La letteratura italiana dell’antropocene e la funzione Calvino

Verso una nuova coscienza ecologica: excursus storico e suggerimenti di lettura

Italo Calvino è stato il primo scrittore del Novecento a porsi il problema dell’impatto della specie umana sull’ambiente. Il primo personaggio green della letteratura dell’antropocene è il barone rampante che, vivendo sugli alberi, offre uno sguardo straniante sul mondo. Ripercorriamo le opere di Calvino rintracciando il suo lascito e l’influenza che ha avuto su scrittori e scrittrici della contemporaneità.

E in più, a fine articolo, non perdete la videolezione del Professor Langella dal titolo “Italo Calvino ecologista”.

Origine e fortuna del termine “antropocene”

 

L’introduzione del termine antropocene nel lessico scientifico, per indicare l’impatto dell’azione umana sull’ambiente, si deve al biologo naturalista statunitense Eugene Filmore Stoermer, che cominciò a impiegarlo negli anni Ottanta del secolo scorso. La sua divulgazione, però, è più recente: la si fa risalire, in genere, al 2000 e se ne attribuisce il merito principale al meteorologo olandese Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica, benemerito studioso dell’atmosfera e in particolare degli effetti dello sviluppo sull’ozono. In Italia, la parola entra in circolazione qualche anno dopo, tant’è che nell’ultimo supplemento disponibile in rete (2009) del Grande Dizionario della Lingua italiana, cui lavorano gli Accademici della Crusca, ancora non è registrata, mentre nel 2012 fa la sua comparsa ufficiale nell’Enciclopedia Treccani come “lessico del XXI secolo”, per essere infine censita tra i “neologismi” del Vocabolario Treccani nel 2016.

In compenso, nel giro di pochissimo tempo antropocene è diventata una di quelle parole-faro che condensano, in sé, l’immagine di un’epoca, né è valso a strapparle questa rappresentatività il recente pronunciamento dell’Unione Internazionale delle Scienze Geologiche, che non ha ravvisato sconvolgimenti tali, rispetto alle caratteristiche dell’olocene, da autorizzare l’assunzione dell’antropocene tra le epoche evolutive del pianeta.

 

La metamorfosi dell’ambiente e una nuova coscienza ecologica

 

Se la nostra specie, da quando ha fatto la sua comparsa, è stata sempre un elemento destabilizzante nell’ecosistema perché, diversamente da tutte le altre creature viventi, vegetali e animali, non si è adattata all’ambiente, ma ha cercato, viceversa, di adattare l’ambiente alle proprie esigenze trasformandolo; quel che è accaduto a partire dalla rivoluzione industriale nei rapporti tra l’uomo e la natura, a ritmo crescente e da un certo punto in avanti esponenziale, è un fenomeno di proporzioni enormi.

La ricerca condotta, qualche anno fa, dall’Istituto Weizmann per le Scienze sulla moltiplicazione dei manufatti (cfr. E. Elhacham, L. Ben-Uri, J. Grozovski, Y.M. Bar-On, R. Milo, Global human-made mass exceeds all living biomass, in «Nature», 588, 2020, pp. 442-444) conferma che le “cose” prodotte dall’uomo (costruzioni, edifici, strade, fabbriche, depositi e soprattutto oggetti sfornati in serie dalle industrie) sono ormai più numerose, più estese e più pesanti della totalità di quelle prodotte dalla natura (animali e vegetali) sull’intera superficie terrestre.

Da tempo si stanno levando da ogni parte le voci allarmate degli scienziati che invocano correttivi urgenti e un ripensamento globale del nostro modello di sviluppo, per scongiurare una catastrofe planetaria. Si è diffusa, per fortuna, tra le ultime generazioni, grazie soprattutto alla scuola e al lavoro di sensibilizzazione di tante e tanti insegnanti, una coscienza ecologica, che si interroga sul futuro del genere umano, avvicinandosi pericolosamente il punto di non ritorno.

