Agire contro il cambiamento climatico
Il ruolo dei pari e della eterogeneità
Il termine “Antropocene”, coniato da Paul Crutzen, indica l'epoca geologica in cui l'attività umana è diventata il principale fattore di cambiamento del sistema Terra. L'inizio di questa nuova era viene generalmente collocato intorno alla Rivoluzione Industriale, quando l'utilizzo massiccio di combustibili fossili ha iniziato a modificare la composizione dell'atmosfera. Tuttavia, è con la “Grande Accelerazione” del dopoguerra, caratterizzata da una crescita esponenziale dell'economia e del consumo, che l’impronta umana sul pianeta ha raggiunto proporzioni globali. La capacità della biosfera di assorbire le emissioni di anidride carbonica è stata così superata, innescando profonde trasformazioni climatiche e ambientali. La crescita economica esponenziale, associata a un incremento massiccio nell’uso di energia fossile, è stata la principale causa dell'aumento delle emissioni di gas serra. Secondo l’IPCC[1], questo trend ha innescato un riscaldamento globale che potrebbe raggiungere fra i 3 e i 6°C entro fine secolo, con la CO₂ proveniente dai combustibili fossili che rappresenta circa il 60% del problema.
Agire contro il cambiamento climatico: gli accordi internazionali
Nel 1992, per cercare di frenare il riscaldamento globale, è stato firmato un accordo internazionale: la UNFCCC, ovvero la Convenzione delle Nazioni Unite sul Clima.
L’obiettivo era quello di ridurre le emissioni di gas serra e prevenire cambiamenti climatici pericolosi causati dall'uomo. Ogni anno, i Paesi che hanno firmato questo accordo si riuniscono alla COP (Conferenza delle Parti) per discutere e decidere come affrontare insieme il problema del clima. Le più famose COP si sono tenute a Kyoto (COP3 nel 1997), Copenhagen (COP15, nel 2009) e Parigi (COP21, 2015). Durante quest’ultima conferenza, è stato firmato “l’Accordo di Parigi” che, all'articolo 2, si pone come obiettivi:
- Mitigazione: limitare l'aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali, perseguendo sforzi per limitarlo a 1,5°C. Questo obiettivo mira a ridurre le emissioni di gas a effetto serra a livello globale;
- Adattamento: accrescere la capacità di adattamento agli effetti avversi dei cambiamenti climatici e promuovere lo sviluppo resiliente al clima e a basse emissioni. Questo implica mettere in atto misure per proteggere le popolazioni e gli ecosistemi dagli impatti dei cambiamenti climatici;
- Finanza climatica: rendere i flussi finanziari coerenti con un percorso di sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra e resiliente al clima. Questo significa che i finanziamenti pubblici e privati devono essere indirizzati verso progetti e tecnologie che contribuiscano alla lotta ai cambiamenti climatici.
All’interno dello stesso accordo sono stati definiti i Contributi Determinati a Livello Nazionale (Nationally Determined Contributions, NDC): piani d’azione che ogni Paese firma volontariamente per affrontare il cambiamento climatico e che delineano gli obiettivi per ridurre le emissioni di gas serra e adattarsi agli impatti del riscaldamento globale. Gli NDC sono personalizzati, tenendo conto delle specifiche circostanze economiche, sociali e ambientali dei singoli Paesi e possono includere misure come lo sviluppo di energie rinnovabili, l'efficienza energetica, la protezione delle foreste e l’adattamento delle infrastrutture.
Mentre scrivo questo lavoro, si è appena conclusa a Baku la COP29. Nonostante le speranze riposte in questo incontro, i risultati ottenuti hanno suscitato un dibattito acceso tra esperti e osservatori, anche dovuto al fatto che erano assenti i rappresentati di Paesi importanti.
Uno dei temi centrali della COP29 è stata la finanza climatica. I Paesi in via di sviluppo hanno ribadito la necessità di un maggiore sostegno finanziario da parte delle nazioni più industrializzate per affrontare gli impatti del cambiamento climatico e attuare misure di adattamento e mitigazione. Tuttavia, le promesse di finanziamento sono risultate ancora una volta insufficienti rispetto alle esigenze reali.
