Imparare con consapevolezza
Le implicazioni sociolinguistiche della comunicazione
L’esperienza comune insegna che ci si applica assai più volentieri sapendo a cosa serve un determinato addestramento (si tratti della scuola guida piuttosto che di un allenamento sportivo), mentre si ricalcitra sempre davanti a un’attività di cui non si veda lo scopo.
L’ermeneutica letteraria può aiutare a comprendere quanto sia utile padroneggiare una lingua, perché mette in luce la portata e le implicazioni di ogni atto comunicativo, focalizzando l’attenzione sulle molteplici funzioni coinvolte in esso. Non alludo, beninteso, a quelle elencate da Jakobson nel suo celebre schema, ma a un ordine ulteriore di funzioni, di pertinenza latamente sociolinguistica. Oltre tutto, come si vedrà, esse investono proprio alcuni nodi cruciali dell’educazione alla cittadinanza. Qui di seguito ne esamineremo alcune tra le principali.
La funzione culturale
Scrivendo a Claude Fauriel, il 9 febbraio 1806, il giovane Manzoni tratteggiava un quadro abbastanza desolante delle competenze linguistiche degli italiani. Merita partire proprio da questa lettera, per sviluppare una riflessione sull’importanza davvero cruciale di una “comunicazione sostenibile”. Queste le sue amare constatazioni:
Per nostra sventura, lo stato dell’Italia divisa in frammenti, la pigrizia e l’ignoranza quasi generale hanno posta tanta distanza tra la lingua parlata e la scritta, che questa può dirsi quasi lingua morta. Ed è perciò che gli scrittori non possono produrre l’effetto che eglino (m’intendo i buoni) si propongono, d’erudire cioè la moltitudine, di farla invaghire del bello e dell’utile, e di rendere in questo modo le cose un po’ più come dovrebbono essere. Quindi è che i bei versi del Giorno non hanno corretti nell’universale i nostri torti costumi più di quello che i bei versi della Georgica di Virgilio migliorino la nostra agricoltura.
(A. Manzoni, Tutte le lettere, Adelphi, Milano 1986, I, p. 19)
Il progresso delle conoscenze, il miglioramento dei costumi, l’affermarsi di un’opinione pubblica e di un comune sentire, tutto ciò, insomma, che concorre al rigoglio e alla forza di una nazione, dipende in gran parte dal livello delle competenze linguistiche condivise dai suoi membri. La comunicazione verbale è sempre stata il principale veicolo di incivilimento e continua a esserlo anche nelle società avanzate, dove anzi si richiedono capacità di comprensione e abilità performative ancora più raffinate. Chi non ha accesso a una lingua non può attingere all’immenso giacimento di tesori e di saperi che è il patrimonio di una cultura, né possedere gli strumenti intellettuali indispensabili per stare al passo con lo sviluppo accelerato e le profonde trasformazioni in atto.
La funzione coesiva
Se poi la preoccupazione del Manzoni ventenne era ancora quella di un poeta esordiente che aveva innestato il precetto oraziano dell’utile dulci nel tronco robusto del riformismo illuminista, nell’ode Marzo 1821 la “questione della lingua” sarebbe stata ripensata in una prospettiva compiutamente romantica e risorgimentale, assunta tra i fattori identitari come una condizione imprescindibile per la formazione di una coscienza nazionale e la costruzione di uno Stato unitario libero e sovrano (vv. 29-32):
[…]
una gente che libera tutta,
o fia serva tra l’Alpe ed il mare;
una d’arme, di lingua, d’altare,
di memorie, di sangue e di cor.
[…]
Non sfugga la disposizione gerarchica dei fattori identitari, che si armonizza perfettamente con le esigenze del ritmo anapestico e del sistema di rime: l’unità linguistica viene evocata subito dopo quella politico-militare, perché, se le armi tutelano l’indipendenza di uno Stato legittimamente costituito all’interno dei propri confini naturali («tra l’Alpe ed il mare»), la lingua è il liquido amniotico di una nazione, il più formidabile dei collanti relazionali, capace di trasmettere il senso di appartenenza a un popolo e a un comune destino più e meglio di quanto non possano la religione, la storia e qualunque altro elemento di coesione.