 

Italo Calvino e la nascita in Italia della “letteratura dell’antropocene”

 

La letteratura sta facendo la sua parte, consapevole dei guasti, talvolta irreparabili, che lo sviluppo fuori controllo, mosso unicamente dalla logica, miope quanto rapace, del profitto immediato, sta procurando all’ambiente. Tra i nostri maggiori autori del Novecento, il primo a porsi, in maniera sistematica e con lucidità di visione, il problema ecologico è stato Italo Calvino. È da lui, dunque, che a buon diritto si può far cominciare la “letteratura italiana dell’antropocene”. Nelle sue opere egli è venuto squadernando, una questione dopo l’altra, tutti gli aspetti ambientali più problematici dell’età contemporanea: cementificazione, deforestazione, inquinamento dell’aria e delle acque, esperimenti atomici e radiazioni nucleari, sofisticazione dei prodotti alimentari, accumulo e stoccaggio dei rifiuti, sconvolgimento degli ecosistemi, dilapidazione dei beni esistenti in natura. Vista nel suo insieme, la produzione narrativa di Calvino ci offre una summa abbastanza preoccupante delle ferite inferte all’ambiente da uno sviluppo frenetico e disordinato, che sta mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza della specie umana.

Che sia toccato proprio a Calvino questo ruolo pionieristico non è senza spiegazioni, se si considera che suo padre era un agronomo e sua madre assistente di Botanica all’Università di Pavia, mentre uno zio teneva cattedra alla Facoltà di Chimica. L’imprinting paterno, in particolare, trapela in chiaroscuro in quel racconto autobiografico che è La strada di San Giovanni. Cresciuto, inoltre, tra Cuba (la prima infanzia) e i pini e i fiori di Sanremo, proprio nella stagione del boom edilizio lungo tutta la Riviera Ligure, Calvino era votato in partenza a cogliere sul nascere gli scompensi dello sviluppo accelerato, rapinoso e senza regole che si verificò in Italia, specialmente nei distretti industriali e turistici, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, dando luogo a quello che trionfalisticamente fu battezzato il “miracolo economico”.

Non è un caso se i suoi primi romanzi a vocazione ecologica, ovvero Il barone rampante e La speculazione edilizia, escono entrambi nel 1957 e sono ambientati, velatamente (il ducato di Ombrosa) o in maniera del tutto trasparente, proprio in Riviera, per non dire nel territorio di Sanremo. E se nella Speculazione edilizia Calvino prende di mira «la febbre del cemento» che stava inghiottendo quasi tutto il verde della costa ligure, nel Barone rampante punta il dito contro la «furia della scure» che ha cancellato il paesaggio di Ombrosa, privando gli abitanti del luogo di ombra e di ossigeno.

 

Il barone rampante e lo sviluppo sostenibile

 

Calvino, diversamente da tanti altri letterati che hanno rifiutato incondizionatamente e a priori il progresso, si pronuncia, già a quest’altezza, per uno sviluppo sostenibile. Il suo modello è Cosimo Piovasco di Rondò, che pota con criterio i rami degli alberi per poter passare senza difficoltà dall’uno all’altro, che traccia il percorso della carreggiabile per il trasporto delle artiglierie, in modo da garantire la «minor perdita di piante», e che organizza un sistema efficiente di difesa dei boschi dai piromani, creando depositi d’acqua, turni di vigilanza e squadre di pronto intervento. Quello che Calvino depreca, nel Barone rampante, è «l’avvento», dopo la scomparsa di Cosimo, «di generazioni più scriteriate, d’imprevidente avidità, gente non amica di nulla, neppure di sé stessa», che avevano massacrato il territorio di Ombrosa. L’azione dell’uomo deve essere improntata, invece, al rispetto dell’ambiente, a un inserimento armonioso, non invasivo, delle attività umane nelle caratteristiche del territorio, proprio come ha fatto Cosimo: «questa natura d’Ombrosa ch’egli aveva trovato già tanto benigna, con la sua arte contribuiva a farla vieppiù a lui favorevole, amico a un tempo del prossimo, della natura e di sé medesimo».

 

Il barone rampante introduce nella letteratura dell’antropocene un dispositivo che, senza essere affatto esclusivo di essa, diventerà però un espediente largamente adottato: quello dello straniamento. Dopo di lui, vi ricorreranno, infatti, spesso e volentieri, gli autori dei romanzi apocalittici degli anni Settanta e poi, in tempi a noi più vicini, gli scrittori di ecofiction e di climate fiction, alimentando il filone frequentatissimo della cosiddetta “narrativa di anticipazione”. D’altronde, si comprendono abbastanza facilmente le ragioni della fortuna di un simile procedimento: molte volte, per prendere coscienza di una determinata situazione, di una verità scomoda da digerire, di comportamenti dannosi, di abitudini sbagliate o di un pericolo che ci minaccia, basta semplicemente cambiare il punto di osservazione, guardando la realtà con gli occhi di un’altra persona (diversa da noi per genere, per età, per cultura, per censo, per fede, per convinzioni, per esperienze di vita), oppure cambiando coordinate spazio-temporali o addirittura calandosi nei panni di un essere extra-umano. È la famosa «visione indiretta», di traverso, come «catturata da uno specchio», che Calvino stesso descriverà, a posteriori, nella prima delle Lezioni americane.

