I principi di uguaglianza e di non discriminazione di genere

Una prospettiva di diritto costituzionale comparato

La parità di genere è affrontata in modo diverso dalla Costituzione italiana e da quella americana, sia per formulazione che per evoluzione storica. La carta statunitense non menziona esplicitamente l’uguaglianza tra i sessi, che è invece prevista da quella italiana in numerosi articoli.
Nonostante i diritti delle donne siano garantiti da leggi in Italia, da emendamenti alla Costituzione e da pronunce della Corte Suprema negli Stati Uniti, il Global Gender Gap Index, realizzato dal World Economic Forum, descrive le difficoltà dei Paesi occidentali a rimuovere in toto la disparità di genere.

«Onorevoli colleghi […] se qualcuno che siede qui ha la propria moglie che in casa fa la calza,
non ritengo questo un argomento valido per invogliare una donna che chiede una toga
ad accettare anziché una toga una calza.»
On. Maria Agamben Federici[1] all’Assemblea costituente

 

«Sulla scena facevo tutto quello che faceva Fred Astaire e per di più
lo facevo all’indietro e sui tacchi alti.»
Ginger Rogers

Il principio di uguaglianza

Fin dai tempi del filosofo greco Platone (428 a.C.–348 a.C.) il dibattito sull’uguaglianza è stato al centro del pensiero occidentale politico, giuridico ed etico.

Nei secoli, i pensatori hanno fornito varie formulazioni del principio, ma è grazie alla corrente filosofica illuminista che si impone questo concetto fondamentale, ispiratore delle trasformazioni politiche e sociali del tempo. Gli illuministi, in piena antitesi con la prassi dei privilegi aristocratici ed ecclesiastici dell’Ancien Régime[2], affermavano che tutti gli esseri umani nascono uguali e, conseguentemente, devono godere degli stessi diritti fondamentali.
Questa concezione influenzò la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata dall’Assemblea nazionale francese il 26 agosto 1789[3]. Sancendo il principio di uguaglianza davanti alla legge, il documento poneva le fondamenta per le moderne democrazie occidentali.

Il principio di uguaglianza nella Costituzione americana

Il principio di uguaglianza si impose in tutta la sua centralità nelle iniziative per la redazione delle costituzioni democratiche.
Tuttavia la prima carta costituzionale dell’età moderna, ossia quella americana, stilata nel 1787 ed entrata in vigore nel 1789, non contemplava inizialmente il principio di uguaglianza che era stato dichiarato invece “verità evidente” nell’antecedente Dichiarazione d’Indipendenza[4], datata 4 luglio 1776.
Si assiste quindi a un paradosso: nella dichiarazione del 1776, il principio di uguaglianza assurge a indirizzo politico, ma la successiva Costituzione, fonte del diritto con valore vincolante, omette questo dogma.
L’omissione sintetizza di fatto la storia culturale ed economica americana. La società rurale e tradizionalista degli stati sudisti, terra natia di molti padri costituenti, fondava il proprio potere politico su un’economia schiavista, concetto agli antipodi con l’idea di parità.
Solo a seguito della Guerra di secessione (1861–1865) le idee di uguaglianza confluiscono nel XIV emendamento (1868) alla Costituzione, il quale sancisce che nessuno Stato potrà «negare a qualsiasi persona sotto la sua giurisdizione l'eguale protezione delle leggi».
La clausola di uguale protezione (Equal Protection of the Law), adottata su impulso del Presidente Abraham Lincoln (18091865), rappresenta la definitiva affermazione del principio di uguaglianza negli Stati Uniti: promettendo di tutelare chiunque sia soggetto alla giurisdizione nazionale, riconosce a tutti i cittadini statunitensi, compresi i cittadini afroamericani, stessi diritti e uguale protezione legale.
Sebbene il XIV emendamento fosse originariamente pensato per i diritti degli ex-schiavi affrancati, grazie alla sua ampia formulazione venne successivamente applicato a tutti i casi di discriminazione, anche a quella di genere.

La parità di genere nella Costituzione americana: il XIV emendamento e l’E.R.A.

