Il programma Apollo
Tra il 1968 e il 1972, per nove volte gli astronauti americani del programma spaziale denominato “Apollo” partirono diretti alla Luna: due volte per inserirsi in orbita attorno al nostro satellite e sette volte per scendere sulla sua superficie (una volta dovettero rinunciarvi, ma l’equipaggio riuscì a salvarsi).
Il programma Apollo era nato sulla scia della guerra fredda con l’Unione Sovietica e sulla spinta del famoso discorso tenuto dal Presidente John Kennedy il 25 maggio 1961 davanti al Congresso: «Io sono convinto che questa nazione debba impegnarsi a raggiungere l’obiettivo, prima che questo decennio finisca, di far atterrare un uomo sulla Luna e di farlo tornare sano e salvo sulla Terra» (vedi M. Pivato, La corsa allo spazio e la conquista della Luna).
Al tempo in cui Kennedy pronunciò quel discorso, nessun americano era ancora andato in orbita. Scendere sulla Luna apparteneva alla fantascienza. I dirigenti della Nasa, l’ente spaziale americano creato nel 1958, furono presi alla sprovvista dalla fuga in avanti del Presidente: non esisteva alcuna strategia per una spedizione lunare, non erano previsti finanziamenti ad hoc, non c’erano le macchine per portare a termine l’impresa. Si doveva partire quasi da zero. Pareva una follia.
Eppure, incredibilmente, nel luglio del 1969 – cinquant’anni fa – l’Apollo 11 si apprestava a partire dalla base di Cape Canaveral, in Florida, per portare i primi uomini sulla Luna: Neil Armstrong, Edwin “Buzz” Aldrin, Michael Collins (vedi allegato I tre di Apollo 11).
L’impegno che Kennedy aveva preso otto anni prima con il popolo americano stava per essere portato a compimento.
Le macchine che fecero l’impresa
La pianificazione delle spedizioni lunari pose problemi assolutamente inediti ai responsabili della Nasa. Negli anni cinquanta Wernher von Braun (il famoso scienziato spaziale tedesco che aveva costruito per il Terzo Reich le V2 che colpivano Londra e che dopo la guerra era passato con gli americani) aveva progettato la costruzione di una grande stazione spaziale in orbita attorno alla Terra dalla quale sarebbe stato più agevole partire verso la Luna. Ma questo avrebbe implicato tempi troppo lunghi e investimenti fuori scala. Impensabile era anche un volo diretto Terra-Luna-Terra.
Nel novembre del 1961 un oscuro ingegnere spaziale, John Houbolt, ebbe l’ardire di scrivere una lettera direttamente a Robert Seamans, il numero due della Nasa, proponendogli una soluzione alternativa: arrivato in orbita lunare, il veicolo spaziale avrebbe sganciato un piccolo modulo che sarebbe sceso sulla Luna con due astronauti; il modulo sarebbe poi ripartito agganciandosi al veicolo-madre che lo attendeva in orbita; gli astronauti sarebbero passati nel veicolo principale (dove li attendeva il loro collega), prendendo la via della Terra dopo essersi liberati del modulo lunare. Una soluzione che riduceva drasticamente il peso del veicolo lunare e quindi i costi.
I dirigenti della Nasa esaminarono a lungo i pro e i contro della proposta. Spaventava l’idea di dover effettuare manovre di aggancio tra veicoli abitati, addirittura intorno alla Luna. Ma la proposta di Houbolt a poco a poco prese piede. Così, a metà degli anni sessanta – mentre gli astronauti cominciavano a effettuare in orbita terrestre le prime manovre di rendezvous e di docking (ovvero di avvicinamento e di aggancio) con le capsule biposto “Gemini” – si andava definendo l’architettura delle spedizioni lunari.
La composizione di Apollo
Il veicolo Apollo risultava costituito da tre elementi:
- il modulo di comando, destinato all’equipaggio di tre uomini, una struttura conica pesante 6 tonnellate e con un volume interno di 6,5 metri cubi;
- il modulo di servizio, dotato del motore per le manovre in orbita lunare e pesante 24 tonnellate, che conteneva i sistemi di sopravvivenza, le celle a combustibile per la produzione di energia elettrica, le antenne per le telecomunicazioni;
- il modulo lunare (noto dapprima come LEM, Lunar Excursion Module, poi più semplicemente LM), il veicolo più bizzarro mai costruito per lo spazio, una sorta di “ragno” costituito a sua volta da due elementi: il modulo di discesa (10 tonnellate), con quattro “zampe” e un motore per controllare il veicolo durante l’atterraggio sul suolo lunare; e il modulo di ascesa (4,5 tonnellate), dalla forma sfaccettata e irregolare in quanto non aveva bisogno di una struttura aerodinamica per muoversi nel vuoto dell’ambiente circumlunare, a sua volta dotato di un piccolo motore per ripartire dalla Luna. Lo spazio a disposizione dei due astronauti (che stavano in piedi, sostenuti da alcune cinghie) era poco più grande d’una cabina telefonica.