Nel Barone rampante l’occhio straniante, naturalmente, è quello di Cosimo, che guarda il mondo dall’alto, dalle fronde degli alberi. Cosimo è il primo personaggio green della letteratura dell’antropocene, perché, decidendo di andare a vivere sugli alberi, si costruisce un habitat consapevolmente dipendente dai mezzi limitati messi a disposizione dalla natura. Cosimo non insegue deliri di onnipotenza, sa in partenza che dovrà adattarsi alle caratteristiche dell’ambiente, cercando col suo ingegno di sfruttare al meglio tutte le opportunità che Ombrosa gli offre, ma nel rispetto delle sue leggi.

 

Tre opere di Calvino per affrontare dei temi cruciali

 

Lo sguardo dall’alto, lo straniamento del punto di vista, torna anche in uno degli episodi cruciali della Nuvola di smog, quello della gita in collina che consente al protagonista di osservare «per la prima volta dal di fuori», come «un’ombra di sporco», «greve, non ben spiccicata dalla terra», «la nuvola che mi circondava in ogni ora, la nuvola che abitavo e che m’abitava». Se si pensa che Calvino diede alle stampe questo romanzo breve nel 1958, è quasi impressionante la tempestività con cui registra l’affacciarsi di uno dei risvolti più critici dello sviluppo industriale e della combustione dei derivati del petrolio: quello dell’inquinamento atmosferico. Ma ancora più impressionante è la prontezza con cui affaccia, nelle ultime pagine, un altro serio motivo di apprensione: quello, tanto più insidioso perché invisibile, degli effetti, a dir poco nocivi (decessi, malattie terribili e malformazioni), della dispersione di radioattività nell’ambiente in conseguenza degli esperimenti nucleari.

 

Se poi nella Nuvola di smog Calvino mette a tema l’inquinamento dell’atmosfera, pochi anni dopo (1963) in uno dei racconti di Marcovaldo, intitolato Dov’è più azzurro il fiume, l’allarme viene portato sulla contaminazione dei corsi d’acqua, dove le fabbriche (nel caso specifico un’industria chimica di vernici) sversano i residui liquidi dei loro processi produttivi, avvelenando la fauna ittica e i suoi eventuali consumatori. Peraltro, all’inizio del racconto Calvino richiama il più vasto capitolo delle frodi alimentari, che hanno, di nuovo, ripercussioni anche pesanti sulla salute delle persone.

 

Il motivo dello smaltimento dei rifiuti si ripresenta, moltiplicato all’ennesima potenza, in Leonia, una delle Città invisibili (1972) di Calvino. Leonia fa parte, come sappiamo, della serie delle “città continue”. Nel disegno visionario dell’opera calviniana le “città continue” rappresentano il polo distopico delle megalopoli che vanno «coprendo il mondo», inghiottendo l’ambiente naturale, come mostra, esemplarmente, Cecilia. Leonia, nella fattispecie, è la città dello spreco, dell’usa e getta, che accumula ogni giorno una montagna di rifiuti. E quel che è peggio, spesso questi rifiuti sono di cose fabbricate con materiali non biodegradabili, che resistono «al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni». Calvino ha messo a fuoco, più di cinquant’anni fa, un’altra emergenza ambientale divenuta col tempo quasi ingestibile: quella delle discariche, dello stoccaggio di tutto ciò che la società del benessere, dell’opulenza e dei consumi ininterrottamente scarta e butta via.

 

Dalla Natura “matrigna” alla Natura “martire”

 

Dalle opere di Calvino fin qui passate velocemente in rassegna emerge una visione del rapporto tra l’uomo e la natura lontana anni luce da quella che, un secolo e mezzo prima, alle soglie della modernità, aveva proposto Leopardi, dalle Operette morali fino al testamento poetico della Ginestra: altro che vittime innocenti di una cieca, indifferente, matrigna, che non si prende cura dei suoi figli, anzi si mostra «nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere» sue (Dialogo della Natura e di un Islandese)! Calvino ha piena consapevolezza che il rapporto, in qualche modo, si è capovolto, che è l’uomo, adesso, a perseguitare la natura divorandone le risorse e devastando l’ambiente, che quello che si sta consumando sotto i nostri occhi è piuttosto un matricidio; con un effetto boomerang, tuttavia, che rischia di essere esiziale per il genere umano: la sua stessa scomparsa per eccesso di guasti e di rapina. Calvino l’adombra in un apologo del Castello dei destini incrociati (1973), la Storia della foresta che si vendica.