La funzione ideologica
Il linguaggio può essere anche la cinghia di trasmissione di un’egemonia, un modo per segnalare una posizione dominante. Vengono subito in mente, a questo riguardo, tante pagine di d’Annunzio. Si prenda, per fare solo un esempio, il proclama ai patrizi inserito nelle Vergini delle rocce, manifesto ideologico del superomismo dannunziano, dove l’autore piega in senso oligarchico e suprematista il principio darwiniano della selezione naturale:
La forza è la prima legge della natura, indistruttibile, inabolibile. […] Il mondo non può essere constituito se non su la forza, tanto nei secoli di civiltà quanto nelle epoche di barbarie. […] Per fortuna lo Stato eretto su le basi del suffragio popolare e dell’uguaglianza, cementato dalla paura, non è soltanto una costruzione ignobile ma è anche precaria. Lo Stato non deve essere se non un instituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione d’una classe privilegiata verso un’ideal forma d’esistenza. Su l’uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia, voi andrete dunque formando una oligarchia nuova, un nuovo reame della forza; e riuscirete in pochi, o prima o poi, a riprendere le redini per domar le moltitudini a vostro profitto. Non vi sarà troppo difficile, in vero, ridurre il gregge all’obedienza. Le plebi restano sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli.
(G. d’Annunzio, Prose di romanzi, Arnoldo Mondadori, Milano 1989, II, pp. 30-31)
Lo stampo ideologico di questo proclama emerge tanto nel tono apodittico delle affermazioni quanto nelle scelte lessicali, tutt’altro che neutre, anzi decisamente connotate in senso politico, espressione sprezzante di un disegno reazionario, per cui, per esempio, non si parla di popolo, di nazione, di cittadini, ma di «moltitudini», di «gregge», di «plebi», non di libertà e di diritti, ma di «forza», di «paura», di «obedienza», di «reame», di «domar», di «redini», di «vincoli», di «schiave»; col risultato che in questo contesto «uguaglianza» e «democrazia» diventano bersagli polemici, idoli da abbattere.
Possedere a livello avanzato una lingua comporta anche la capacità di comprenderne, sul piano connotativo, i sottintesi ideologici. Stiamo parlando, inutile dirlo, di un requisito fondamentale, la base indispensabile di tutte le competenze chiave di cittadinanza e dell’autonomo esercizio del nostro volere. Nella moderna società di massa più ancora che in passato, dalle competenze linguistiche dipende il nostro destino di liberi cittadini o di “gregge” dannunziano da manipolare a piacimento.
La funzione sociale
Impadronirsi di una lingua conta però, soprattutto, per le sue implicazioni relazionali e sociali. Su questo punto le opere letterarie ci offrono una casistica sterminata. Partiamo da un episodio notissimo dei Promessi sposi: cosa fa don Abbondio, dopo l’ingiunzione dei bravi, per rinviare la celebrazione del matrimonio tra Renzo e Lucia e prendere tempo? Ricorre al proverbiale latinorum del diritto canonico. I pretestuosi impedimenti che accampa traggono tutta la loro efficacia dall’essere pronunciati in una lingua inaccessibile al suo pur determinatissimo e impaziente interlocutore. L’astuto e pavido curato fa valere la sua superiorità culturale sul povero montanaro semianalfabeta, costringendo Renzo a capitolare.
In questa come in tante altre situazioni analoghe la competenza linguistica conferisce a chi la possiede un’auctoritas vincente, che egli può usare anche scorrettamente, a proprio vantaggio, contro ogni giustizia, ogni verità o fondato motivo. Nei rapporti sociali la superiorità linguistica può diventare, e spesso diventa, un’arma di discriminazione, uno strumento al servizio del potere.
