Al centro non c’è la collaborazione ma, giustamente, il principio del ravvedimento,
che si può dimostrare in molti modi: è su questo che i condannati saranno valutati,
ed è giusto che i paletti restino non impossibili ma rigorosi.
Pietro Grasso, ex magistrato antimafia, da un articolo del 09/11/2022 su «la Repubblica»
Un po’ di storia
Il termine ergastolo deriva dal latino ergàstulum, adattamento del greco ergastérion, traducibile in “casa di lavoro”: si trattava di un edificio, in genere sotterraneo, adibito ad abitazione per gli schiavi.
La pena dell’ergastolo come carcere a vita si affermò in epoca illuminista – come alternativa alla pena di morte – con l’obiettivo di escludere dalla società le persone che avevano commesso delitti molto gravi e che venivano pertanto considerate irrecuperabili. Rispetto al passato, però, le condizioni delle carceri erano più umane: gli ambienti diventarono più luminosi e igienici e furono abolite le crudeli pene corporali, così come il lavoro protratto fino ai limiti della sopportazione umana.
Nel Regno d’Italia, tra il 1890 e il 1930, fu in vigore il codice penale Zanardelli, dal nome del Ministro di Grazia e giustizia che ne fu promotore: esso abolì la pena di morte (tranne che per alcuni reati militari in tempo di guerra) e disciplinò la pena dell’ergastolo per i reati più gravi, tra cui l’attentato contro l’integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato, le macchinazioni dirette a promuovere guerre con lo Stato italiano e diversi tipi di omicidio. Chi subiva tale condanna era soggetto a interdizione legale e perdeva l’autorità maritale e la potestà sui figli.
Nel 1931, in piena epoca fascista, entrò in vigore il nuovo codice penale, il codice Rocco, dal nome del ministro di Grazia e giustizia dell’epoca. Esso, in conseguenza della reintroduzione della pena di morte per i reati considerati più gravi, apportò modifiche alla disciplina dell’ergastolo: soppresse, per esempio, l’isolamento diurno e ammise il lavoro all’aperto per chi avesse già scontato almeno tre anni di reclusione. Mantenne comunque il carattere della perpetuità, in considerazione dell’irrecuperabilità dei colpevoli.
La Costituzione italiana (1948), con il principio per cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27), è stata profondamente innovatrice in tema di ergastolo, passando da un inquadramento esclusivamente punitivo a uno anche riabilitativo.
L’ergastolo è oggi la pena più severa applicata in Italia. È previsto dall’articolo 17 del Codice penale, che lo include tra le pene principali insieme a reclusione, multa, arresto e ammenda. È previsto per alcuni delitti di particolare gravità contro la personalità dello Stato (ad esempio, la rivelazione di segreti di Stato), contro l’incolumità pubblica (ad esempio, l’attuazione di una strage) e contro la vita (l’omicidio). In base all’art. 22 c.p. «la pena dell’ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno. Il condannato all’ergastolo può essere ammesso al lavoro all’aperto». La natura perpetua dell’ergastolo incontra tuttavia un limite nella “liberazione condizionale” prevista dall’art. 176 co. 3, cui si può essere ammessi in presenza di determinate condizioni. Essa consiste nella sospensione dell’esecuzione della pena per un certo tempo.
Le prime attenuazioni alla pena
Un’osservazione che per noi, oggi, risulta naturale e scontata è che l’ergastolo inteso come pena infinita contrasta con il principio costituzionale per cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 Cost.). Tale principio sottintende infatti la possibilità di recupero per chi ha infranto anche gravemente le leggi attraverso atti e comportamenti antisociali. In pratica: punizione sì, ma con possibilità di riscatto e di reinserimento.
Una prima svolta normativa in materia di ergastolo, al fine di attuare il carattere non solo punitivo ma anche rieducativo della pena, si ebbe con la Legge n. 1634/1962, che modificò gli artt. 176 e 177 del Codice penale. In particolare, mentre la disciplina precedente prevedeva «l’avere dato prove costanti di buona condotta» per ammettere il condannato alla liberazione condizionale, questo provvedimento venne concesso in base all’aver tenuto «un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento», in un’ottica quindi più attenta al reinserimento sociale del soggetto.
Grande importanza ebbe in seguito la sentenza n. 168/1994 con cui la Corte costituzionale dichiarò illegittime le norme che prevedevano l’ergastolo per i minori, facendo leva, oltre che sull’importanza della rieducazione, sul secondo comma dell’art. 31 Cost., che afferma: «[La Repubblica] protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo».
Un ulteriore passo “umanizzante” si ebbe con la Legge n. 354/1975. Essa dispose che «i locali destinati al pernottamento dei detenuti consistono in camere dotate di uno o più posti senza distinguere la pena da eseguire», attenuando pertanto le condizioni di vita degli ergastolani, che in precedenza dovevano scontare la condanna con l’obbligo dell’isolamento notturno. Furono inoltre ammessi al lavoro all’aperto.