Ricordo, en passant, una curiosa coincidenza, anche cronologica, con questa inquietante profezia: l’improvvisa e misteriosa scomparsa del genere umano che dà a Guido Morselli l’innesco immaginario per il suo capolavoro romanzesco, Dissipatio H.G., uscito postumo nel 1977. Con la Storia della foresta che si vendica Calvino chiude il cerchio: tra gli alberi di Ombrosa il barone rampante aveva trovato la giusta misura dell’intervento umano sull’ambiente; tocca ancora agli alberi di una foresta decretare l’estinzione di una specie che, non avendo saputo «fermarsi in tempo», ha fatto «il deserto intorno» e ci ha «lasciato le cuoia».

 

La funzione Calvino

 

Non è senza significato, allora, che il protagonista di Paese d’ombre, il romanzo più letto di Giuseppe Dessì, pubblicato nel 1972, si faccia eleggere sindaco di un paesino della Sardegna anzitutto per piantumare migliaia di pini sul crinale della montagna, reso brullo dal solito dissennato disboscamento: «Voi avete lasciato distruggere le foreste, io voglio piantarle di nuovo». Piantare un albero è diventato, da allora, addirittura un gesto simbolico di riconciliazione con l’ambiente e di investimento sul futuro, un atto di coscienza ecologica e di impegno a custodire il patrimonio naturale che abbiamo ricevuto. In questo orizzonte va collocata un’iniziativa editoriale alquanto singolare, perché promossa, nel 2019, da un noto marchio farmaceutico di prodotti naturali e biologici, Aboca: una collana (ormai giunta a una ventina di titoli), intitolata “Il bosco degli scrittori”, le cui storie ruotano tutte intorno a qualche albero.

Su questa linea di una difesa responsabile dell’ambiente naturale come patrimonio prezioso e godibile da salvaguardare si sono mobilitati, a seguire, scrittori come Mario Rigoni Stern, di cui si può ricordare, ad esempio, Uomini, boschi e api (1980), o il Paolo Cognetti del fortunatissimo e premiato Le otto montagne (2016), o ancora il “paesologo” Franco Arminio, autore, fra l’altro, di una Geografia commossa dell’Italia interna (2013).

Né la funzione Calvino si esaurisce qui: senza nulla togliere all’importanza di certi ulteriori influssi, provenienti soprattutto dalla letteratura e dal cinema nordamericani, praticamente tutti gli sviluppi della nostra letteratura dell’antropocene riprendono questo o quello dei temi tempestivamente censiti, con sguardo presbite, da Calvino. Nell’ultimo capitolo di Gomorra (2006), per fare un esempio, quello che Roberto Saviano dedica alla Terra dei fuochi, riaffiora, anche dal punto di vista orografico, nelle «catene montuose di veleni» che circondano i centri abitati di quel territorio, l’archetipo calviniano di Leonia, presa nella morsa delle sue discariche, che la «sovrastano da ogni lato come un acrocoro di montagne»; con l’aggiunta, tuttavia, del risvolto economico dell’enorme giro di affari con cui s’ingrassa la camorra gestendo in maniera criminale, anche rispetto alla salute delle popolazioni, il trasferimento o l’occultamento delle ecoballe e dei rifiuti tossici.

 

Distopie degli anni Settanta

 

All’incrocio tra il Calvino “nucleare” della Nuvola di smog e il Calvino distopico della Storia della foresta che si vendica prende forma anche in Italia, proprio negli anni Settanta, il filone del romanzo apocalittico, sullo sfondo degli attentati terroristici e della strategia della tensione, in piena crisi petrolifera e sotto la minaccia, sempre incombente, di una guerra atomica. Gli autori di questo filone prefigurano una catastrofe di portata planetaria (come nel Superstite di Carlo Cassola, o nel Mondo irritabile di Paolo Volponi, o ancora nel Re del magazzino di Antonio Porta, romanzi pubblicati tutti nel 1978), o scenari di vita agghiaccianti, totalmente disumani (come nel Mondo nudo di Raffaele Crovi, del 1975).