Allo stesso tempo, è stato posto l’accento sulla importanza della mitigazione. Gli scienziati del clima infatti hanno sottolineato l'urgenza di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra per limitare l'aumento della temperatura globale a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, come previsto dall’Accordo di Parigi. Tuttavia, nonostante alcuni progressi, gli impegni assunti dai Paesi non sono stati considerati sufficienti per raggiungere questo obiettivo ambizioso.
Infine, un altro tema centrale è stato quello della trasparenza. I Paesi sono stati invitati a migliorare la comunicazione dei loro impegni e dei progressi compiuti nella riduzione delle emissioni.
Agire contro il cambiamento climatico: come sta andando?
Nonostante gli accordi internazionali e le politiche nazionali, il mondo è ancora sulla traiettoria di un riscaldamento globale superiore a 1.5°C entro il 2030. Le azioni per il clima, pur in aumento, sono ancora insufficienti a causa di differenze – eterogeneità, disuguaglianze - tra i Paesi riguardo all’ambizione e ai tempi degli interventi. Queste differenze sono influenzate da fattori come la distribuzione dei danni climatici e le disuguaglianze economiche. Tuttavia, le azioni di un Paese possono influenzare positivamente le scelte degli altri, sottolineando l'importanza della cooperazione internazionale: la pressione dei pari (peer pressure) può ancora avere un ruolo per l’abbattimento delle emissioni e il contenimento dell’aumento delle temperature.
Ciò solleva due domande cruciali per la ricerca:
- in che modo lo sviluppo diseguale – l’eterogeneità fra Paesi - e altri fattori geografici economici influenzano l'azione globale per il clima?
- quali condizioni, se esistono, portano a livelli elevati e sostenuti di azione globale e a un’efficace transizione a basse emissioni di carbonio?
Il ruolo dell’eterogeneità (spaziale)
La volontà di ciascun Paese di intraprendere azioni per il clima è influenzata da una combinazione di fattori idiosincratici che sono a loro volta il risultato di vari processi interconnessi. Possiamo individuare quattro fattori principali che influenzano la distribuzione spaziale delle preferenze di intervento.
In primis, la disparità nella distribuzione delle risorse economiche a livello globale è un fattore determinante nel differente impegno dei Paesi nella lotta ai cambiamenti climatici. I Paesi meno sviluppati, spesso carenti di risorse, tendono a intraprendere azioni meno ambiziose. Studi empirici suggeriscono una correlazione positiva tra il PIL pro capite e l’adozione di politiche climatiche più stringenti, sebbene i risultati possano variare a seconda del tipo di azione considerata. Questa disparità è comprensibile, poiché risorse economiche limitate implicano costi più elevati per attuare misure di mitigazione, creando maggiori vincoli economici e politici.
Un secondo fattore cruciale è la vulnerabilità di ciascun Paese agli impatti del cambiamento climatico. I Paesi più esposti a eventi estremi e con minori capacità di adattamento sono maggiormente incentivati ad agire per mitigare il cambiamento climatico. La vulnerabilità è un concetto complesso che combina fattori geografici, come la frequenza e l'intensità degli eventi estremi, e fattori socioeconomici, come la capacità infrastrutturale e la resilienza delle comunità. Studi recenti sottolineano come la vulnerabilità climatica possa influenzare dinamiche demografiche, sociali e politiche, come la popolazione, la fertilità, le migrazioni e i conflitti. Se prendiamo un indice di vulnerabilità come il Notre Dame-Global Index, composto da 36 indicatori che catturano la vulnerabilità ai danni del cambiamento climatico in sei settori (cibo, acqua, salute, servizi eco-sistemici, habitat umano e infrastrutture), si nota subito che c’è una forte disomogeneità geografica e i Paesi sono divisi tra due gruppi chiari: i Paesi più vulnerabili - Africa sub-sahariana, Asia meridionale, piccole isole e America centrale e meridionale - e il resto del mondo.