A lanciare i tre moduli dell’Apollo verso la Luna sarà il gigantesco razzo vettore Saturn V, una delle macchine più gigantesche mai costruite dall’uomo. Con l’Apollo alla sommità raggiungeva i 110 metri di altezza, pesava a pieno carico 3000 tonnellate ed era costituito da tre stadi. I cinque motori del primo stadio erano alimentati da ossigeno liquido e cherosene, quelli del secondo e del terzo stadio da ossigeno e idrogeno liquidi.
Dalla Terra alla Luna
Apollo 11 partì dalla piattaforma 39A di Cape Canaveral alle 15.32 ora italiana del 16 luglio 1969. Un milione di persone assistettero allo spettacolare decollo del razzo Saturn V. Circa 3500 giornalisti e radiotelecronisti erano presenti quel giorno storico a Cape Canaveral, per due terzi americani, il resto proveniente da 55 paesi.
Dodici minuti dopo il lancio, l’Apollo – ancora attaccato al terzo stadio del Saturn – entrava in orbita attorno alla Terra a 185 chilometri di quota. Dopo un’orbita e mezzo, impiegata a effettuare tutti i controlli, dal Centro di controllo della missione a Houston giungeva il go per la Luna. Il motore del terzo stadio veniva acceso per imprimere all’Apollo la spinta necessaria a uscire dall’orbita e immettersi su una traiettoria lunare. Trenta minuti più tardi il complesso formato dal modulo di comando (battezzato Columbia) e dal modulo di servizio si staccava dal terzo stadio, effettuava una rotazione su se stesso di 180 gradi e si agganciava al modulo lunare (Eagle, Aquila, l’uccello-simbolo degli Stati Uniti) estraendolo dal terzo stadio, che a quel punto veniva abbandonato nello spazio. I tre moduli dell’Apollo, riuniti in configurazione di volo, potevano così correre verso la Luna, distante circa 380 mila chilometri. L’obiettivo era la vasta distesa lavica del Mare della Tranquillità, all’altezza dell’equatore lunare.
Dopo un volo di trasferimento regolarissimo, il 19 luglio Apollo 11 iniziava il giro di boa intorno alla Luna, accendendo il motore del modulo di servizio per rallentare la velocità e inserirsi in orbita attorno al satellite. Manovra perfetta. Tutto era pronto, a questo punto, per il grande momento.
«Houston, qui Base Tranquillità. L’Aquila è atterrata»
Neil Armstrong e Buzz Aldrin si trasferirono nel modulo lunare attraverso un breve tunnel di raccordo, lasciando Michael Collins nel modulo di comando. Eagle si separò da Columbia e gli astronauti iniziarono la manovra di discesa verso il punto di atterraggio, individuato dagli scienziati in base alle immagini ravvicinate riprese negli anni precedenti dalle sonde automatiche inviate sulla Luna.
Improvvisamente, a 1800 metri dalla superficie lunare, sul pannello di controllo di Eagle si accesero le luci di allarme e lampeggiarono due numeri in codice in un primo momento incomprensibili. Con l’aiuto dei controllori della missione, si capì che il computer era andato in sovraccarico per un eccesso di programmi da gestire. Da Houston venne l’autorizzazione a procedere ugualmente con la discesa. Armstrong attivò i comandi manuali, guidando personalmente il veicolo con l’assistenza di Aldrin, che teneva d’occhio lo scorrere delle cifre che indicavano la velocità orizzontale e verticale di Eagle, oltre al consumo di carburante.
Ma l’emergenza aveva ormai portato Eagle verso una zona ricca di massi e piccoli crateri. Armstrong, con estrema freddezza, scelse con cura il punto che appariva più sicuro, mentre da Houston gli segnalavano – col cuore in gola – che ormai aveva carburante per poche decine di secondi.
