Le parole che accolgono: il linguaggio come pratica di riconoscimento a scuola
L'articolo affronta il tema del linguaggio inclusivo da tre punti di vista: il genere, la disabilità e la diversità culturale, sottolineando il ruolo della scuola - e del Dirigente - come propulsore di un'educazione al riconoscimento di tutti e ciascuno.
1. Il potere delle parole nella comunità educativa
Il linguaggio non è un dispositivo neutro: ogni parola che scegliamo porta con sé significati impliciti, valori e norme, ha la possibilità di farsi stanza angusta o di aprire orizzonti ampi e di respiro. Questo accade perché insieme alla capacità di descrivere la realtà, il linguaggio ha una funzione prescrittiva, raccontandoci di come un qualcosa debba essere. Il modo in cui ci esprimiamo influenza profondamente le relazioni, le dinamiche sociali e le possibilità di riconoscimento delle persone. Come osservava Alma Sabatini già negli anni ‘80 del Novecento «non solo parliamo una lingua, ma siamo parlati da questa». Osservando il linguaggio, infatti, molto possiamo comprendere della comunità parlante che lo adotta, e attraverso le prassi linguistiche possiamo seguire le tracce delle dinamiche socio-culturali che hanno generato le persistenti disuguaglianze che osserviamo oggi nelle nostre società contemporanee.
Se il linguaggio rappresenta dunque uno strumento di potere, capace di rafforzare gerarchie, stereotipi e discriminazioni, questo medesimo strumento ha un potenziale trasformativo in grado di fare da volano a cambiamenti sociali, generare comunità plurali, aprire spazi e modi nuovi di nominare l’esistente. Proprio su questo potenziale trasformativo si gioca oggi il dibattito sul linguaggio ampio, definito dalla sociolinguista Vera Gheno come «un linguaggio in apertura, in ricerca, che tenta di tenere conto di ogni caratteristica umana che può portare a una discriminazione: etnia, religione, estrazione sociale, corpi non conformi, orientamento sessuale, identità di genere», una pratica che cerca strumenti per nominare realtà complesse senza ridurle. Questo breve articolo vuole proprio stimolare riflessioni intorno all’uso del linguaggio in questa chiave, attraversando alcuni dei terreni sopracitati.
Collocata nel contesto educativo, questa prospettiva si fa ancor più responsabilità condivisa: ogni discorso, ogni attività didattica, ogni testo o conversazione può far emergere mondi possibili, costruire immaginari o, al contrario, consolidare disuguaglianze e stereotipi. Il linguaggio diventa dunque un vero e proprio dispositivo educativo: apre spazi di possibilità, trasformazione e consapevolezza critica, oppure rischia di imprigionare in visioni limitanti e stereotipiche della realtà. Riconoscere questo potere significa mettere la comunità educante al centro di un esercizio consapevole e di un cambiamento socio-culturale dove nominare è al contempo un atto di responsabilità e un gesto creativo, a partire da una parola chiave: consapevolezza.
2. Linguaggio e genere
L’italiano è una lingua sessuata, che per sua natura grammaticale richiede di declinare le parole al maschile e al femminile. Eppure, questa regola inscritta nel nostro linguaggio è stata storicamente invisibilizzata in un uso del maschile sovraesteso per chiamare la realtà sociale. Una scelta che smette di essere tacita e neutra quando consideriamo il linguaggio da una prospettiva di genere, per interrogarci su come le parole contribuiscano a costruire la realtà sociale e a definire ciò che riteniamo “innato” o “appropriato” per donne, uomini e per tutte le identità che si collocano oltre questa dicotomia. Il genere non è un dato biologico, ma una costruzione sociale: un insieme di aspettative, norme e rappresentazioni che influenzano comportamenti, ruoli e opportunità. Si impara il genere, lo si agisce e lo si comunica, anche e soprattutto attraverso il linguaggio.
Nominare attraverso un linguaggio plurale non è dunque un vezzo linguistico, un esercizio di forma da abdicare alla retorica del “ci sono cose più importanti". Come rappresentava Sabatini, la lingua italiana strutturata intorno al maschile come forma “neutra”, riflette e al tempo stesso rafforza rapporti di potere e modelli gerarchici. L’uso del maschile sovraesteso (“i ragazzi”, “i docenti”, “il presidente”) rende invisibile la pluralità dei generi presenti nella realtà, consolidando l’idea che il maschile rappresenti la norma e tutto il resto un’eccezione. Queste forme linguistiche, apparentemente innocue, producono effetti simbolici profondi: chi non è nominato fatica a essere riconosciuto, non esiste.
Riflessioni più recenti invitano a un uso del linguaggio che tenga conto della complessità del reale, proponendo un approccio ampio, plurale e consapevole. Non si tratta di inventare parole astruse o di imporre regole, ma di aprire spazi di rappresentazione (applicando la grammatica): dire la dirigente scolastica, gli/ le studenti, il personale docente significa restituire visibilità e valore a tutte le soggettività, riconoscendo che la lingua cambia perché cambia la società.