In terzo luogo, è noto che la distribuzione globale dei combustibili fossili influenza l’azione per il clima concentrando le industrie estrattive in alcuni Paesi. Questi Paesi saranno meno disposti a intraprendere azioni per il clima, dato che tale mitigazione delocalizza inequivocabilmente il valore economico dalle loro economie. Se guardiamo alle rendite da carbone, petrolio e gas come quota del PIL, la regione MENA (Middle East and North Africa) è l’unica ad avere un’ampia percentuale di Paesi con rendite da combustibili fossili superiori al 20% del PIL. Inoltre, anche diversi Paesi sub-sahariani come l’Angola hanno rendite petrolifere elevate in rapporto al PIL. Ci aspetteremmo quindi che questi Paesi, a parità di altri fattori, siano meno disposti ad agire per mitigare il cambiamento climatico. Tuttavia, questa misura spicciola delle rendite da combustibili fossili può mascherare un’esposizione geografica più complicata agli asset dei combustibili fossili. Alcuni autori hanno rilevato, infatti, che i mancati profitti nel settore del petrolio e del gas dovuti alle politiche di mitigazione del clima previste sono distribuiti attraverso una vasta rete azionaria globale di 1,8 milioni di società ai proprietari finali di questi asset: la maggior parte di questo rischio di mercato ricade sugli investitori privati, soprattutto nei Paesi OCSE, compresa una notevole esposizione attraverso i fondi pensione e i mercati finanziari.
Un quarto fattore cruciale è rappresentato dalle istituzioni politiche. Paesi con istituzioni in grado di definire e attuare politiche a lungo termine sono più propensi ad adottare misure ambiziose per il clima. La presenza di istituzioni solide e trasparenti, caratterizzate da bassi livelli di corruzione, facilita l’adozione di politiche impopolari nel breve termine, ma necessarie per affrontare una sfida globale come il cambiamento climatico. Tuttavia, la variabilità delle istituzioni politiche a livello globale è influenzata da una molteplicità di fattori, tra cui la storia, la cultura e il contesto economico.
In un recente lavoro di ricerca insieme a Giorgos Galanis e Ben Tippet, abbiamo unito questi quattro fattori e creato un indice che ci ha permesso di rilevare quanto l’eterogeneità - la diseguaglianza - spaziale sia fortissima e che la stessa non può essere banalmente ricompresa in una dicotomia Nord-Sud o poveri-ricchi. Inoltre, l’indice cambia nel tempo, il che implica che a parità di fattori globali (come la crescita dello stock di emissioni di gas serra) ci sono una serie di fattori idiosincratici tra i Paesi che possono cambiare nel tempo.
L’eterogeneità spaziale è quindi cruciale nello spiegare l’agire dei Paesi contro il cambiamento climatico. Quando tutti i Paesi sono simili (cioè, basso grado di eterogeneità), tendono a intraprendere azioni più o meno simili, poiché le loro decisioni sono guidate da fattori comuni globali, come il tasso di crescita delle emissioni e la partecipazione degli altri Paesi. Un’accentuata eterogeneità, all’opposto, rende difficile il coordinamento fra Paesi e aumenta la possibilità che ogni Paese affronti il cambiamento climatico in modo diverso.
Peer pressure e free-riding effect
Oltre ai fattori già analizzati, è fondamentale considerare la pressione esercitata dai gruppi di Stati su un singolo Paese. Questo fenomeno, noto come “pressione dei pari”, induce uno Stato ad adottare comportamenti, politiche o atteggiamenti simili a quelli degli altri membri del gruppo, per evitare l’isolamento o per dimostrare la propria appartenenza.
L'efficacia della pressione dei pari è influenzata da diversi meccanismi. Da un lato, c’è il conformismo: un Paese potrebbe sentirsi obbligato ad adottare politiche simili a quelle degli altri membri di un gruppo per evitare di essere escluso. Dall’altro, c'è la competizione: un Paese potrebbe cercare di dimostrare la propria superiorità o il proprio impegno in una causa specifica, entrando in una sorta di “gara”" con gli altri Stati. Infine, l'internalizzazione delle norme internazionali gioca un ruolo fondamentale: quando un Paese interiorizza determinate regole, è più probabile che le rispetti anche in assenza di pressioni esterne.