Alla fine, librandosi come un elicottero a 30 metri dalla superficie lunare, diresse Eagle verso un punto libero da ostacoli e praticamente orizzontale, spegnendo il motore quando le zampe toccarono il suolo lunare. Seguì un breve scambio di dati tecnici con Houston e alla fine Armstrong potè annunciare: «Houston, Tranquility Base here. The Eagle has landed» (Houston, qui Base Tranquillità. L’Aquila è atterrata). Da Houston arrivò la risposta, fuori di ogni retorica, di Charles Duke, l’astronauta addetto alle comunicazioni (che andrà sulla Luna due anni dopo con Apollo 16): «Roger. Ti riceviamo sulla Luna. Qui c’è un sacco di ragazzi che stavano per diventare blu… ora respiriamo di nuovo. Mille grazie!».
Quando il modulo lunare di Apollo 11 appoggiò le sue “zampe” sulle polveri e le rocce della Luna, in Italia erano le 22.17 di domenica 20 luglio.
Quel “piccolo passo” di Armstrong
Dopo l’atterraggio sulla Luna, gli astronauti si prepararono a uscire dal modulo lunare. Eagle venne depressurizzato e fu aperto il portello, che dava su una minuscola piattaforma esterna. Nei mesi precedenti era stato deciso che fosse Armstrong, in qualità di comandante, a scendere per primo i nove gradini della scaletta fissata a una delle “zampe” di Eagle. Mentre scendeva, l’astronauta attivò una telecamera automatica all’esterno del modulo. Le immagini vennero immesse nel circuito televisivo attraverso il radiotelescopio di Parkes, in Australia, che in quel momento era in posizione ottimale per i collegamenti con la Luna. Sono le immagini live from the Moon che almeno 600 milioni di persone in tutto il mondo hanno visto sui loro televisori in quella giornata storica.
Armstrong si fermò un momento sull’ultimo gradino e poi, lentamente, quasi esitando, appoggiò lo stivale del piede sinistro sulla polvere della Luna, imprimendo la prima orma dell’uomo su un altro corpo celeste, destinata a rimanere intatta per milioni di anni. E pronunciò quella frase entrata subito nell’immaginario collettivo: «That’s a small step for a man, a giant leap for mankind»(Questo è un piccolo passo per un uomo, un passo da gigante per l’umanità). In Italia erano le 4.57 del mattino del 21 luglio 1969.
Mentre Armstrong si allontanava di alcuni passi da Eagle, anche Aldrin aveva cominciato a scendere la scaletta. Giunto sull’ultimo gradino, fece un piccolo salto per toccare il terreno lunare.
Due ore e mezzo sulla Luna
I due astronauti avevano a disposizione un tempo estremamente limitato per quella prima escursione sulla superficie della Luna: appena un paio d’ore. Si adattarono presto e facilmente alla ridotta gravità lunare (un sesto di quella della Terra), imparando a muoversi a piccoli balzelli. Piazzarono a una certa distanza dal modulo lunare una telecamera fissa in grado di riprendere tutti i loro movimenti. Piantarono la bandiera a stelle e strisce – con qualche difficoltà, a causa della durezza del terreno. Ricevettero la telefonata di congratulazioni dal Presidente Richard Nixon. Intanto avevano estratto dalla sezione inferiore del modulo lunare le attrezzature scientifiche che dovevano sistemare attorno al punto di discesa: essenzialmente un sismometro per rilevare i terremoti lunari e un riflettore laser su cui sarebbe stato possibile far rimbalzare un fascio laser lanciato da Terra per conoscere con estrema precisione la distanza tra il nostro pianeta e il suo satellite.
Nella “magnifica desolazione” (come la descrisse Aldrin) del Mare della Tranquillità, i due astronauti raccolsero quasi 22 chili di pietre nella zona circostante l’allunaggio, sollevando con i piedi la sottile polvere lunare che poi ricadeva con innaturale lentezza. Aldrin, con la macchina fotografica Hasselblad fissata sulla tuta all’altezza del petto, scattò centinaia di immagini per documentare l’impresa.
Dopo circa 2 ore e mezzo venne il momento di rientrare nel modulo lunare: prima Aldrin e poi Armstrong, portandosi dietro i due sacchi di pietre e lasciando sulla Luna alcuni piccoli oggetti in memoria degli astronauti caduti sulla via della Luna. Poi, finalmente, i due astronauti si concessero un lungo riposo di sette ore. Collins, intanto, continuando a inanellare le sue orbite solitarie, era tenuto costantemente informato da Houston su come procedevano le cose sulla Luna.
