende forma in una cultura straniera e si rivolge a un pubblico ampio, che non parla la lingua particolare di Tomasi di Lampedusa ma quella ormai standardizzata dell’audiovisivo globalizzato.
Costata 50 milioni di euro (un budget enorme superato solo da M - L’uomo del secolo), vede nel cast Kim Rossi Stuart nel ruolo di Don Fabrizio Corbera, Benedetta Porcaroli, Deva Cassel e Saul Nanni. Costumi sfarzosi, gran dispendio di droni e comparse, scenografie eleganti e prive dei segni del tempo, paesaggi da cartolina.
Ma che cos’ha in comune con il film di Visconti? Il tono. Una certa maestosità, un certo indulgere all’epos e al pathos. Entrambi questi elementi, cosa curiosa, non sono presenti nel romanzo, dove Don Fabrizio deve il suo fascino al suo distacco: l’ironia gli permette di sopportare la realtà e di risolvere il conflitto con essa.
Niente viene preso sul serio, perché così lo richiedono i tempi nuovi, prosaici e mutevoli. Mentre nella serie tutto è sentito, è così come appare, la realtà è epica perché è seria. La lunghezza e il ritmo allontanano ancora di più questi adattamenti dal romanzo, che si sviluppa in circa 260 pagine e si legge quasi d’un fiato, mentre il film dura tre ore e la serie Netflix si spinge intorno alle sei ore.
La miniserie preme a fondo sul pedale del melodramma, dando al Gattopardo sfumature inedite da soap opera. Avendo circa sei ore a disposizione, può e deve sviluppare i personaggi femminili, che nel romanzo sono poco più di importanti figurine.
Nella serie, a ben guardare, questo non cambia: i personaggi femminili continuano a non avere alcun potere rispetto ai disegni del destino. L’apparenza cambia, ma la sostanza rimane la stessa. Tomasi di Lampedusa ci arriva direttamente, mentre la serie fa un’ampia parabola per giungere, comunque, allo stesso punto di arrivo: gli uomini decidono.
Ci sono due assenze eloquenti: quella del cane Bendicò, che nella serie è solo un cane, e quella delle stelle. Nel romanzo Don Fabrizio trova conforto nella relazione con queste due presenze pure, così diverse dagli umani che lo circondano, così al di fuori e al di sopra della Storia, così nobili. Il cane e le stelle. Nella serie tale poeticità viene obliterata.
La serie non è l’adattamento del Gattopardo, ma è una produzione liberamente ispirata a. Il suo scopo non è quello di portare gli spettatori, tanto meno quelli giovani, al cospetto del romanzo, ma di farli passare alla prossima serie. Operazione legittima, certo, ma da tenere in conto se si apprezza la fonte.
Referenze iconografiche: Roxy Lee/Shutterstock