 

Anni Duemila: la “letteratura di anticipazione”

 

A questa prima fioritura, una nuova e più durevole seguirà negli anni Duemila, ad opera di una nuova generazione di scrittrici e di scrittori, come Laura Pugno (con Sirene, 2007), Paolo Zanotti (con Bambini bonsai, 2010), Alessandra Montrucchio (con E poi la sete, 2011), Luca Doninelli (con Le cose semplici, 2015) o Bruno Arpaia (Qualcosa, là fuori, 2016). Rispetto ai romanzi della stagione precedente, che proiettavano, spesso, le vicende all’indomani della catastrofe, nel day after, cercando di immaginarne le terribili conseguenze, si direbbe che la più recente produzione narrativa preferisca rappresentare le condizioni proibitive della vigilia, quelle che precedono il collasso finale del pianeta prosciugato e inaridito, quando il danno procurato all’ambiente è diventato ormai irrimediabile e non è più possibile tornare indietro. Si è parlato, non a torto, per queste opere, di “letteratura di anticipazione”, perché descrive con “realismo probabilistico”, sulla base delle proiezioni scientifiche delle più aggiornate teorie delle catastrofi, quel che verosimilmente accadrà se non si frena in tempo la corsa smodata di uno sviluppo insostenibile, che sta esaurendo tutte le scorte vitali senza preoccuparsi della loro rigenerazione.

A questa costellazione di romanzi distopici si può affiancare la cosiddetta ecopoetry, di cui si è fatta paladina, nel 2005, la biologa, docente e poetessa Ivana Trevisani Bach, lanciando il Manifesto di eco-poesia italiana. Si può segnalare, dell’autrice, una recente raccolta di versi, che ha voluto intitolare proprio Antropocene (2022).

 

Celati, Pecoraro, Mancuso e Filelfo

 

Senza spingersi così avanti, Gianni Celati in Verso la foce (1989) e Francesco Pecoraro nella Vita in tempo di pace (2013) ci hanno lasciato immagini desolanti di un degrado ambientale già avvenuto, l’uno seguendo il corso del Po, «pieno di bolle e schiume», «di rifiuti e macchie oleose», l’altro immaginando che una multinazionale progetti, per alimentare il flusso turistico, di riprodurre artificialmente la barriera corallina del Mar Rosso, mentre i mari si vanno svuotando di pesci: una radiografia impietosa del presente, insomma, di fronte alla quale non possiamo rimanere inerti. E se gli uomini non si danno per intesi dell’enorme pericolo che incombe sul futuro della specie, allora converrà chiedere soccorso a quelle creature viventi che, adattandosi all’ambiente, hanno dimostrato di essere, da sempre, molto più assennate di noi: le piante e gli animali. Straniamento per straniamento, due autori contemporanei, Stefano Mancuso e Filelfo, hanno dato loro la parola. Ne sono nate, rispettivamente, La nazione delle piante (2019), una costituzione in piena regola, degna delle migliori utopie, e L’assemblea degli animali (2020), un apologo che si inserisce nella più collaudata tradizione favolistica: due libri su cui faremmo bene, tutti, a meditare.

Ad essi si possono affiancare senza alcuna fatica le Poesie vegetali (2021) di Lino Angiuli, che, denunciando la bomba a orologeria del folle meccanismo produttivo creato dalle economie avanzate, si batte da anni per «un decentramento della posizione umana rispetto a quello delle altre creature e del cosmo»: quello stesso decentramento – a ben guardare – che Calvino, ancora lui, ha predicato nella più straniante e meno antropocentrica di tutte le sue opere, vale a dire le Cosmicomiche.

Referenze iconografiche: Kalinavova/123RF

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Guarda la videolezione

Giuseppe Langella passa in rassegna alcune opere di Italo Calvino: La speculazione edilizia, Il barone rampante, La nuvola di smog, Marcovaldo, Le città invisibili e Il castello dei destini incrociati.

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Giuseppe Langella

Già professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e direttore del Centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita”, è presidente della “Società italiana per lo studio della modernità letteraria” (Mod). Da sempre attivo nel campo dell'aggiornamento scolastico, promotore di corsi e pubblicazioni di didattica della letteratura, è coautore per Sanoma, insieme a Pierantonio Frare, Paolo Gresti e Uberto Motta, della Letteratura italiana Amor mi mosse (2019).