Le tipologie di ergastolo
In Italia si applicano due tipologie di ergastolo, l’ergastolo normale e l’ergastolo ostativo.
La differenza principale tra essi consiste nel fatto che, mentre l’ergastolo ostativo non ammette alcun tipo di beneficio, l’ergastolo normale può comportare, in presenza di determinate condizioni, forme premiali quali i permessi premio e gli arresti domiciliari. Più in particolare, riconosce il diritto alla semilibertà (misura alternativa al carcere per cui una persona condannata può trascorrere parte della giornata fuori dalla prigione) dopo 20 anni di carcere, alla libertà condizionale dopo 26 anni (o anche meno, se si considerano gli sconti di pena riconosciuti ogni sei mesi) e dopo altri 5 anni alla piena libertà se il condannato dimostra un ravvedimento reale.
La condanna all’ergastolo normale è prevista per diversi tipi di reato: tra essi possiamo individuare l’omicidio volontario, la diffusione volontaria di epidemia che uccida una o più persone, lo spionaggio se mette in pericolo la sicurezza dello Stato, il sequestro di persona a scopo di estorsione o terrorismo con morte dell’ostaggio.
L’ergastolo ostativo, che non ammette misure riduttive, è previsto per chi commette reati di particolare gravità, tra cui l’associazione di tipo mafioso, l’associazione finalizzata al traffico di droga e reati con finalità di terrorismo. Se però il condannato sceglie di diventare collaboratore di giustizia (come i pentiti di mafia) ha il diritto di passare al regime dell’ergastolo normale. Questo trattamento penitenziario fu introdotto con la legge n. 356/1992, all’indomani di sanguinose stragi di mafia (in particolare quella di Capaci, in cui furono uccisi il giudice Giovanni Falcone con la moglie e due agenti della scorta) e stabilì di fatto una presunzione assoluta di pericolosità sociale tale da rendere incompatibile il condannato con qualsiasi possibilità di reinserimento sociale, tranne che nell’ipotesi di collaborazione con la magistratura.
Ergastolo ostativo e collaborazione con la giustizia
Su questo aspetto nasce però un legittimo dubbio, se l’opzione di non collaborare con la magistratura porti a escludere con certezza l’ipotesi di redenzione e la volontà di sciogliersi definitivamente dai legami malavitosi precedenti.
Sul tema dell’ergastolo ostativo si è espressa nel 2019 la Corte europea dei diritti dell’uomo, dichiarandolo non conforme all’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in cui si afferma che «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». La Corte ha pertanto invitato il Parlamento italiano ad attuare una riforma che porti a tenere conto dei progressi nell’iter rieducativo, senza esigere che la rottura con le organizzazioni mafiose «si manifesti esclusivamente attraverso la collaborazione di giustizia».
Sul piano interno sono state di grande importanza le pronunce della Corte costituzionale. In particolare con la sentenza n. 253/2019 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di accordare benefici carcerari a chi si trova nella condizione di ergastolo ostativo, sottolineando la necessità che sia il giudice a valutare situazioni di sicuro ravvedimento al di là della mancata collaborazione.
Con l’ordinanza n. 97/2021 ha stabilito che: «la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali».
In pratica l’organo costituzionale ha affermato l’incompatibilità della disciplina dell’ergastolo ostativo con la Costituzione nella parte in cui si individua nella collaborazione con la giustizia l’unica via possibile per ottenere i benefici penitenziari, ribadendo la necessità di trovare un giusto compromesso tra le esigenze di sicurezza dei cittadini e il principio di rieducazione della pena sancito dall’art. 27 Cost.
La riforma dell’ergastolo ostativo
Il Governo, preso atto delle disposizioni della Corte costituzionale, ha emanato in materia il decreto legge n. 162/2022, convertito con la legge n. 199/2022. Che cosa prevede questa norma?
Dispone che i benefici carcerari possono essere riconosciuti ai detenuti, anche in assenza di specifica collaborazione, se essi dimostrano di avere intrapreso un efficace percorso riabilitativo oltre che di non essere più legati alle associazioni criminali cui appartenevano. Possono fornire tale prova attraverso l’adempimento delle obbligazioni civili legate alla condanna e con la documentazione di elementi specifici che dimostrino l’estraneità alle associazioni criminali. La valutazione di ogni caso è affidata al Tribunale di sorveglianza, sentiti il Pubblico ministero e il Procuratore antimafia e acquisite le informazioni necessarie da parte del carcere.
Anche la Corte di cassazione, con la sentenza n. 23556/2023, ha confermato che il presupposto della concessione del beneficio penitenziario è l’accertata intrapresa di un percorso di recupero.
Per ottenere la liberazione condizionale, tuttavia, è necessario che i detenuti per ergastolo non collaboratori di giustizia abbiano scontato almeno trent’anni di carcere. Una volta liberi essi dovranno rispettare il divieto di incontrare o mantenere contatti con persone condannate per reati di mafia o di terrorismo.
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