L’importanza del linguaggio nella comunità educante

La promozione di una cultura della parità passa inevitabilmente dalla consapevolezza che il nostro modo di parlare assume un ruolo centrale nella costruzione di immaginari, per noi e per chi ci ascolta. Come diffondere allora un linguaggio inclusivo a scuola? Come promuovere nelle classi una riflessione sui cambiamenti in atto nella lingua in un’ottica di genere? Manuela Manera propone alcuni suggerimenti pratici per far cogliere il valore di una lingua che ci piace definire “estesa”.

Quanto si parla di linguaggio inclusivo nelle scuole? Quanto si parla in modo inclusivo in classe? Quanta consapevolezza c’è rispetto al ruolo svolto dalle nostre pratiche linguistiche nel creare relazioni e ambienti di apprendimento?

L’attenzione che nella didattica si pone al linguaggio si concentra su tre aspetti prioritari: correttezza grammaticale, registro linguistico, appropriatezza della terminologia. Eppure la comunicazione è anche molto altro. Attraverso le parole non passiamo solo informazioni, ma creiamo e curiamo le relazioni interpersonali, forniamo viste prospettiche sul mondo filtrando e incorniciando esperienze ed eventi entro determinati rimandi semantici. Un’attenzione anche verso questi aspetti non solo è opportuna ma necessaria all’interno di una comunità educante.

Grazie alle politiche di “Diversity & Inclusion”, oggi si sente molto parlare di “linguaggio inclusivo”: spesso, però, il discorso è riportato all’interno di un dibattito polarizzato in forza del quale – prima ancora di comprendere con chiarezza di cosa si tratta – viene richiesto di schierarsi o a favore o contro. Inoltre, se ne parla talvolta come di un orpello che distoglie dai “veri problemi”: le frasi “C’è ben altro di cui occuparsi”, “I diritti non si ottengono con le parole” sono formulazioni ricorrenti che, a ben vedere, spingono a ignorare la performatività linguistica; in sintesi, tali esternazioni servono per autoassolversi dalla responsabilità dei propri atti linguistici.

Ma che cos’è il “linguaggio inclusivo”? 

Anche se il nome potrebbe suggerire un linguaggio settoriale, alla stregua del linguaggio burocratico, medico, giuridico ecc., in realtà con questa espressione non si indica una variante di italiano specifica di un ambito professionale, bensì un approccio alla comunicazione che prevede un’attenzione a come si rappresentano e nominano le persone all’interno del discorso con il fine di evitare comportamenti sessisti e stigmatizzanti. Il “linguaggio inclusivo” può considerarsi l’evoluzione della prospettiva di analisi indicata con l’espressione “linguaggio di genere”, a sua volta frutto degli studi sul “sessismo linguistico” introdotti in Italia da Alma Sabatini, in particolare con la sua opera Il sessismo nella lingua italiana (1987). In quest’ultima, la studiosa evidenzia come la lingua italiana venisse bistrattata da un punto di vista grammaticale per adeguarsi al sessismo che impregnava la società degli anni Ottanta; infatti, nei testi analizzati (tratti da annunci di lavoro e articoli giornalistici) si registrava una asimmetria tra maschili e femminili a livello sia quantitativo che qualitativo: un’asimmetria di potere e rappresentanza tra uomini e donne che rispecchiava il contesto socio-culturale italiano dell’epoca, ma che, al tempo stesso, riproducendola come norma/normalità, la convalidava.

Verso una simmetria di genere

Grazie al lavoro di Sabatini (il suo Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana è ancora oggi modello imprescindibile per linee guida sul tema), si misero in atto una serie di pratiche, studi, battaglie volte a riportare anche sul piano linguistico (che è uno spazio non solo simbolico ma anche politico) una maggiore simmetria tra i due sessi: tra le varie indicazioni, si proponeva la dismissione dell’uso sovraesteso o universale del genere grammaticale maschile e l’uso appropriato del femminile nei nomi di professione, carica, ruolo rivestito da una donna. Insomma, non più “la storia dell’uomo” ma “la storia umana” (o “dell’essere umano, dell’umanità”); non più “i docenti dell’istituto” ma “le docenti e i docenti (o “il personale docente”) dell’istituto”; non più “il preside Giovanna Maria” ma “la preside Giovanna Maria”.

Con il passare del tempo, accanto a questi obiettivi che miravano a un riequilibrio tra uomini e donne, si è aggiunta una nuova istanza: se di rappresentanza e rappresentazione c’è da parlare in un’ottica di genere, allora è necessario considerarli tutti, i generi; portando anche nella comunicazione quel superamento del binarismo che pare oggi (come accade spesso nel gioco di rifrazioni dato dalle nostre ignoranze) una novità ma che è nuovo solo in apparenza. Soggettività non binarie e queer ci sono sempre state nel corso della storia così come ci sono nel nostro presente, e ovviamente nei contesti che attraversiamo; se non le vediamo è anche perché, in una società “queerfobica” come la nostra, apparire “normale” è una questione di sopravvivenza, mette al riparo da aggressioni e microaggressioni pressoché continue. 