La prima Costituzione democratica della storia è dunque priva di una dimensione femminile, nonostante personalità come Abigail Adams (1744–1818), moglie del Presidente degli Stati Uniti John Adams (1735-1826), sostenessero già al tempo della sua stesura i diritti delle donne.
Nelle lettere inviate al marito Abigail Adams sostiene la protezione costituzionale a favore delle donne, il riconoscimento delle loro capacità intellettuali, il loro diritto alla proprietà e a pari opportunità di istruzione. Nella celebre lettera datata 31 marzo 1776, Abigail esorta John a “ricordarsi delle donne” nella Dichiarazione di Indipendenza. Tuttavia il marito se ne “dimentica” anche nella stesura della Costituzione, un documento concepito per non sovvertire le relazioni di genere e preservare lo status quo.
Si assiste pertanto a un doppio standard giuridico: le donne sono de iure subordinate agli uomini, i quali invece sono soggetti di diritto.
Quando viene emanato il XIV emendamento nel 1868, il Women’s Rights Movement[5] ne pretende l’estensione alla questione di genere, considerandolo uno strumento per ottenere l’uguale protezione delle donne di fronte alla legge.
Questa estensione verrà riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti solo un secolo dopo l’emanazione del XIV emendamento. Infatti, le prime pronunce della più alta corte americana non garantiscono alle donne alcuna parità.
Celebre è la risposta della Corte Suprema alla domanda dell’avvocata per i diritti civili Dorothy Kenyon (1888–1972) la quale, nel 1960, chiese quando uomini e donne potessero raggiungere la parità. I nove giudici risposero che non sarebbe mai accaduto poiché ritenevano legale la discriminazione in base al sesso.
La mancanza di parità di genere viene dichiarata incostituzionale a metà degli anni ’60, grazie all’innovativo impianto fornito dall’avvocata Pauli Murray[6] (1910–1985) che traccia un parallelismo tra la discriminazione razziale proibita dal XIV emendamento e quella sessuale.
Le pronunce Reed contro Reed (1971) e Moritz contro Commissione Imposte Dirette (1972) sono i primi casi federali a recepire il nuovo orientamento.
Tuttavia l’interpretazione giurisprudenziale del XIV emendamento stabilisce il divieto di comportamenti discriminatori da parte di enti governativi, non anche da parte di soggetti privati. Anche se grazie all’interpretazione del XIV emendamento le donne americane hanno ottenuto un riconoscimento, l’emanazione di una nuova previsione normativa sarebbe di fondamentale importanza per un’affermazione completa dei diritti femminili.
Un ulteriore, ma non esaustivo, passo verso la parità è stato ottenuto con il XIX emendamento (1920) che riconosce il diritto di voto femminile. Questa clausola è ancora oggi l’unica disposizione della Costituzione americana che nomina esplicitamente le donne.
Nel 1923 fu presentata al Congresso degli Stati Uniti una proposta di emendamento alla Costituzione, redatta dalle attiviste Alice Paul (1885–1977) e Crystal Eastman (18811928), che chiedeva il riconoscimento ufficiale della parità di genere. Il documento venne chiamato Equal Rights Amendment (E.R.A.) e reiterava il contenuto del XIV emendamento, rielaborandolo alla luce del divieto di discriminazione sulla base del sesso.
L’art. 1 di detta previsione stabiliva che «L’uguaglianza dei diritti di fronte alla legge non dovrà essere negata o ridimensionata dagli Stati Uniti o da qualunque Stato sulla base del sesso».
Solo nel 1972, il Congresso approvò la proposta e la trasmise agli Stati federali per la ratifica, ponendo un termine di sette anni (poi prorogato al 1982) entro cui almeno 38 Stati avrebbero dovuto ratificare l’emendamento affinché potesse entrare in vigore.
Solo nel 2020 il trentottesimo Stato Federale (Virginia) ha ratificato l’E.R.A., con quasi quarant’anni di ritardo rispetto alla scadenza posta dal Congresso. Conseguentemente la validità dell’atto è attualmente oggetto di contestazione.
La battaglia per l’entrata in vigore dell’emendamento non è ancora terminata, nonostante nel gennaio 2025 l’ex Presidente Joe Biden - che però non ha alcun ruolo nell’iter legislativo costituzionale - abbia affermato che “l’Equal Rights Amendment è legge della Nazione”.
In questo contesto normativo, il Global Gender Gap Index racconta di un nord America che ancora oggi fatica a colmare la disparità di genere nella sfera sociale ed economica in termini di retribuzione, di trattamento e di opportunità.