Il rientro
Il momento del decollo dalla Luna arrivò dopo 21 ore e 36 minuti dall’atterraggio. Un momento critico: se il motore della sezione superiore del modulo lunare non avesse funzionato, i due astronauti sarebbero rimasti sulla Luna senza possibilità di soccorso. E Collins, impotente a fornire loro aiuto, avrebbe dovuto imboccare da solo la via verso la Terra.
Ma tutto andò perfettamente. Eagle si sollevò velocemente dalla Luna cominciando l’inseguimento del Columbia di Collins. Dopo il docking in orbita, Armstrong e Aldrin tornarono nella cabina di comando portandosi dietro il prezioso carico di materiale lunare. E il modulo lunare venne abbandonato al suo destino.
Tre giorni durò il viaggio di trasferimento dalla Luna alla Terra, che diventava via via più grande per i tre reduci della prima avventura dell’uomo sul satellite. Prima di iniziare la sequenza finale di rientro, venne sganciato il modulo di servizio, ormai inutile, e Columbia si tuffò nell’atmosfera terrestre. I grandi paracadute a spicchi bianchi e rossi si aprirono nel cielo dell’oceano Pacifico, 380 chilometri a sud dell’atollo Johnston, e la piccola capsula piombò in mare a 24 chilometri di distanza dalla portaerei USS Hornet. In pochi minuti fu sopra di loro un elicottero della squadra di recupero e i sommozzatori consegnarono ai tre astronauti delle leggere tute e maschere a isolamento biologico: una misura che si era deciso di adottare a scopo precauzionale nel caso – estremamente remoto – che il materiale lunare con cui erano venuti a contatto all’interno della navicella contenesse sostanze tossiche o microrganismi infettivi.
Quando Armstrong, Aldrin e Collins scesero dall’elicottero sulla tolda della portaerei, accolti – a distanza di sicurezza – dalle telecamere e dall’entusiasmo dell’equipaggio, dovettero entrare subito in un apposito container in cui trascorsero una quarantena di 21 giorni, tra esami medici e dettagliati briefing della missione. Il presidente Nixon, che li attendeva sulla Hornet, dovette limitarsi a salutarli e parlare con loro attraverso il vetro della finestra del container.
Intanto, quaggiù sulla Terra
Apollo è stato un’impressionante dimostrazione di programmazione tecnologica e organizzazione logistica che coinvolse 20mila tra industrie, università, centri di ricerca e oltre 400mila persone tra funzionari amministrativi, progettisti, ingegneri, scienziati, tecnici, operai. Oltre, naturalmente, a chi rischiava la vita in prima persona: gli astronauti.
La missione Apollo 11 ha avuto, specie negli Stati Uniti e in Europa, una copertura mediatica senza precedenti. È entrata nella storia della televisione italiana e del nostro costume nazionale la diretta no-stop di 28 ore della Rai (allora in bianco e nero) che vide mobilitate 250 persone tra giornalisti e tecnici. Il picco di ascolti venne raggiunto nelle primissime ore del mattino del 21 luglio, al momento del “primo passo” di Armstrong, con 11 milioni di telespettatori.
Quali i costi dell’impresa? Sono stati calcolati in circa 25 miliardi di dollari al valore del 1973 (equivalenti a 112 miliardi del 2018, ripartiti sull’arco di anni che va dal 1960 al 1973). Il bilancio della NASA toccò nel 1966 i 5 miliardi di dollari, pari al 5,5 per cento del Prodotto interno lordo.
Inizialmente erano state programmate dieci missioni di sbarco sulla Luna. Ne vennero realizzate sette (con sei sbarchi , a causa dell’incidente ad Apollo 13). Le ultime tre – che pure avrebbero avuto una rilevante valenza scientifica per lo studio geologico della Luna – vennero cancellate. L’obiettivo di battere l’Unione Sovietica nella corsa alla Luna era stato raggiunto, le missioni erano estremamente pericolose per la vita degli astronauti (la possibilità di una tragedia era stimata al 50 per cento) e incombeva la fase più drammatica della guerra del Vietnam.
Dal canto suo, l’Unione Sovietica, dopo il primo sbarco di Apollo 11, decise di cancellare l’intero programma lunare per evitare di evidenziare la propria inferiorità tecnologica nei confronti degli Stati Uniti.
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