Avevano ragione, in questo senso, i ragazzi della Scuola di Barbiana, quando in Lettera a una professoressa scrivevano: «È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui». Se don Lorenzo Milani decise di porre lo sviluppo delle competenze linguistiche al centro della propria innovativa esperienza didattica, fu proprio per favorire l’emancipazione sociale delle classi subalterne e creare i presupposti per un’autentica parità sul piano dei rapporti. Per far comprendere a quali possibili insidie esponga l’ignoranza o la povertà linguistica, credo non ci sia lettura più adatta di Fontamara, dove Silone riconduce per l’appunto a un gap anzitutto linguistico i torti e i raggiri che subiscono i poveri abitanti di quel villaggio della Marsica: «e chi non lo sa? Un cittadino e un cafone difficilmente possono capirsi. Quando lui parlava era un cittadino, non poteva cessare di essere un cittadino, non poteva parlare che da cittadino. Ma noi eravamo cafoni. Noi capivamo tutto da cafoni, cioè, a modo nostro. Migliaia di volte, nella mia vita, ho fatto questa osservazione: cittadini e cafoni sono due cose differenti. In gioventù sono stato in Argentina, nella Pampa; parlavo con cafoni di tutte le razze, dagli spagnuoli agl’indii, e ci capivamo come se fossimo stati a Fontamara; ma con un italiano che veniva dalla città, ogni domenica, mandato dal consolato, parlavamo e non ci capivamo; anzi, spesso capivamo il contrario di quello che ci diceva.» (I. Silone, Romanzi e saggi, Arnoldo Mondadori, Milano 1998, I, p. 23)
La funzione persuasiva
Essere padroni di una lingua non serve, naturalmente, soltanto a gestire meglio, senza sudditanze culturali o psicologiche, determinate dinamiche relazionali, ma anche a riferire in ordine una vicenda, a sviluppare a fil di logica un ragionamento, a illustrare brillantemente un progetto, a formulare in maniera convincente un’ipotesi, a far valere le proprie ragioni: a porsi con successo, in altri termini, nelle varie circostanze della vita. Anche in questo caso, per una verifica sul campo della rilevanza che hanno, in qualsiasi situazione comunicativa, le competenze lessicali, retoriche e argomentative si può ricorrere con frutto a qualche testo letterario, attingendo di preferenza, per l’occasione, agli «scrittori di natura più propriamente filosofica», come ebbe a definirli Luigi Pirandello nella Prefazione ai Sei personaggi in cerca d’autore (in L. Pirandello, Maschere nude, Arnoldo Mondadori, Milano 1993, II, p. 655).
E si potrebbe partire proprio da lui, dai suoi romanzi maggiori non meno che dal suo teatro dialettico, percorsi gli uni e l’altro da un vero e proprio furor dimostrativo. Ma si potrebbe ugualmente puntare, con identico profitto, su Giacomo Leopardi, analizzando certe Operette morali come Il Parini, ovvero della gloria o il Dialogo di Plotino e di Porfirio; sempre che non si preferisca cimentarsi, piuttosto, col Nome della rosa, dove Umberto Eco inscena un conflitto epocale tra due mentalità e due visioni del mondo.
Si presterebbe ottimamente allo scopo, inoltre, uno scrittore come Elio Vittorini, la cui opera narrativa, in fondo, è una continua celebrazione della civiltà del dialogo. Qui, anzi, potrebbe rivelarsi particolarmente istruttivo un confronto tra le enunciazioni forzatamente ellittiche e allusive, sentenziose e oracolari, di Conversazione in Sicilia e l’impianto democraticamente argomentativo che guadagnano invece le discussioni nelle Donne di Messina, come quella che si accende tra i partigiani provenienti dalla città e la gente del villaggio appenninico in materia di sviluppo economico.
Questi suggerimenti di lettura vogliono essere dei semplici spunti per un lavoro didattico mirato al riconoscimento del ruolo che giocano le competenze linguistiche in ogni atto comunicativo che ci metta in rapporto con altri soggetti. La letteratura si offre sempre come terreno privilegiato e illuminante di accertamento e di riflessione, perché è, per natura, la scienza dei secondi fini.
Referenze iconografiche: Alfio Scisetti/Shutterstock