Il principio di uguaglianza nella Costituzione italiana

A differenza della Costituzione americana, la Costituzione italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, contempla il principio di uguaglianza in numerose disposizioni.
Fondamentale è l’art. 3, il cui riferimento a questo diritto è esplicito, così come negli artt. 8 (libertà di religione), 29 (uguaglianza tra coniugi), 48 (diritto di voto), 37 (parità di trattamento della donna lavoratrice e dei minori), 51 (pari opportunità nell’accesso ai pubblici uffici).
L’uguaglianza diviene un principio fondamentale dello Stato italiano grazie all’art. 3 Cost., che stabilisce: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese
L’uguaglianza sancita dall’ art 3 Cost. assume due accezioni: formale (primo comma), ove vengono fissati i criteri (come il sesso, la razza, la lingua) che non possono formare oggetto di discriminazione, e sostanziale (secondo comma) in cui viene imposto allo Stato un esplicito dovere di ridurre le disuguaglianze.
Il primo comma sancisce l’uguaglianza di tutti nei rapporti interpersonali («pari dignità sociale») e la parità di trattamento da parte della legge per fattispecie uguali («sono eguali davanti alla legge[7]»). Una volta affermato il generale principio di uguaglianza formale, il primo comma ribadisce uno specifico divieto di discriminazioni in base al sesso, alla razza, alla lingua, alla religione, alle opinioni politiche, e alle condizioni personali e sociali. Viene quindi esclusa qualsiasi possibilità di considerare ragionevoli e giustificate eventuali differenze di trattamento fondate su uno dei paradigmi menzionati nella disposizione.
Il secondo comma stabilisce che la Repubblica, intesa come il complesso di tutti i pubblici poteri (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato) ha il dovere di porre in essere politiche pubbliche che rimuovano gli ostacoli alla realizzazione dell’uguaglianza: queste politiche possono essere, a titolo esemplificativo, educative, economiche e redistributive.
Il secondo comma è un esempio di norma programmatica in quanto contiene indicazioni a cui i governi devono ispirarsi e attenersi. Disegna un processo di emancipazione personale e sociale, dichiarando l’importanza di tutelare il diritto di tutti i cittadini a realizzare il proprio progetto di vita senza discriminazioni e a partecipare alla vita politica, economica e sociale italiana.
La specificazione delle due accezioni del principio di uguaglianza, formale e sostanziale, esprime uno dei tratti più originali della Costituzione italiana. Riconoscendole entrambe, la carta italiana compie un passo avanti rispetto a quelle antecedenti, superando quei limiti che la Rivoluzione francese aveva compreso, ma che non era riuscita a cancellare con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. 

La parità di genere nella Costituzione italiana

La questione della parità di genere emerse prepotentemente nell’Assemblea costituente grazie all’apporto delle madri costituenti. Grazie a loro (e alle successive modifiche) la Costituzione italiana stabilisce chiaramente l’uguaglianza tra i sessi.
Attualmente, nella carta costituzionale italiana il termine “donna” compare esplicitamente cinque volte (artt. 37, 48, 51, 117 Cost) e implicitamente tre volte (artt. 3, 29, 51 Cost.).

La Costituzione prevede infatti:

  • la parità di genere sia in ambito matrimoniale, sia nell’attività lavorativa (art. 29 Cost.: «Il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi»; art. 37 Cost.: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore»);
  • le pari opportunità nell’accesso agli uffici pubblici (art. 51 Cost.: «Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza […] la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini[8]»);
  • il suffragio universale (art. 48 Cost.: «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età»);
  • l’attribuzione di competenze per materia anche alle Regioni (art. 117 Cost.: «Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive[9]»).

Inoltre, come già citato, l’art. 3 Cost. proibisce esplicitamente le discriminazioni in base al sesso, precisando nel secondo comma l’impegno dei pubblici poteri ad adottare gli strumenti necessari per raggiungere tale scopo.
Lo Stato ha quindi approvato leggi per promuovere la parità di genere in tutti i campi della vita associata. In particolare, negli ultimi decenni, si assiste a un notevole incremento degli interventi legislativi in materia, sia in termini quantitativi, sia qualitativi.

A titolo esemplificativo:

  • in materia di diritti politici sono previste politiche attive per garantire la rappresentanza femminile come le quote rosa nelle istituzioni;
  • in materia di diritti civili, l’interruzione volontaria della gravidanza è stata legittimata dalla l. n. 194/1978, la procreazione medicalmente assistita con la l. n. 40/2004, la contraccezione sin dal 1975;
  • in materia di diritti economici, l’imprenditoria femminile è garantita con la l. n. 215/1992, il divieto di discriminazione e la parità di trattamento sono previsti dal Codice delle pari opportunità (d.lgs. n. 198/2006 e ss. mod.).