La partecipazione di molti Paesi alla lotta contro il cambiamento climatico è fondamentale. Tuttavia, si pone il problema del “free rider”: alcuni Paesi potrebbero essere tentati di non contribuire agli sforzi collettivi, godendo dei benefici delle azioni degli altri senza sostenere i costi. Questo rischio è mitigato dalla pressione sociale, che può spingere tutti i Paesi a intraprendere azioni concrete e a evitare comportamenti opportunistici.
D’altra parte, se il grado di eterogeneità spaziale è alto e/o gli effetti della pressione sociale sono deboli, ciò aumenterà l’influenza dell’effetto del “free-riding”, portando a un declino dell’azione globale contro il cambiamento globale. Ed è proprio quello che, a nostro avviso, sta avvenendo, dandoci un chiaro avvertimento: l’aumento osservato nell’azione climatica negli ultimi decenni non implica necessariamente che verranno raggiunti e mantenuti alti livelli di cooperazione nel tempo.
Che fare? Ridurre l’eterogeneità e aumentare la pressione dei pari
Negli ultimi quattro decenni, si è assistito a una crescente consapevolezza della necessità di mitigare il cambiamento climatico, tradotta in una proliferazione di politiche e strumenti a livello nazionale e internazionale. Nonostante questi sforzi, le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera continuano a crescere. Per comprendere le dinamiche dell’azione climatica a livello globale e progettare interventi più efficaci, è necessario approfondire l’analisi dei fattori che influenzano le scelte dei policymaker.
Lo sviluppo geografico diseguale ha un impatto profondo sull’azione climatica internazionale. La mancanza di risorse economiche in molte regioni, combinata con una maggiore vulnerabilità agli eventi estremi, crea disuguaglianze significative nella capacità di affrontare il cambiamento climatico. Le traiettorie di sviluppo storiche, influenzate da fattori politici ed economici, hanno plasmato le attuali capacità di mitigazione e adattamento di ciascun Paese. Di conseguenza, i costi e i benefici percepiti delle politiche climatiche variano notevolmente a livello globale.
Per raggiungere un’azione climatica globale efficace e duratura, è necessario ridurre le disuguaglianze tra i Paesi. Uno sviluppo geografico disomogeneo crea ostacoli alla cooperazione internazionale, poiché i Paesi con risorse limitate possono incontrare difficoltà nel partecipare agli sforzi globali. Inoltre, le dinamiche politiche ed economiche generate dalle disuguaglianze possono portare a una maggiore instabilità nelle politiche climatiche.
Le relazioni internazionali costituiscono una complessa rete di interdipendenze che collega i Paesi in modo significativo. Le decisioni di un Paese in materia di clima hanno ripercussioni su scala globale, creando una sorta di effetto domino. In questo contesto, la pressione esercitata dai Paesi vicini o dai partner commerciali può svolgere un ruolo cruciale nel promuovere l’azione climatica. Una maggiore pressione può ridurre la possibilità che alcuni Paesi defezionino dagli accordi internazionali e aumentare le probabilità di un’azione collettiva efficace.
Le risposte a queste domande non riguardano solo i decisori politici, ma coinvolgono tutta la società civile, invitandoci a riflettere sul ruolo che ognuno di noi può svolgere per costruire un futuro più equo e sostenibile.
[1] L’ IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) è un'organizzazione internazionale istituita nel 1988 dalla World Meteorological Organization (WMO) e dal United Nations Environment Programme (UNEP) con l’obiettivo primario di valutare lo stato delle conoscenze scientifiche, tecniche e socioeconomiche relative ai cambiamenti climatici. L’IPCC non svolge attività di ricerca primaria, ma si dedica alla rigorosa analisi e sintesi della vasta letteratura scientifica prodotta a livello globale sul tema del riscaldamento globale
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