Strategie linguistiche per superare il binarismo 

Sul piano linguistico, l’italiano è una lingua storico-naturale flessiva: ovvero utilizza un meccanismo di sostituzione della parte finale della parola (morfema flessionale) per dare l’indicazione di genere e numero. Quando si parla di persone, in italiano – se non ricorriamo a espressioni e parole neutre come per esempio persona, individuo, soggetto… – ad oggi dobbiamo declinare o al maschile o al femminile. Da tempo, però, nell’ambito dell’attivismo (non solo LGBTQ+) si ricorre a strategie linguistiche volte a superare il binarismo di genere riprodotto dalla nostra grammatica tradizionale. Come? Aggiungendo altre terminazioni non riconducibili a un genere grammaticale già noto (come la schwa: -ə, che ha anche una realizzazione fonica e un grafema per il plurale: -з; o l’asterisco, o la terminazione -u). Dunque, a seconda della identità di genere cui ci si riferisce, in questi contesti si propone di scegliere, per esempio, tra ragazzo, ragazza, ragazzə (o ragazzu…). 

A ragionare su questo tema si rischia di dare l’impressione che si tratti di tecnicismi propri della linguistica, laddove, in realtà, sono cambiamenti già in atto; queste proposte di innovazione si intrecciano con istanze politiche e sociali: non si tratta dunque di dubbi ortografici che poco influiscono sulla qualità della vita (qual è va con o senza apostrofo?); si tratta, invece, di parole che sono connesse a corpi e che creano relazioni, alimentano diritti, cura, attenzione o, al contrario, determinano cancellazioni, oppressioni, discriminazioni, aggressioni tali da rendere la vita una sfida estenuante.

Linguaggio inclusivo e scuola 

A scuola raramente si dedica del tempo a una riflessione metalinguistica sui cambiamenti in atto nella lingua in un’ottica di genere, magari a partire da scelte che destano scalpore come la nuova edizione del dizionario Treccani, che lemmatizza il femminile riportandolo, secondo un criterio alfabetico, accanto e prima del corrispettivo maschile. 

Accanto alle attività di riflessione sulla lingua in aula (per quanto rare, preziosissime), è però essenziale anche indagare quanto “inclusivamente” si comunica a scuola. Le Linee guida per l'uso del genere nel linguaggio amministrativo del Mim (2018) hanno mancato il raggiungimento di una diffusa comunicazione istituzionale. È raro, ad esempio, sentire nominare le ragazze, le studiose, le alunne, le bambine, le scolare, le dirigenti, le coordinatrici… tanto per fare qualche esempio di espressioni inglobate, costantemente, nei maschili sovraestesi che dominano i discorsi, rafforzando (anche se non è questa l’intenzione comunicativa di chi li usa) le «gabbie di genere», per riprendere il titolo di un volume di Irene Biemmi. 

Che fare? Innanzitutto partire da sé: bisogna diventare consapevoli del significato e dell’impatto dei propri atti linguistici e comprendere il proprio posizionamento (cioè dove si è nella rete complessa che, nell’intersezionalità delle situazioni e caratteristiche individuali, ci porta ad avere privilegi, diritti o discriminazioni). Noi, parliamo in modo inclusivo? 

Un secondo passo è osservare in modo critico il paesaggio comunicativo che ci circonda, così da renderci conto se prevale un genere sugli altri, come sono rappresentate le soggettività ovvero con quali nomi, in quali ruoli, all’interno di quali relazioni, caratterizzate da quali aggettivazioni o predicati… Questa analisi andrebbe condotta su ogni prodotto comunicativo (cartelloni, libri di testo, avvisi, circolari, modulistica, lezioni tenute in aula ecc.) per poi, in un secondo momento, intervenire con riformulazioni più corrette. Se non vi si ricorre in modo costante, coerente e pervasivo prestando attenzione a tutte le comunicazioni, il “linguaggio inclusivo” resta un’indicazione tra tanti buoni propositi mai pienamente realizzati. 

 

Alimentare la cultura della parità in classe: cinque pratici suggerimenti

È complesso cambiare modi di parlare introiettati sin dall’infanzia (cfr. Cavagnoli, Dragotto 2020), perciò è importante capire perché vale investire le nostre energie anche in questo. Applicare un linguaggio “inclusivo” o – espressione che preferisco – una lingua estesa (ovvero con più ampie possibilità espressive) deve essere scelta coerentemente portata avanti sempre, non solo a scuola. Tuttavia, è a scuola che si deve avere un’attenzione più elevata; dobbiamo sforzarci di proporre una comunicazione che alimenti la cultura della parità, che la mostri sin dalla struttura delle frasi che usiamo: 