Nonostante i provvedimenti legislativi cerchino di rimuovere il divario di genere, ancora oggi la donna italiana vive in condizioni di disparità. In particolare, il Global Gender Gap Index riferisce che nonostante i progressi nell’istruzione, le italiane trovano ancora difficoltà ad accedere a ruoli di leadership e a percepire uguale trattamento retributivo rispetto ai colleghi uomini. L’Italia inoltre registra un modesto progresso nell’empowerment politico, ma ancora lontano dalla parità. 

Conclusioni

La parità di genere è affrontata in modo diverso dalla Costituzione italiana e da quella americana, sia per formulazione che per evoluzione storica. La carta statunitense non menziona esplicitamente l’uguaglianza tra i sessi, che è invece prevista da quella italiana.
Tuttavia il XIV e il XIX emendamento alla Costituzione americana e le pronunce della Corte Suprema hanno garantito progressivamente maggiori diritti alle donne statunitensi. Affermare costituzionalmente l’uguaglianza tra i sessi, introducendo l’Equal Rights Amendment nell’ordinamento come XXVIII emendamento, rappresenterebbe un importante progresso. Questa clausola fornirebbe un ausilio per rimuovere il gender gap descritto dal World Economic Forum nel sopra citato report. Ammettere la conquista dei diritti da parte delle donne significa includerle nella società. L’entrata in vigore dell’E.R.A. garantirebbe una spinta all’effettiva inclusione per le americane.
D’altro canto, sebbene le donne italiane possano vantare garanzie costituzionali e interventi legislativi mirati, esse si trovano costantemente costrette ad affrontare questioni relative alle asimmetrie di genere. Per superare queste disparità occorrerebbe sia adottare ulteriori atti normativi, sia intervenire sulla sfera educativa e sulla mentalità. Da un lato, sarebbe necessario un forte impulso all’approvazione di provvedimenti legislativi con l’obiettivo di velocizzare il processo di realizzazione della parità in ambito politico, lavorativo e sociale già in essere, ma che è stato rallentato dagli effetti della pandemia da Sars-Covid 19, più impattanti sulle donne italiane rispetto agli uomini. Dall’altro, occorrerebbe superare i privilegi maschili che ancora persistono nella sfera pubblica e promuovere una migliore distribuzione degli oneri in ambito privato, decostruendo in tal modo i ruoli di genere e rimuovendo dei forti ostacoli alla realizzazione personale, sociale e politica femminile.

 

[1] Maria Agamben Federici (1899–1984), madre costituente. In Assemblea si discusse dell’idoneità delle donne ad accedere alla carica della magistratura. Federici sostenne con forza questo diritto evidenziando l’assurda contraddizione delle giustificazioni di coloro che ritenevano inidonee le donne per il ruolo familiare spettante e per asserite limitazioni fisiologiche che ne avrebbero condizionato l’equilibrio. La legge fu approvata solo il 9 febbraio 1963.
[2] “Antico regime”: il termine si riferisce alla forma di Stato, ossia la monarchia assoluta, che precede la Rivoluzione francese.
[3] Art. 1: «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti [...]»; art. 6: «La Legge è l’espressione della volontà generale […]. Essa deve essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca.»
[4] «Consideriamo verità evidenti per sé stesse che tutti gli uomini sono creati uguali.»
[5]Movimento per i diritti delle donne”: era un movimento sociale, politico e culturale che mirava all'uguaglianza di genere, sviluppatosi in Europa a partire dalla fine del XIX secolo e diffuso successivamente in nord America
[6] Pauli Murray & Mary O. Eastwood, Jane Crow and the Law: Sex Discrimination and Title VII, 34 GEO. Wash. L. REV. 232 (1965)
[7] Cfr: sentenza n. 3/1957 della Corte Costituzionale, secondo la quale l’uguaglianza deve essere intesa come «trattamento eguale in condizioni eguali e trattamento diseguale in condizioni diseguali»
[8] Comma introdotto dalla legge costituzionale n. 1 del 30 maggio 2003
[9] Comma introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001.

Referenze iconografiche: Sheila Fitzgerald/Shutterstock

Donatella Cesarini

Avvocato del Foro di Piacenza e docente di scienze giuridico-economiche. È esperta sia di didattica tradizionale sia di potenziamento con utilizzo della metodologia CLIL. Al suo attivo ha varie pubblicazioni che trattano argomenti giuridico-economici attraverso un approccio CLIL e numerosi approfondimenti didattici pubblicati con Sanoma.