3. Linguaggio e disabilità
Il concetto di disabilità è un concetto dinamico e molto ampio, attraversato ancora oggi da un processo di risignificazione che passa anche dal linguaggio. Per lungo tempo ha prevalso un modello medico-individuale, che concepiva la disabilità come una caratteristica dell’individuo intrinsecamente negativa, un limite da correggere o compensare. Questa visione, riduceva la persona alla sua condizione considerata deteriore, rendendola oggetto di interventi e non soggetto di diritti. A partire dai movimenti di persone con disabilità nati negli anni ‘80 e poi con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (2006), si è progressivamente affermato un modello sociale, che sposta l’attenzione dalle menomazioni individuali alle barriere – fisiche, comunicative, culturali e linguistiche – che la società erige. In questa prospettiva, la disabilità non è una “mancanza” ma una delle possibili esperienze umane, ed è responsabilità condivisa creare società che accomodino la diversità di tutte le persone che la compongono e la attraversano.
Questo cambiamento di paradigma si riflette anche nel linguaggio, a partire dalla presa di parole delle persone con disabilità stesse. Per esempio, espressioni come handicappato o diversamente abile risultano oggi anacronistiche o paternalistiche, perché pongono l’accento sulla disabilità come “minus quam” (un essere umano, sì, ma con qualcosa in meno), sottolineando la devianza dalla norma. L’approccio “people first”, promosso anche dalla Convenzione ONU, invita invece a porre l’accento sulla comune umanità: persona con disabilità, persona sorda, persona cieca. Non si tratta di semplice forma linguistica, ma di promuovere una visione emancipatoria che restituisca alla persona la propria interezza e il proprio diritto all’autodeterminazione.
Nella scuola, questo tema assume una valenza cruciale. La comunità educativa è attraversata quotidianamente dalla disabilità e il modo in cui la nominiamo negli spazi scolastici contribuisce ad aprire o a limitare possibilità di partecipazione.
4. Linguaggio e diversità culturale
L’UNESCO definisce la diversità culturale come “patrimonio comune dell’umanità”, fonte di innovazione, dialogo e reciproco arricchimento. Riconoscerla significa valorizzare i molteplici modi di essere, di vivere e di interpretare il mondo che convivono nelle nostre società. Tuttavia, anche in questo ambito il linguaggio può divenire veicolo di discriminazione o, al contrario, strumento di riconoscimento consapevole. Le parole che usiamo per riferirci a culture, origini o appartenenze possono costruire ponti o innalzare muri.
Espressioni come “straniero”, “extracomunitario”, “immigrato” vengono spesso utilizzate come etichette che riducono le persone a un’unica dimensione, negando la ricchezza delle loro storie, delle identità plurali. Allo stesso modo, modalità di narrazione stereotipiche (ad esempio riferirsi a certe tradizioni come “etniche” o “arretrate”) contribuiscono a consolidare gerarchie culturali implicite. Un linguaggio consapevole, invece, riconosce la pluralità dei punti di vista e ne fa occasione educativa, adottando termini più rispettosi come studente di origine marocchina, bambina nata in Italia da genitori cinesi, famiglia con background migratorio.
Nella scuola, dove la diversità culturale è esperienza quotidiana, il linguaggio rappresenta una leva pedagogica potente: attraverso parole, racconti e materiali didattici si possono costruire contesti accoglienti, capaci di riconoscere il valore delle differenze. Promuovere una comunicazione interculturale significa, per esempio, scegliere testi che offrano pluralità di narrazioni, favorire attività che mettano in dialogo le lingue e le culture presenti in classe, prestare attenzione alle espressioni che escludono o stigmatizzano. Coltivare questa sensibilità linguistica è un atto di giustizia educativa, in particolare in un paese come il nostro che non riconosce, per esempio, la cittadinanza alle seconde generazioni.
5. Educare al linguaggio, educare al riconoscimento
Scriveva Paulo Freire, “nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, ci si educa a vicenda”. Il linguaggio – che è dialogo, relazione, reciprocità – diventa parte essenziale di questo processo. Le parole che scegliamo, i modi in cui le insegniamo, le conversazioni che abitiamo negli spazi scolastici costruiscono quotidianamente la trama delle possibilità di ogni persona.
Una pedagogia trasformativa ed emancipatoria, come quella evocata da bell hooks, si fonda sull’ascolto e sulla possibilità di “imparare a disimparare” ciò che la norma ci ha insegnato a considerare naturale: ruoli, gerarchie, definizioni di valore, categorie di appartenenza. La scuola, in questa prospettiva, non è solo un luogo di trasmissione di saperi, ma uno spazio politico (letteralmente, della vita nella comunità) e relazionale, capace di restituire visibilità e riconoscimento.
Coltivare un linguaggio ampio e consapevole significa educare alla cittadinanza critica. Significa accogliere, nominare, rendere visibili, la pluralità delle esperienze, dei corpi, delle storie, e al tempo stesso fornire gli strumenti per nominare ciò che ancora è in nuce e supportarne lo sviluppo e l’emersione.
In una contemporaneità in cui le disuguaglianze sociali e culturali entrano in maniera dirompente nell’ambito educativo, costituendosi come sfida complessa, la scuola ha la possibilità e la responsabilità di essere laboratorio consapevole di cittadinanza. Un luogo che non solo accoglie le differenze, ma le riconosce come fondamento stesso della comunità democratica. Perché, come ci insegnano le pratiche educative più attente alla giustizia sociale, ogni parola pronunciata nella scuola può contribuire a costruire una società più equa, solidale e capace di futuro.
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