  1. evitiamo di parlare sempre al maschile (dunque salutare entrando in classe con un «Buongiorno a voi» al posto del diffusissimo «Buongiorno ragazzi»);
  2. decliniamo in modo corretto i femminili (e lavoriamo sul canone letterario e sulle figure mancanti, introducendo per esempio le Comunarde, Olympe De Gouge, la contessa Oldoini ecc.);
  3. usiamo espressioni neutre come persona, individuo, classe, gruppo ecc.;
  4. ricorriamo anche, dove il contesto lo consente e in tutte le occasioni in cui invece è necessario, a sperimentazioni che mostrino la realtà per quella che è: abitata da una varietà di persone, soggettività diverse, oltre le due rigide categorie f/m;
  5. cerchiamo di avere un approccio critico ai testi scolastici, ancora pregni di scompostezze linguistiche: si possono fare attività di riscrittura su passi in cui si legge “Il lettore… Gli scrittori… Gli operai… I sudditi…” portando alla riflessione sulla presenza di altri soggetti dietro a quei maschili. Si può proporre alla classe di riflettere sul rapporto tra norma e uso e su come le regole cambiano nel tempo attraverso le diverse edizioni dei dizionari (introduzione nuovi lemmi, modifiche nelle marche d’uso, interventi sugli esempi o sui significati; cfr. Fusco 2012).

A seconda del momento, dello strumento, della priorità, del pubblico, del contesto, si deciderà se attuare strategie inclusive senza dichiararle in modo esplicito (innescando dunque un processo di ascolto inconsapevole e successiva possibile imitazione) oppure dedicare una riflessione metalinguistica, purché questa non sia alla stregua di un box di approfondimento fatto il quale non se ne parla più perché le ore previste per educazione civica sono terminate.

 

Come diffondere maggiormente il linguaggio inclusivo a scuola? Usandolo.

È importante agire in modo coerente, con cura, ricordando l’impatto che hanno i nostri atti linguistici, al di là delle nostre intenzioni individuali. Le parole risuonano di significati stratificati e rimandano a inferenze e associazioni d’idee, a immaginari. Ci sono vademecum e linee guida che possono fornire utili suggerimenti, soprattutto per la redazione di documenti. Si sbaglierà talvolta, eppure è necessario provarci; è necessario creare, anche attraverso una comunicazione corretta in un’ottica di genere, un ambiente di apprendimento che non generi disparità e svantaggi.

Ci esporremo quasi sicuramente a critiche, perché i cambiamenti (persino quelli previsti e codificati dalla nostra grammatica, come i femminili dei nomina agentis) fanno paura: pungolano a cambiare prospettiva per vedere il mondo nella sua complessità, arricchendo immaginari e rendendo la lingua uno spazio più democratico. Chi fino ad oggi deteneva il privilegio dell’universalità si sente sotto minaccia; eppure c’è spazio per tutte e tutti.

BIBLIOGRAFIA (in ordine cronologico)
  • Sabatini Alma, Il sessismo nella lingua italiana, Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna, Presidenza del Consiglio dei ministri, Roma 1987.
  • Fusco Fabiana, La lingua e il femminile nella lessicografia italiana tra stereotipi e (in)visibilità, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2012.
  • Baldo Michela, Corbisiero Fabio, Maturi Pietro, Ricostruire il genere attraverso il linguaggio. Per un uso della lingua italiano non sessista e non omotransfobico, in “g/s/i (gender/sexuality/italy)”, 2016 https://www.gendersexualityitaly.com/ricostruire-il-genere-attraverso-il- linguaggio-per-un-uso-della-lingua-italiana-non-sessista-e-non-omotransfobico/ 
  • Robustelli Cecilia, Lingua italiana e questioni di genere. Riflessi linguistici di un mutamento socioculturale, Aracne Editrice, Roma 2018.
  • Gheno Vera, Femminili singolari. Il femminile è nelle parole, Effequ, Firenze 2019.
  • Somma Anna Lisa, Maestri Gabriele (a cura di), Il sessismo nella lingua italiana. Trent’anni dopo Alma Sabatini, Blonk, Pavia 2020. 
  • Djamila Ribeiro, Il luogo della parola, Capovolte, Alessandria 2020.
  • Cavagnoli Stefania, Dragotto Francesca, Sessismo, Mondadori, Milano 2021.
  • Manera Manuela, La lingua che cambia, Eris, Torino 2021.
  • Aa.Vv., Cose, spiegate bene. Questioni di un certo genere, Iperborea, Milano 2021.
  • Gümüsay Kübra, Lingua e essere, Fandango, Roma 2021 
  • Italiano inclusivo. Un a lingua che non discrimina il genere: www.italianoinclusivo.it

Referenze iconografiche: Master1305/Shutterstock

Manuela Manera

Dopo il dottorato di ricerca in Italianistica ha proseguito gli studi come libera ricercatrice occupandosi di gender studies e linguistica. Lavora come prof. di lettere precaria, conduce corsi di formazione sul tema “linguaggio e genere”, è collaboratrice editoriale, autrice di articoli su varie testate e riviste, fa parte del comitato scientifico del CIRSDe (Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne e di Genere), è attivista transfemminista. Ha pubblicato nel 2021 La lingua che cambia. Rappresentare le identità di genere, creare gli immaginari, aprire lo spazio linguistico, Eris (Torino).